• Non ci sono risultati.

Stefano Bertolini e il laboratorio del giurisdizionalismo toscano.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Stefano Bertolini e il laboratorio del giurisdizionalismo toscano."

Copied!
157
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN STORIA E CIVILTÀ

TESI DI LAUREA

Stefano Bertolini e il laboratorio del giurisdizionalismo toscano

RELATORE

Prof. Roberto BIZZOCCHI

CANDIDATA Beatrice PALLOTTA

(2)

Indice

Introduzione ... 4

Capitolo 1. A proposito di Stefano Bertolini e del giurisdizionalismo 1.1 Breve biografia di Stefano Bertolini ... 6

1.2 Definizione di giurisdizionalismo ... 15

1.3 Il movimento giurisdizionalista in Italia ... 22

1.4 Il giurisdizionalismo di Stefano Bertolini ... 35

1.5 Iura circa sacra ... 43

1.6 Un accenno alla storiografia moderna ... 58

Capitolo 2. Ricostruzione del percorso intellettuale di Stefano Bertolini e breve accenno agli autori citati nella filza n. 289 2.1 Introduzione al capitolo ... 65

2.2 Paolo Sarpi ... 67

2.3 Pietro Giannone... 76

2.4 Zeger Bernard Van Espen ... 80

2.5 Un sistema giurisdizionale consolidato: il paradigma gallicano ... 83

2.6 Thomas Hobbes... 93

2.7 In chiusura ... 96

Capitolo 3. Analisi della filza n. 289, Stephani Bertolini collectanea sacerdotii et imperii de iurisditione 3.1 La filza n. 289 ... 98

3.2 La legittimazione del potere secolare per mezzo delle Sacre Scritture ... 101

(3)

3.4 L’origine del potere episcopale e pontificio ... 134

3.5 Il conflitto tra due monarchie assolute ... 141

3.6 Il modello gallicano ... 146 Conclusione ... 151 Fonti e bibliografia ... 152 Fonti documentarie ... 152 Bibliografia primaria ... 152 Bibliografia secondaria ... 153 Sitografia ... 157

(4)

Introduzione

Lo studio presentato all’interno di questa tesi ha come punto di partenza la filza n. 2891, una collezione miscellanea i cui testi furono raccolti da Stefano Bertolini (1711-82), funzionario del Granducato di Toscana. La filza fa parte del Codex sacerdotii et

imperii2 che, a sua volta, completa un’altra raccolta costituita da sette codici ed intitolata Appendix ad Muratori Monumenta Medii Aevi3. Quest’ultima nacque con il proposito di essere un’appendice alle Antiquitates Italicae Medii Aevi4 di Ludovico Antonio Muratori. L’opera si inserisce all’interno del dibattito giurisdizionalista toscano settecentesco e manifesta tutte le peculiarità degli scritti regalisti dell’epoca. La sua analisi risulta essere interessante in quanto permette di comprendere appunto i contenuti del movimento italiano e d’Oltralpe. L’obiettivo di questa tesi è dunque quello di conoscere, attraverso lo studio della filza n. 289 che cosa fu il movimento giurisdizionalista, che sembianze assunse nel Granducato di Toscana durante gli anni in cui Bertolini fu Segretario del Regio Diritto, e da quali altre forme di regalismo il caso toscano fu influenzato.

Il seguente lavoro si articola in tre parti. Innanzitutto, un capitolo dove sarà introdotto Stefano Bertolini attraverso una breve biografia, in parte frutto della ricerca da me svolta presso l’Archivio di Stato di Firenze. Il capitolo proseguirà attraverso l’enunciazione di cosa è il giurisdizionalismo, con una breve digressione sullo specifico caso italiano e, ancor più nel dettaglio, su quello toscano. Un paragrafo sarà poi dedicato al giurisdizionalismo di Stefano Bertolini, intendendo con ciò sia la definizione ch’egli diede del movimento, sia la messa in pratica di politiche giurisdizionaliste negli anni del suo mandato come Segretario del Regio Diritto. Al fine di descrivere questo

1 Conservata presso il fondo Consiglio di Reggenza dell’Archivio di Stato di Firenze. 2 ASFi, Consiglio di Reggenza, ff. 264-289.

3 ASFi, Consiglio di Reggenza, ff. 246-315.

(5)

complesso movimento politico e culturale, mi dedicherò inoltre all’analisi del rapporto tra società e religiosità, ovvero la nuova spiritualità e la crisi religiosa del XVII-XVIII secolo. Quest’ultima ebbe la sua origine anche nella nuova critica cui venne sottoposto il testo sacro, a partire dal Trattato teologico-politico (1670) di Baruch Spinoza, opera che aprì la strada a forme estreme di attacco alla religione (come furono poi quelle di Locke, Bayle e Toland). L’opera di Spinoza sarà poi oggetto di confronto con il De

imperio summarum potestatum circa sacra di Ugo Grozio e con il Leviatano di Hobbes

sul tema degli iura circa sacra, ossia il diritto sulle “cose ecclesiastiche” rivendicato dai sovrani europei in età moderna. Trattare di giurisdizionalismo implica poi un approfondimento storiografico e metodologico, in quanto nel XVIII secolo la ricerca storica subì una svolta “moderna”, mediante l’assunzione di un atteggiamento rigorosamente scientifico.

Il secondo capitolo prevedrà la ricostruzione del percorso intellettuale che Bertolini fece per selezionare gli autori da citare nella filza n. 289; mi soffermerò su alcuni di questi scrittori e tratterò brevemente del loro rapporto con il movimento giurisdizionalista, fornendo anche qualche informazione biografica.

Il terzo capitolo si caratterizzerà per l’esposizione delle tesi giurisdizionaliste contenute all’interno della filza n. 289. Tuttavia, per garantire una certa coerenza e per offrire una visuale più ampia sul tema del regalismo, saranno menzionati anche altri autori ed altre opere letterarie.

(6)

CAPITOLO I

A proposito di Stefano Bertolini e del giurisdizionalismo

1.1 Breve biografia di Stefano Bertolini

Stefano Bertolini nacque a Pontremoli il 13 giugno 1711, secondogenito dei nobili Giulio Cesare Bertolini e Anna Maria Canossa. Egli fu dal padre indirizzato allo studio del diritto e, dopo una prima formazione nel Collegio Cicognini di Prato, proseguì gli studi presso l’Università di Pisa. Ebbe un’illustre carriera all’interno del Granducato e, all’apice del suo ministero, giunse a ricoprire il ruolo di Segretario del Regio Diritto (1778-82) del Granduca Pietro Leopoldo. Una buona biografia di Bertolini è stata realizzata sia da Pietro Bologna5, che da Giorgio Giorgetti6, pertanto

grazie al loro contributo, integrato con materiale reperito presso l’Archivio di Stato di Firenze, verranno accennati alcuni aspetti interessanti della sua vita.

Stefano Bertolini, come altri giuristi d’indirizzo storico-erudito formatisi presso l’Università di Pisa7, s’interessò e s’inserì nel dibattito che animò i circoli intellettuali toscani nel corso della seconda metà del Settecento circa la necessità di redigere un nuovo Codice8. L’esigenza scaturì dalla confusione, dalle contraddizioni e dalle carenze

5 La biografia realizzata da Bologna fu redatta cinquant’anni prima di quella di Giorgetti. Nonostante la

seconda sia più completa, reputo essere valida anche la prima.

P. Bologna, Stefano Bertolini, giureconsulto e statista toscano del secolo XVIII, in «Rassegna Nazionale», CXL, Novembre-Dicembre 1904, pp. 188-208.

6 G. Giorgetti, Stefano Bertolini: l’attività e la cultura di un funzionario toscano del sec. XVIII

(1711-1782), in «Archivio storico italiano», 397, 1951, Firenze, pp. 84-120.

7 V. Piano Mortari, Tentativi di codificazione nel Granducato di Toscana nel secolo XVIII, Milano,

Giuffrè, 1953, p. 15.

8 A Pompeo Neri (1706-76), allievo di Giuseppe Averani e detentore della prima cattedra italiana di

diritto pubblico, spettò per primo il compito di riordinare il diritto toscano. Tuttavia, il suo progetto non riuscì a tradursi in un concreto documento legislativo, e i lavori terminarono senza essere conclusi nel 1747. Il fallimento fu causato dalla stessa personale cultura giuridica di Neri, definito senza indugi da Tarello come un “riformatore conservatore”. Per approfondire la questione si rimanda a: I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 375-383; A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, vol. I, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 284-287; V. Piano Mortari, Tentativi, op. cit., pp. 34-63, 105-168.

(7)

presenti nel sistema giuridico vigente. Infatti, il tipico apparato normativo statuale si costituiva oltre che delle leggi moderne del sovrano, anche del diritto romano9, del diritto feudale, del diritto canonico; vi erano poi gli statuti cittadini e i decreti delle magistrature locali. La certezza, la chiarezza e l’unità del diritto erano minacciate da questa gran quantità di leggi, talvolta contrastanti o riportanti pareri differenti sulla medesima questione10; era evidente la necessità di riformare l’apparato normativo. Il

Granducato di Toscana, nonostante fosse un’unità statuale (poiché riunito sotto uno stesso governo e sotto un unico sovrano), si presentava più come un agglomerato di province aventi propri ordinamenti, vari tante quante erano le comunità, le città e i feudi che li componevano. La situazione si era aggravata nei secoli precedenti l’avvento dei Lorena, quando erano state emanate nuove leggi, volte a rispondere ai mutamenti politici e sociali, senza però che fossero abrogate le norme già esistenti con cui entravano in contraddizione11.

Nella sua proposta di un nuovo Codice Bertolini, a differenza di altri giuristi, non reputò necessario cancellare il diritto preesistente, bensì conservare le norme fondamentali del diritto romano, a cui incorporare gli insegnamenti del giusnaturalismo (diffusi a Pisa da Averani12, studioso di Ugo Grozio) e dello ius naturae13.

9 Il diritto romano era un elemento dominante nell’esperienza giuridica degli ordinamenti politici europei,

in quanto diede vita a quel caratteristico sistema di fonti giuridiche che chiamiamo “diritto comune”. Con la nascita dello Stato moderno e di una politica statualistica, lo Stato rivendicò un’esclusività nel diritto a scapito sia dei diritti particolari, che del diritto comune. La questione della “codificazione” era centrale per la sovranità laica moderna, e urgente era la realizzazione di un codice razionale e organico di norme statali. A. Cavanna, Storia, op. cit., pp. 67, 193-194, 197-202, 296-302.

10 Ivi, pp. 194-195; V. Piano Mortari, Tentativi, op. cit., p. 12. 11 V. Piano Mortari, Tentativi, op. cit., pp. 5-8.

12 Giuseppe Averani (1662-1738) fu matematico, fisico sperimentale, studioso di teologia, accademico

della Crusca e giurista. Averani tenne la cattedra di istituzioni e di diritto civile presso l’Università di Pisa, dal 1685 alla sua morte. Egli fu un punto di riferimento per la cultura del suo tempo, e diversi soggetti protagonisti delle successive riforme uscirono dalle sue aule. I. Birocchi, Alla ricerca, op. cit., pp. 327-328.

13 M. Mirri, Bertolini Stefano, in Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma, Istituto

dell’Enciclopedia italiana, 1967.

La voce presente nel DBI è tratta dall’articolo: M. Mirri, Profilo di Stefano Bertolini, un ideale montesquieuiano a confronto col programma di riforme leopoldino, in «Bollettino storico pisano», XXXIII-XXXV, 1964-66, pp. 433-468.

(8)

«Le scritture per altro devono essere il frutto della ragione, e d’una solida dottrina attinta da i Fonti delle Leggi, e da una Giurisprudenza stabilita in veri princìpi, non già da un servile ammasso di autorità»14.

Nella filza n. 30615, intitolata Meditationes et relationes, Stefano Bertolini scrisse che

questa nuova raccolta si sarebbe dovuta comporre di norme scritte in volgare e con un linguaggio semplice, in modo che non ci fossero fraintendimenti circa la loro interpretazione. Non sarebbero dovuti comparire né grecismi né latinismi, anzi egli affermò che il linguaggio più funzionale poteva essere quello delle «negoziazioni, dove i ministri di Moscovia […] sono intesi dai ministri di Versaglies [sic!] e di Londra»16.

Per realizzare il nuovo Codice sarebbe stato necessario conservare le leggi passate fondamentali e le leggi passate non fondamentali ma reputate buone, fissando sia per le une che per le altre delle regole di interpretazione universali. Questa raccolta si sarebbe aperta con un proemio che avrebbe enunciato le massime capitali della giurisprudenza, e successivamente si sarebbe articolata in sei capitoli: sugli affari di Stato, di finanza, di commercio, di polizia, criminali e civili.

Ad occuparsi dell’esecuzione delle leggi dovevano essere chiamati uomini in grado di distinguere «il male dal peggio e il bene dal meglio»17, gli abusi che potevano silenziosamente essere sopportarti entro certi limiti, da quelli che invece era necessario contrastare fin da subito18.

«Queste persone devono essere non pedanti, non appassionati, bensì con esperienza e con una solida dottrina, perché sono necessarie leggi ripiene d’umanità e dolcezza, ottenibili solo se vi è una mente illuminata»19.

Il ceto dei giuristi si componeva di due gruppi: una minoranza di intellettuali e alti funzionari attivi nell’équipe di governo, favorevoli a una riforma e ad una

14 ASFi, Consiglio di Reggenza, f. 306, cc. non num. 15 Ibidem.

16 Ibidem. Intendendo presumibilmente la lingua francese. 17 Ibidem.

18 Ibidem. 19 Ibidem.

(9)

semplificazione giuridica; a questi si contrapponeva una maggioranza composta dall’ambiente avvocatesco e curiale, caratterizzato da un immobilismo conservatore e tradizionalista. Questo secondo gruppo costituiva uno dei principali ostacoli alla riforma giudiziaria e legislativa, e all’accentramento di questi poteri nelle mani del governo20; riformare il ceto dei giuristi era perciò uno dei punti cardine per il processo di codificazione.

Leggi semplici e chiare, giudici capaci di applicarle con discernimento, sveltezza e semplificazione delle controversie giuridiche, queste erano le esigenze sentite dagli intellettuali settecenteschi. Per questo nella tarda età moderna gli ordinamenti statali cercarono di imporre la loro supremazia, per rimediare a quell’ammasso frammentario di norme. Risalgono al XVII e XVIII secolo i grandi sforzi per creare raccolte razionalmente organizzate e prive di contraddizioni, tuttavia fu solo con l’Illuminismo che furono redatti corpi di leggi rispondenti alle richieste di intellettuali come Bertolini. Quest’ultimo, da parte sua, tentò di modificare le cose, come dimostra un motuproprio risalente al 25 agosto 1778 dove proponeva di rendere pubbliche le udienze dei processi civili21. Il vantaggio sarebbe stato una riduzione degli imbrogli da parte dei giudici e

degli avvocati, i quali sarebbero stati oltretutto costretti a lavorare meglio poiché esposti al giudizio di un pubblico. Si sarebbero poi eliminati quel mistero e quel segreto che circondavano l’operato dei giudici.

La proposta per la riforma del codice formulata da Bertolini non presenta in sé una grande originalità, poiché sembra riprendere totalmente la tesi sostenuta da Ludovico Antonio Muratori in Dei difetti della Giurisprudenza (1742). Eccone a dimostrazione un passo, che ricalca esattamente il pensiero di Bertolini:

«Dovrebbero queste [le leggi] esser chiare, con termini ben esprimenti la mente del Legislatore; ma né pur tutte quelle, che abbiamo nel corpo del Gius di Giustiniano,

20 A. Cavanna, Storia, op. cit., pp. 302-303; V. Piano Mortari, Tentativi, op. cit., p. 11. 21 ASFi, Segreteria di Stato, f. 245, p. 33, in. 47.

(10)

o ne gli Statuti di varie Città, portano in sé questo pregio; e perciò li rendono suggette a varie interpretazioni»22.

Riteneva infatti Muratori che «la giustizia non funzionava in quanto irretita in “un eccesso di ingegno”, che si esaltava nei meandri dell’esercitazione giuridica, “lambicchi della repubblica legale”»23. Era necessario riunire l’intero apparato legislativo in un

unico corpo di leggi, non contrastanti tra loro e in grado di rispondere a tutte le richieste politiche e sociali; per Muratori il modello da cui prendere spunto era la raccolta realizzata da Vittorio Amedeo II di Savoia24. Tuttavia, nell’opera Dei difetti della

Giurisprudenza la denuncia sullo stato della giurisprudenza non diede vita a teorie

codificatorie, bensì a un lavoro preparatorio della codificazione, definito da Cavanna come superficiale e semplicistico, e da Pecorella come un interessante saggio sulla crisi del diritto comune, ma non certo una proposta organica e costruttiva per il processo di codificazione25. Inoltre, Cavanna afferma che Muratori può essere assunto quale modello di quell’atteggiamento antigiurisprudenziale e antiforense, che si diffuse tra l’opinione pubblica dalla fine del XVI secolo26.

Seppur non sia del tutto originale, la posizione assunta da Bertolini nel dibattito sulla riorganizzazione del diritto rivela quale fosse stata la sua formazione, la sua posizione politica e la sua forma mentis. Queste si chiariscono ulteriormente soffermandoci su un secondo aspetto della sua vita.

Bertolini fece parte di quel gruppo di intellettuali dagli orientamenti moderni che Antonio Anzilotti non esitò definire «uomini nuovi»27, seguito nella stessa scia da

22 L. A. Muratori, De i difetti della giurisprudenza, Napoli, Stamperia Muziana, 1743, pp. 12-13.

23 D. Carpanetto, G. Ricuperati, L’Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, Lumi, Bari, Laterza, 2008,

p. 215.

24 Vittorio Amedeo II riunificò le leggi in un unico testo prima nel 1723, poi nel 1729. 25 A. Cavanna, Storia, op. cit., pp. 310-311.

26 Ibidem.

27 A. Anzilotti, Le riforme toscane nella seconda metà del sec. XVIII, in Movimenti e contrasti per l’unità

(11)

Mario Mirri, che li descrisse come i «nuovi funzionari» granducali28. Costoro si

distinsero da chi li aveva preceduti non per le origini (poiché erano anch’essi di sangue nobile29), bensì per il nuovo modo di pensare che li caratterizzava, in quanto plasmati nell’Illuminismo scientifico proprio dell’Ateneo pisano30. I nuovi giuristi del Granducato si contraddistinsero per la passione per la ricerca scientifica, per le indagini erudite e per il rifiuto dell’aristotelismo in tutti i campi della cultura31. Furono ad

esempio convinti che la scienza non potesse stare chiusa in uno studio, ma dovesse avere un effettivo utilizzo nella vita quotidiana; come scrisse Antonio Genovesi: «la ragione non è utile se non quando è divenuta pratica e realtà»32. Parole simili sono quelle di Bertolini, il quale affermò:

«Preferisco agl’autori di solo studio quelli che allo studio uniscono l’esperienza negl’affari. I classici greci e romani hanno per lo più questo merito. Fra i moderni Bacone, Temple, Sully, Macchiavello, Fra Paolo, Grozio, Agusseau, Cristiani, e le letture de Negoziatori. Montesquieu è l’eccezione, che maggiormente conferma la regola»33.

E ancora, nel periodico di Giovanni Lami «Novelle letterarie» del 1782, si pone in nota il fatto che egli si dedicò allo studio della giurisprudenza non come scienza fine a sé stessa, bensì prestandola alla pratica del diritto pubblico e alla politica, in quanto «tali soglion essere ordinariamente gli elementi per formare un buon Ministro»34. Il Granducato, sia nel periodo della Reggenza, che durante il regno di Pietro Leopoldo, poté contare su funzionari che non diedero vita a riflessioni teoriche di gran respiro, ma che utilizzarono il sistema della ricerca empirica per svolgere il loro ruolo di funzionari

28 M. Mirri, Bertolini, op. cit.

29 A. Anzilotti, Le riforme toscane nella seconda metà del sec. XVIII, in Movimento, op. cit., p. 150. 30 M. Rosa, Giurisdizionalismo e riforma religiosa nella politica ecclesiastica leopoldina, in «Rassegna

Storica Toscana», XI, 1965, p. 258.

31 V. Piano Mortari, Tentativi, op. cit., p. 64.

32 D. Carpanetto, L’Italia del Settecento. Illuminismo e movimento riformatore, Torino, Loescher, 1980,

pp. 137-138.

33 ASFi, Reggenza, f. 306.

34 G. Lami (a cura di), Stefano Bertolini, in «Novelle letterarie pubblicate in Firenze», XIII, Firenze,

(12)

amministrativi, dimostrando di aver fatta propria l’ideologia del servizio in funzione di un bene comune. Come sottolinea Gaetano Greco, i funzionari granducali fondarono sulla tradizione culturale giusnaturalistica e sulla fedeltà al sovrano una continuità nell’esercizio della giurisdizione regia, che permise a Pietro Leopoldo di attuare ardite riforme (sino ad immaginare la possibile nascita di una Chiesa nazionale toscana)35.

Anche Bertolini modellò il suo ruolo di funzionario sulla base del metodo scientifico moderno. Egli reputò essere un “buon” ministro colui che agiva sulla base dell’osservazione e dell’esperienza, che utilizzava gli strumenti dell’erudizione storica e della raccolta dei documenti del passato per conoscere la realtà, che aveva come obiettivo la garanzia della pubblica felicità dei sudditi. Chiaro è il giudizio sul suo tempo di stampo illuministico, evidente l’adesione alla corrente muratoriana.

In conclusione, deve esser fatto un breve accenno alle due principali opere di Stefano Bertolini: l’Analyse raisonnée de l’Esprit des Lois36 e La mente di un uomo di

Stato37. La prima fu redatta intorno agli anni ‘50 ed edita nel 1771; il progetto non fu però completato, Bertolini scrisse solo la prefazione dell’opera. L’intento era quello di realizzare una complessa e strutturata critica del testo di Montesquieu, L’Esprit des

Lois. L’operetta, in francese, ottenne il favore dei suoi lettori, ma anche di Montesquieu

che nel 1754 spedì per lettera i suoi complimenti all’autore. La lettura dell’Esprit proposta da Bertolini è di stampo illuministico-riformatore, un’opera di “scienza pratica”, che se ben letta poteva essere utile per un miglioramento dei rapporti tra sovrano e sudditi. Montesquieu fu ampiamente studiato nella Toscana dell’epoca, ed è grazie al suo lavoro che l’Illuminismo penetrò e mise le radici nel Granducato. Secondo

35 G. Greco, Giurisdizionalismo e modernità, confessionalizzazione e secolarizzazione. Note a margine, in

La prassi del giurisdizionalismo negli Stati italiani, a cura di D. Edigati, L. Tanzini, Aracne, 2015, pp. 287-288.

36 I ed. Ginevra 1771; II ed. Pisa 1784; ristampato in: Montesquieu, Œuvres Posthumes, Parigi, 1783.

Manoscritto originale conservato presso: ASFi, Consiglio di Reggenza, ff. 777-782.

(13)

Bologna, le opere del francese ebbero ampia diffusione poiché erano state scritte magistralmente ed erano state sapientemente coniugati gli argomenti centrali dei dibattiti intellettuali dell’epoca38. Piano Mortari asserisce che l’opera di Montesquieu godette di un ampio consenso tra i giuristi italiani della seconda metà del XVIII secolo, perché fu conforme al pensiero italiano dell’epoca; gli intellettuali della penisola erano meglio disposti verso la storia, la filosofia empirica e la trattazione di problemi pratici, che non nei confronti della metafisica, delle formulazioni astratte ed universali39.

La condanna al dispotismo presente nell’Esprit, e ben sviluppata nell’Analyse, condusse Bertolini allo studio approfondito di Niccolò Machiavelli. Mirri definisce Bertolini come

«un Machiavelli religioso, costumato, difensore della fede e della virtù, preoccupato di un governo moderato, pacifico, rispettoso delle esigenze dei sudditi e dei princìpi di giustizia e umanità verso tutti, esaltatore di un principe umanitario e beneficiante, acuto denunciatore di ogni forma di tirannia»40.

La mente di un uomo di Stato, edita nel 1771, è una condanna della tirannia ed

un’esaltazione dell’ideale repubblicano. Machiavelli e Montesquieu furono spesso oggetto di parallelismi nella storia della letteratura, in virtù del loro atteggiamento fiducioso nelle leggi e dell’ammirazione da entrambi nutrita verso il popolo romano (forte sostenitore della res publica e dell’aequalitas); inoltre, Machiavelli sembrò teorizzare quella separazione dei poteri poi illustrata dal francese all’incirca due secoli dopo. La mente di un uomo di Stato si presenta come uno zibaldone di massime e sentenze di Machiavelli, decontestualizzate e sfruttate da Bertolini per articolare la propria argomentazione: una critica velata alla politica economica del nuovo sovrano Pietro Leopoldo. La critica al Granduca scaturì dalle tensioni che si erano venute ad instaurare a seguito della decisione di Pietro

38 P. Bologna, Stefano, op. cit., p. 190. 39 V. Piano Mortari, Tentativi, op. cit., p. 71. 40 M. Mirri, Profilo, op. cit., p. 460.

(14)

Leopoldo di separare la Maremma dalla città di Siena. Questa decisione pose fine al proposito di Bertolini d’incentivare lo sviluppo di quell’area depressa tramite un armonico equilibrio città-campagna. La questione della Maremma era divenuta un argomento centrale negli studi di Bertolini in seguito alla sua promozione ad Auditore Generale della Città e Stato di Siena, avvenuta nel 1760, dopo essere stato per vent’anni Auditore della Religione dei Cavalieri di Santo Stefano e dello Studio Pisano. Così Bertolini risulta essere descritto dal Granduca nel 1773:

«Auditore generale. Stefano Bertolini, uomo di talento e capacità, ma violento, molto piccoso, piccolo di mente, pettegolo, falso e dubbio, tratta male la gente e disgusta tutti. Si puol aver in vista per Segretario dell’Ordine di Santo Stefano, ed a Siena mettere in vece sua un governatore, o Alberti o Abruzzi, con buon auditore, forse il Ciani»41.

Nel 1773 Bertolini fu chiamato a coprire la carica di Presidente della Consulta di Firenze, creata appositamente per collocarlo in un posto alla sua altezza. Nel 1778, venuto a mancare il senatore Giulio Rucellai, gli fu sostituito come Segretario del Regio Diritto42; risale al 12 marzo 1778 il suo giuramento a Pietro Leopoldo:

«Io Stefano Bertolini giuro sopra l’anima mia e sopra l’onor mio di esercitare con tutta l’attenzione, la fedeltà, e zelo l’Impiego di Segretario del Regio Diritto che la Clemenza si S. A. R. mi ha conferito, e di promuovere il buon servizio della Reale Altezza Sua, e il bene dei suoi sudditi»43.

Nel mese di marzo dello stesso anno venne coronato dal titolo di «senatore del Nostro Senato Fiorentino»44, come dimostrazione di gradimento per i servizi svolti. Il 12 gennaio 1782 divenne Consigliere Intimo Attuale di Stato di S. A. R.45. Tuttavia ripensando a come Pietro Leopoldo lo aveva definito nel 1773, viene da sospettare che la promozione avvenne per liberare la posizione ch’egli occupava presso il Regio

41 Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, Relazioni dei dipartimenti e degli impiegati (1773), a cura di

Orsola Gori, Leo S. Olschki, Firenze, 2011, p. 266.

42 ASFi, Segreteria di Stato, f. 241, p. 14, in. 5. 43 Ibidem.

44 ASFi, Segreteria di Stato, f. 241, p. 14, in. 16. 45 ASFi, Segreteria di Stato, f. 336, p. 3, in. 50.

(15)

Diritto, promoveatur ut amoveatur. Ad ogni modo, pochi giorni dopo lo scatto di carriera, il 16 gennaio, Bertolini si ammalò.

«Nella Consulta de Medici di questa mattina è stato dichiarato che il male del Sen.re Bertolini sia di febbre inflammatoria [sic!], essendosi sopraggiunta una deposizione a man destra nel basso ventre di una mole considerabile, talche resta anche qualche dubbio ai professori per assicurare il carattere del male. Il paziente ha un poco dormito e crede d’esser sano e fino di potersi alzare di letto; lusinga che i medici apprendono per cattiva»46.

Il 20 gennaio 1782 Tallinucci, il quale si trovava a casa Bertolini per effettuare il passaggio di proprietà dei codici manoscritti del senatore a Pietro Leopoldo47, scrisse

che lo stato di salute del malato sembrava in via di miglioramento ma che, nonostante le indicazioni dei medici, questo si rifiutava di mangiare e bere48. La morte sarebbe però sopraggiunta di lì a poco. Urbano Urbani il giorno 21 gennaio scrisse a Pietro Leopoldo per informarlo «che il Senatore Bertolini, Segretario del Regio Diritto è passato all’altra vita intorno alle ore cinque della scorsa notte»49.

1.2 Definizione di giurisdizionalismo

Con il termine “giurisdizionalismo” s’intende quell’insieme di relazioni tra Stato e Chiesa, volte alla subordinazione della seconda rispetto al primo50. Questo sistema è generalmente inquadrato tra il XVI e il XVIII secolo.

Per lungo tempo il giurisdizionalismo fu vittima del dogmatismo risorgimentale, il quale, afferma Carlo Fantappiè, ha imposto che nella connotazione del termine fosse implicito uno scontro tra Stato e Chiesa; secondo questa visione, il giurisdizionalismo fu quella dottrina che affermava il princìpio separatista tra l’autorità statale e quella

46 ASFi, Segreteria di Stato, f. 336, p. 3, in. 68. 47 Vd.: cap. 3.1.

48 ASFi, Segreteria di Stato, f. 337, p. 7, in. 27. 49 ASFi, Segreteria di Stato, f. 336, p. 3, in. 108.

50 A. C. Jemolo, Giurisdizionalismo, in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, Giuffrè, 1979, pp.

(16)

ecclesiastica, e che vedeva una forte opposizione tra le due51. Studi recenti (avviati negli

anni ‘50 del Novecento) hanno rivisto tale definizione, giungendo invece ad affermare che la costituzione e la secolarizzazione dello Stato moderno furono possibili in virtù di una dialettica tra queste due entità. Affermare che gli Stati europei moderni giunsero ad acquisire la giurisdizione su settori che per secoli erano stati nelle mani del clero in seguito ad uno scontro aperto è, non tanto riduttivo, quanto erroneo. Difatti le politiche giurisdizionalistiche operarono non solo nel senso di una tutela dello Stato dalle prerogative ecclesiastiche, ma anche in difesa della Chiesa e delle sue dottrine52. L’obiettivo di queste politiche era difatti un equilibrio tra le due giurisdizioni. L’importanza della religione nelle politiche giurisdizionalistiche emerge con forza in quella fase di formazione degli Stati moderni, generalmente definita come di “confessionalizzazione”53. I governi cercarono allora di uniformare il credo dei sudditi e

di porre sotto il proprio controllo le istituzioni cristiane. A questo processo di “disciplinamento” seguì una fase denominata di “secolarizzazione” e di “sacralizzazione” dello Stato54. Lo Stato moderno non poteva pertanto costituirsi senza

il rapporto dialettico con la religione e le sue istituzioni. Grazie a questo processo si posero le basi dei moderni apparati amministrativi, furono ammodernate le istituzioni statali, avviate politiche di riforma in campo sociale, economico, culturale e politico. Scrive Dario Luongo:

«Interrogarsi sui rapporti fra giurisdizionalismo e pensiero “moderno” significa quindi chiedersi in quale misura le dottrine giurisdizionalistiche contribuirono, in decenni segnati da una radicale polemica contro la tradizionale cultura di impianto

51 C. Fantappiè, Giurisdizionalismo. Dalla classificazione dogmatica alla nozione storico-politica, in La

prassi, op. cit., pp. 305-307.

52 A. Banfi, A proposito di giurisdizionalismo, in La prassi del giurisdizionalismo., op. cit., p. 29.

53 C. Fantappiè, Giurisdizionalismo. Dalla classificazione dogmatica alla nozione storico-politica, in La

prassi, op. cit., pp. 311-312.

(17)

aristotelico-scolastico, a far emergere una nuova coscienza politica e a far maturare nuove visioni giuridiche»55.

Il giurisdizionalismo fu un movimento politico-giuridico proprio dell’epoca moderna, tuttavia al suo interno era presente una spiccata componente medievale. Ciò è ravvisabile nella concezione sacrale del sovrano, sfruttata dal movimento giurisdizionalista per l’avvio di politiche volte a liberare lo Stato dalla giurisdizione temporale di Roma. Non era difatti possibile giustificare queste pratiche di governo affermando che fossero necessarie a creare maggiore unità territoriale, poiché al loro interno i singoli paesi erano troppo poco uniti. Come in età medievale, era infatti ancora presente una pluralità di fonti di potere e mancava coesione tra monarchia, feudalesimo e popolo delle città. Cercare di unire queste entità avrebbe richiesto troppo tempo, ed inoltre la Chiesa avrebbe potuto inserirsi cercando l’alleanza di una delle parti, portando al fallimento del progetto. I giurisdizionalisti cercarono quindi l’unità nazionale contro Roma mediante l’esaltazione del sovrano quale persona sacra, attraverso una visione del potere regio tipicamente medievale56. In tal modo risultava anche più semplice per i sudditi comprendere le rivendicazioni al diritto divino portate avanti dal monarca. Nell’ottica del giurisdizionalismo, sovrano e Stato erano un’unica entità, il re era la personificazione del suo paese e del suo popolo; pertanto queste teorie giurisdizionaliste-assolutiste ben si adattavano a qualsiasi regime, aristocratico, assolutistico, liberale che fosse57. Se dal pensiero medievale derivava l’idea della divinità del sovrano, dall’epoca moderna, invece, si attinse il princìpio di sovranità territoriale del monarca all’interno del proprio Stato. Ciò significava che se le ingerenze di Roma non potevano più essere tollerate, la presenza di una Chiesa nazionale poteva

55 D. Luongo, La polemica sull’Inquisizione nel Preilluminismo napoletano, in La prassi, op. cit., pp.

147-148.

56 A. Cavanna, Storia, op. cit., p. 70.

57 A. C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Torino, Bocca,

(18)

invece essere permessa in quanto subordinata. Il re doveva avere il controllo del clero nazionale in quanto possessore per diritto divino della somma potestà all’interno nello Stato. Egli era detentore dei cosiddetti iura circa sacra, ossia dello ius reformandi, il diritto di intervento sulla Chiesa nazionale; ius cavendi, il diritto di regolare l’ingresso delle disposizioni della curia romana mediante gli strumenti del placet e dell’exequatur;

ius inspectionis, il diritto di controllo sull’attività della Chiesa nazionale; ius exclusivae,

il diritto di riservare uffici ecclesiastici a persone gradite al sovrano; ius dominii

eximentis, il diritto su tutti i beni della Chiesa nazionale58. Il possesso degli iura circa

sacra avrebbe permesso al sovrano di porre fine ai privilegi della Chiesa59, che godeva di tre diversi tipi di immunità: reali, locali e personali. Le immunità reali riguardavano i beni ecclesiastici, i quali venivano considerati esenti da tasse ed erano stati resi inalienabili, per evitarne la dispersione e per permettere la conservazione di fondi sufficienti per i diversi compiti sociali svolti dalla Chiesa; le immunità locali consistevano nel diritto d’asilo; le immunità personali prevedevano l’esenzione del clero dalla giurisdizione dei tribunali ordinari e la facoltà di essere giudicato da un tribunale ecclesiastico, nonché l’esenzione dal servizio militare. La curia romana considerava le immunità ecclesiastiche come indispensabili per l’adempimento della propria missione, perciò reagì con intransigenza al movimento anticurialista.

Tra le cause della nascita del movimento regalista si trova la svolta assolutistica compiuta in età moderna sia dalla Chiesa che dallo Stato; la prima ad imporre una costruzione piramidale alla propria gerarchia era stata la Santa Sede, mediante l’adozione di una simbologia e di un cerimoniale di corte che riflettevano il primato

58 C. Fantappiè, Giurisdizionalismo e la Chiesa in Italia, in La Chiesa in Italia, vol. I, in

http://www.storiadellachiesa.it/glossary/giurisdizionalismo-e-la-chiesa-in-italia/.

59 Nella società d’Antico Regime era ampiamente diffusa la presenza di ceti o persone esenti dalla

giurisdizione statale, in virtù del possesso di un privilegio. Queste situazioni privilegiate erano più numerose della norma ordinaria, che infatti emergeva con rarità. Ben si può comprendere allora, il lungo percorso per l’affermazione di un diritto generale e uguale per tutti i sudditi. A. Cavanna, Storia, op. cit., p. 221.

(19)

assoluto del pontefice60. A questa somma potestà ambirono perciò anche i sovrani

europei, nel tentativo di assumere un’effettiva potestà sul loro territorio nazionale e così neutralizzare le altre fonti di potere presenti. Per il sovrano laico ciò significava una lotta contro i rappresentanti della Santa Sede presenti all’interno dei suoi confini, al fine di toglier loro le eccessive libertà godute e di riportarli sotto la sua totale giurisdizione. Per il pontefice ciò comportava una difesa degli interessi personali e del suo Stato all’interno dei paesi che avevano avviato politiche regaliste, nel tentativo di non perdere il potere di controllare il popolo cristiano sparso in tutta Europa. Lo scontro era inevitabile, anche se non si presentò come una battaglia tra forze antagoniste poiché, poiché in Antico Regime, il legame tra i due ordinamenti era troppo stretto perché questo potesse accadere. Potremmo quindi definire il giurisdizionalismo come un movimento in cui si affermava un diritto unilaterale da parte dello Stato sulla Chiesa e sulle sue istituzioni.

Il giurisdizionalismo si strutturò come un movimento assolutistico, in quanto si era preposto l’obiettivo di demolire il curialismo difeso dai giuristi e dai teologi cattolici. Il papa era l’hostis, colui che minacciava l’indipendenza delle Chiese nazionali e l’esistenza stessa degli Stati, in virtù delle ingerenze effettuate nei territori nazionali mediante il clero e la pressione esercitata sui fedeli. L’unica soluzione contro la monarchia assoluta papale era la teorizzazione di un sistema di idee capaci di equiparare lo Stato alla Chiesa; ciò era possibile solo attraverso l’affermazione che il potere regio fosse de iure naturali ac divino. Questo comportava, quindi, che il sovrano fosse Ministro di Dio tanto quanto il pontefice era Vicario di Cristo, che le norme e le sentenze emanate da lui fossero indiscutibili e inappellabili, che gli spettassero gli iura

circa sacra. I giurisdizionalisti coniugavano la teoria del contratto sociale con quella

(20)

della volontà di Dio e affermavano quindi l’origine contrattuale dello Stato possibile solo con l’accordo della divinità.

La costituzione dello Stato moderno fu realizzabile grazie al movimento giurisdizionalista, che ne permise l’emancipazione dal potere pontificio. I giuristi tedeschi post-hegeliani definirono le peculiarità della nuova tipologia statale, cioè la concezione del territorio nazionale come soggetto al solo potere sovrano, l’idea di un popolo coeso da un forte legame di appartenenza, la potestà regia come unica fonte di potere entro i confini statali, indipendente da qualsiasi fonte di autorità estera. La massima potestà aveva però il dovere di contenere il suo operato entro dei limiti, posti dalla legge divina, dalla legge di natura, dalle leggi fondamentali del regno (che Carlo Capra inquadra nell’ordine di successione e nell’inalienabilità del demanio territoriale)61.

La base teorica del giurisdizionalismo aveva il suo fondamento nel diritto romano, nella Scrittura e nella patristica62. Come asserisce Daniele Edigati, «la stessa argomentazione storica, a partire dall’esperienza giuridica del tardo impero, d’età giustinianea, come pure teodosiana, fu magistralmente sfruttata sia dal pensiero giurisdizionalista che da quello curialista»63. Tale tesi è condivisa anche da Giuseppe Galasso, che scrive: «la polemica antiromana sorretta da fonti scritturistiche e da riferimenti alla normativa ecclesiastica primitiva è tradizionale nella letteratura giurisdizionalista»64, e da Jemolo che afferma che il giurisdizionalismo italiano portò alla resurrezione del Corpus iuris e dell’opera di Graziano65. Tuttavia, non bisogna pensare che in questa seconda vita il diritto giustinianeo fosse oggetto di sole lodi da

61 C. Capra, Storia moderna (1492-1848), Firenze, Le Monnier, 2011, p. 39.

62 L’ampio riferimento alla patristica latina piuttosto che greca è motivato dal fatto che il latino era una

lingua viva, a differenza del greco che era sconosciuto anche alla maggioranza degli intellettuali europei di età moderna.

63 A. Banfi, A proposito di giurisdizionalismo, in La prassi, op. cit., pp. 29-39. 64 G. Galasso, Il mezzogiorno nella storia d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1977, p. 260. 65 A. C. Jemolo, Stato, op. cit., p. 13.

(21)

parte degli studiosi. Al contrario esso fu sottoposto ad una puntigliosa critica storica, fino ad essere definito da alcuni politicamente, culturalmente e giuridicamente intollerabile66. Lo studio del diritto romano mostrava che i privilegi goduti dalla Chiesa erano di diritto umano e non divino, pertanto risultava essere funzionale alla causa. Alla normativa classica si affiancava la citazione di passi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, nel tentativo di dare legittimità a quella che doveva essere una vera e propria teologia della secolarizzazione. Infatti, secondo gli autori giurisdizionalisti, l’attenta analisi delle Scritture rivelava la mancanza di un fondamento del potere temporale di Roma, come comprovavano, a loro detta, anche le parole dei padri della Chiesa e dei grandi teologi cristiani. L’autorità di personaggi come Agostino o Tommaso poteva scalzare quella degli scolastici, su cui era fondata la potestà pontificia. Inoltre, la lettura della patristica poteva avvicinare i fedeli a quella religione pura che era propria del Cristianesimo delle origini, e che era oggetto di culto per gli autori giurisdizionalisti. Le interpretazioni di questi studiosi erano però talvolta piegate dalle necessità contingenti, e spesso risulta essere falsificato il pensiero dell’autore citato. In un caso particolare ciò risulta evidente: con Sant’Agostino. Ciò che traspare dalla sola lettura delle opere giurisdizionalistiche è che questi si pronunciò in favore del potere del sovrano laico, demolendo qualsiasi possibilità per la Chiesa di detenere un potere temporale. In verità non mancano da parte di Agostino le critiche nei confronti del potere secolare e delle sue leggi, definite, senza possibilità di appello, come ingiuste. Ma di Agostino i giurisdizionalisti valorizzarono altri passi, dove egli affermava l’importanza di rispettare le leggi profane e di riconoscere l’autorità imperiale, così come aveva insegnato San Paolo. Nel De Civitate Dei egli scrisse: «Così essendo le cose, non attribuiamo dunque la potestà di disporre de’ Regni se non che al vero Dio», il

66 R. Bonini, Giustiniano nella storia: il mito e la critica nel Settecento illuminista, Torino, Giappichelli,

(22)

quale ha concesso il potere temporale al popolo di Roma, «Lo stesso Dio è quegli che ha data la potestà sovrana a Mario, e a Cesare, a Augusto, e a Nerone, a Tito […], e a Vespasiano […], e a Costantino […]»67.Nelle Confessioni Agostino avvertì i cristiani:

«Si enim regi licet in civitate, cui regnat, iubere aliquid, quod neque ante illum quisquam nec ipse umquam iusserat, et non contra societatem civitatis eius obtemperatur, immo contra societatem non obtemperatur – generale quippe pactum est societatis humanae oboedire regibus suis – quanto magis Deo regnatori universae creaturae suae ad ea quae iusserit sine dubitatione serviendum est!»68.

Rispettando il sovrano temporale gli uomini rispettano la legge di Dio e il suo piano; tutto è stabilito da Lui, tutto ha un suo perché. Questo è anche quello che affermò anche Tommaso, quando scrisse che la legge positiva è in continuità con la legge di natura, e rispetta l’ordine dato al cosmo da Dio69. Ecco, dunque, come la patristica risultava essere strategicamente perfetta per i giurisdizionalisti.

1.3 Il movimento giurisdizionalista in Italia

Il movimento giurisdizionalista italiano si venne a costituire con un obiettivo non presente nelle rivendicazioni dei movimenti del Nord Europa. Nella penisola la Riforma non aveva fatto il suo ingresso, anzi gli Stati italiani assunsero spesso un atteggiamento succube nei confronti di Roma; nonostante fosse sentita l’esigenza di un radicale rinnovamento questo non aveva ancora avuto luogo. Era necessario avviare una rivoluzione culturale e questa doveva fiorire solo dall’attività dei laici, escludendo il clero dalla vita nazionale. Infatti, non mancava nell’intellettualità italiana una corrente ostile nei confronti di certi chierici, rozzi e ignoranti, privi di una vera fede e capaci di

67 Agostino, La città di Dio, Milano, Mondadori, 2015, pp. 117-118.

68 «A un re è lecito impartire, nella città di cui ha il regno, un ordine mai impartito da nessuno prima di lui

né da lui stesso prima di allora. L'ubbidirvi, poi, non è un atto contrario alla convenzione su cui si regge la città; sarebbe anzi contrario alla convenzione il non ubbidirvi, dal momento che la convenzione su cui si regge ogni umana società è l'ubbidienza al proprio re. Quanto più dunque si dovrà servire senza esitazione Dio, re di tutto il creato, in ciò che comanda!». Agostino, Confessioni, Milano, Garzanti, 1990, p. 84.

(23)

compiere abusi e illeciti inimmaginabili. Il clero romano era ben diverso da come era stato costituito in origine, corrotto ed ingordo, esso era la prova più evidente del declino di Roma. Non bisogna generalizzare: dopo il Concilio di Trento la situazione era in diversi luoghi migliorata, ed anche il clero aveva cercato di combattere la superstizione popolare, come dimostrano le carte di diversi concili diocesani che ebbero luogo in epoca post-tridentina. Inoltre, il clero era composto anche da personalità culturalmente di spicco, basti pensare a Muratori e a Bianchi. Tuttavia, i casi di abusi avevano indignato profondamente l’opinione pubblica e talora macchiato indelebilmente i chierici, e un particolare alone negativo circondava il basso clero. Non era possibile pensare di risolvere il problema eliminando la religione, questa era moralmente importante nella società e non era neppure immaginabile una comunità priva di un legame religioso. Una società dotata di una religione più pura era però possibile. Il desiderio di rinnovamento era così sentito che perciò istante rinnovatrici presero forma, talvolta senza il contributo del clero.

In Italia il partito giurisdizionalista si creò in epoca tarda rispetto al resto d’Europa (gli Italiani erano definiti dagli intellettuali d’Oltralpe “curialisti”70), e quando

diversi decenni più tardi si costituì un movimento, questo tentò di colmare il gap esistente71. Come sottolinea Daniele Edigati, le dottrine giurisdizionalistiche giunsero in Italia dai paesi con una forte tradizione regalista, in particolare Francia e Spagna72.

Questa affermazione trova conferma nel lavoro di Stefano Bertolini, dove il gallicanesimo venne assunto come un modello per il giurisdizionalismo toscano, e dove furono citati diversi giuristi regalisti spagnoli. In seguito al Concilio di Trento sia in Francia che in Spagna vi era stato un forte fermento culturale, grazie a intellettuali della

70 A. C. Jemolo, Stato, op. cit., p. 5. 71 Ivi, pp. 670-674.

72 D. Edigati, Per un nuovo approccio storiografico al tema del giurisdizionalismo, in La prassi, op. cit.,

(24)

portata di Lopez, Cervantes, Cartesio, Malebranche, Pascal, Bossuet e Molière. In Italia invece – come scrisse il grande storico della letteratura Francesco De Sanctis – mancò coraggio tra gli intellettuali, «non ci fu lotta perché non ci fu coscienza»73. Inoltre, le tesi dei giuristi d’Oltralpe vennero spesso utilizzate in maniera del tutto snaturata, piegandole alle esigenze del dibattito italiano e privandole del loro significato iniziale74. Il giurisdizionalismo italiano risentì l’influenza, oltre che del gallicanesimo e del regalismo, anche del giuseppinismo (austriaco), del febronianesimo (germanico) e, come dimostra il lavoro di Bertolini, del modello olandese e belga. Jemolo rileva che gli intellettuali italiani non furono molto influenzati dalla Riforma di Lutero, che si presentò in veste di dottrina teologica, lo furono invece più dall’anglicanesimo75. Le vicende inglesi del XVII e XVIII secolo furono seguite con speciale attenzione, in particolare a Venezia e a Livorno dove i forestieri britannici erano presenti in gran numero e dove circolava un’ampia letteratura in lingua. Gli influssi di questi movimenti d’Oltralpe non interessarono nel medesimo modo tutta la penisola, ma diedero impulsi differenti ai diversi movimenti italiani che si vennero a costituire.

Nella fase iniziale, nel XVI secolo, non è in realtà possibile affermare che ci fossero dei movimenti giurisdizionalisti “italiani”, in quanto questi si strutturarono su imitazione di quelli d’Oltralpe. Inoltre, le posizioni assunte in queste prime fasi erano piuttosto deboli, e le due principali tesi volte a sostenere l’origine del potere divino del sovrano erano tratte dal IV comandamento e dall’epistola di S. Paolo ai Romani. Il primo affermava «Onora il padre e la madre» e veniva traslato in «Onora il principe e il magistrato», affermando quindi che anche questo secondo precetto fosse comandato da Dio; l’epistola, invece, veniva citata in quanto Paolo affermava chiaramente: «Omnis

73 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Roma, Newton Compton, 1993, p. 673.

74 D. Edigati, Per un nuovo approccio storiografico al tema del giurisdizionalismo, in La prassi, op. cit.,

p. 24.

(25)

anima potestatibus sublimioribus subdita sit. Non est enim potestas nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt»76 e «Vis autem non timere potestatem? Bonum fac, et habebis laudem ex illa; Dei enim ministra est tibi in bonum»77. Per i giurisdizionalisti Cristo aveva detenuto due poteri, uno come Dio, che si esplicava sia nella sfera spirituale che temporale, ma che non era mai stato trasmesso a Pietro, ed uno come uomo, riguardante solo lo spirituale, e trasmesso al suo successore. Terminata questa fase iniziale di formazione e assestamento, con la fine del XVII secolo tutti i giurisdizionalismi italiani maturarono caratteri propri, sviluppando tesi e compiendo azioni peculiari al proprio caso. Le argomentazioni moderate del XVI secolo vennero sostituite da altre aventi toni audacemente anticlericali, che sostenevano il dovere del sovrano di sorvegliare l’integrità della Chiesa minacciata dal suo stesso Vicario. In alcuni casi fu messo in discussione il titolo stesso di Vicario, poiché Cristo non era il pontefice ed il pontefice non era Cristo. Il papato era stato istituito solo con il fine di mantenere l’unità della Chiesa, quindi il pontefice godeva solamente di quei poteri utili allo svolgimento del suo mestiere. Il suo non era un primato assoluto, bensì un primato ministeriale.

È certamente interessante il fatto che, non solo i giurisdizionalisti, ma anche i curialisti elaborarono in quegli anni tesi volte a limitare il primato papale, dopo che per secoli ne avevano difeso l’assolutezza. La giustificazione di questa limitazione è differente da quella sostenuta dai regalisti; infatti, secondo i curialisti, la potestà papale andava delimitata al fine di impedire azioni radicali da parte di pontefici riformatori e rivoluzionari. Le restrizioni erano date dalla presenza del diritto naturale e del diritto divino (per l’esattezza del diritto divino expressum, ossia le norme chiaramente espresse

76 «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è ordine se non da Dio e quelle che

esistono sono stabilite da Dio». Rm. 13,1.

77 «Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il

(26)

nella Scrittura, da cui non era possibile derogare), dall’Ecclesiae utilitas, dalla salute delle anime dei fedeli78.

Le teorie giurisdizionaliste si orientarono spesso in favore del conciliarismo, affermando che il pontefice non avesse la possibilità di esprimersi senza aver consultato il concilio, il quale poteva essere indetto solo in seguito all’autorizzazione del sovrano temporale. Qualora il papa non avesse desiderato convocarlo, nonostante la Chiesa fosse stata in una situazione delicata e ne urgesse la convocazione, allora i vescovi potevano farlo senza la sua autorizzazione. Per giustificare una simile affermazione si portava a testimonianza il seguente passo del Vangelo di Matteo:

«Et ego dico tibi: Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam; et portae inferi non praevalebunt adversum eam. Tibi dabo claves regni caelorum; et quodcumque ligaveris super terram, erit ligatum in caelis, et quodcumque solveris super terram, erit solutum in caelis»79.

Jemolo spiega che la lettura del brano proposta dai regalisti vedeva non l’affermazione che le chiavi del regno celeste fossero state date al solo Pietro, come sostenevano i curialisti, bensì che queste fossero di proprietà di tutta la Chiesa, intesa come la comunità dei fedeli80. Esistono anche altre due interpretazioni del passo biblico

piuttosto interessanti, elaborate da due dei più grandi intellettuali giurisdizionalisti. La prima è quella proposta da Zeger-Bernard Van Espen81 in Jus ecclesiasticum

universum82, il quale affermò che Pietro ricevette da Cristo il potere di sciogliere e legare, di perdonare con lo Spirito Santo, e le chiavi del Paradiso. Nonostante ciò, al pontefice e ai vescovi non spettava il potere di Pietro e degli apostoli, poiché la loro

78 A. C. Jemolo, Stato, op. cit., pp. 127-129.

79 «E io ti dico: tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa; e le porte degli inferi non

prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli; e tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto nei cieli». Mt. 16,18-19.

80 A. C. Jemolo, Stato, op. cit., p. 140.

81 R. G. W. Huysmans, The distribution of power in the mission of the Church: can Zeger-Bernard Van

Espen be situated in current Roman Catholic Canon Law?, in G. Cooman, M. Van Stiphout, B. Wauters, Zeger-Bernard Van Espen at the crossroads of Canon Law, history, theology and Church-State relations, Lovanio, Leuven University Press, 2003, pp. 477-498.

(27)

potestà era parziale e coincidente solo con il periodo del mandato. La seconda lettura è quella offerta da Paolo Sarpi83. Egli asserì che il pontefice ricevette le chiavi del Paradiso dal figlio di Dio, ma che questo fatto non fece di lui un altro Cristo. Il papa non godeva dell’infallibilità perché era un uomo e in quanto tale poteva fallare; nel suo errare egli poteva anche essere accusato di eresia, ad esempio quando non riconosceva l’origine divina del potere secolare84. Secondo Sarpi gli ecclesiastici erano Vicari di

Cristo nella sfera spirituale, mentre i principi erano Vicari di Cristo nel secolare; da ciò conseguiva che gli ecclesiastici erano soggetti ai principi nella vita civile, e viceversa. La questione dell’infallibilità sopra accennata, era delicata. Se per Sarpi attribuire un così grande potere al pontefice era pericoloso, in quanto si trattava pur sempre di un uomo, capace di emettere giudizi arbitrari e sottoposto a passioni irrazionali, per altri la questione era differente. Per gli ortodossi, in verità, non c’era neppure una questione, egli non poteva cadere in errore neppure in quanto privato, poiché la sua scelta rientrava nel progetto di Dio. Radicalmente opposta era la posizione dei giansenisti, i quali negavano assolutamente l’infallibilità papale, riconoscendo questo potere solo alla Chiesa universale. L’opinione dei giurisdizionalisti italiani mutò nel corso dei tempi: se fino alla metà del XVII secolo si difese l’infallibilità in materia di fede, nella seconda metà del secolo nacquero i primi denigratori, ed il loro numero superò quello dei curialisti verso la seconda metà del XVIII secolo85.

Il giurisdizionalismo non prese le medesime forme in tutta la penisola italiana, ma si costituì sulla base delle esigenze locali, adattandosi alle tradizioni, alla cultura e alla storia dei singoli Stati. Fantappiè afferma che i principali modelli di

83 P. Sarpi, Apologia per le opposizioni fatte dal cardinale Bellarmino ai trattati et risolutioni di G.

Gersone sopra la validità delle scomuniche, 1606.

84 B. Ulianich, Teologia paolina in Sarpi?, in Ripensando Paolo Sarpi. Atti del convegno internazionale

di studi nel 450° anniversario della nascita di Paolo Sarpi, a cura di C. Pin, Venezia, Ateneo Veneto, 2006, pp. 73-101.

(28)

giurisdizionalismo italiano, la cui analisi permette di comprendere le peculiarità di questo movimento politico-legale, furono quello napoletano e quello tosco-lombardo86. Proprio in queste realtà, asserisce Jemolo, intorno agli anni Sessanta del XVIII secolo nacque una ricca letteratura giurisdizionalistica87.

Nel primo caso possiamo parlare di “regalismo anticuriale”, poiché le politiche avviate dai Borboni nel Regno di Napoli risentirono in particolare del giurisdizionalismo spagnolo, che per l’appunto viene chiamato “regalismo”88. Galasso afferma che le prime politiche giurisdizionaliste furono avviate nel XVII secolo, e che furono volte al tentativo di contenere gli abusi del clero. Egli afferma che mediante la concessione di deroghe, sia da parte di ordinari locali, che di prelati diocesani, erano stati spesso oltrepassati i limiti delle immunità e dei privilegi goduti da questo89. La

situazione era particolarmente drammatica a causa dell’elevato numero di chierici, e si era ulteriormente aggravata in seguito all’emanazione delle bolle In Coena Domini (1568) di Pio V e Cum Alias Nunnulli (1591) di Gregorio XIV. Nonostante ciò, il regalismo anticuriale napoletano non si caratterizzò per l’assunzione di note anticlericali, le quali invece, scrive Roberto Bizzocchi in Clero e società nell’età

moderna, caratterizzarono più in generale la cultura italiana dal basso Medioevo in

poi90. L’atteggiamento del Regno di Napoli dopo il concilio di Trento fu ben lontano da quello proprio della cosiddetta “crisi della coscienza europea”, ed infatti mantenne toni di ossequio nei confronti di Roma, una scelta che ricalcava la linea di Madrid ma che si

86 C. Fantappiè, Giurisdizionalismo, op. cit. 87 A. C. Jemolo, Stato, op. cit., p. 25.

88 Sebbene con “regalismo” si dovrebbe indicare solo la variante del giurisdizionalismo spagnolo, questo

termine è oggigiorno divenuto sinonimo di “giurisdizionalismo”. Non deve pertanto stupire se, sia all’interno di questa tesi, sia nei libri di storia e di giurisprudenza, si trovi il termine regalismo per indicare quel generale movimento di difesa delle prerogative regie a sfavore della Chiesa di Roma.

89 G. Galasso, Il mezzogiorno, op. cit., pp. 239-240.

90 R. Bizzocchi, Clero e Chiesa nella società italiana alla fine del Medio Evo, in Clero e società

(29)

mostrava in contrasto con quella di Parigi91. Dopo una lunga gestazione il

giurisdizionalismo napoletano sbocciò come un movimento autonomo, del tutto peculiare al suo territorio e non più influenzato dal modello spagnolo. Ciò avvenne nel XVIII secolo. Questa svolta comportò l’affermazione della superiorità regia sul potere ecclesiastico e l’imposizione di un impianto normativo unilaterale, volto a regolamentare aspetti della vita civile precedentemente posti sotto l’ala della giurisdizione ecclesiastica. Il giurisdizionalismo napoletano si concretizzò con la nascita di un ideale nazionale che portò alle prime pretese autonomistiche da Madrid, l’affermazione di un ceto burocratico-forense, la diffusione dell’idea di libertà di pensiero, la divulgazione delle tesi libertine e razionaliste92. Il momento di apice ebbe luogo con Pietro Giannone, ed alla tradizione giannoniana fu debitore il giurisdizionalismo napoletano, che poco alla volta giunse a fare rivendicazioni di ampia portata verso Roma.

Di particolare interesse, risultano essere per Jemolo le vicende riguardanti Toscana e Lombardia, dove fu attuato un radicale riformismo ecclesiastico e religioso. In Toscana ci furono tutti i presupposti per ottenere successo nelle rivendicazioni regaliste; già durante il periodo della Reggenza i primi passi erano stati compiuti, Francesco Stefano aveva infatti imposto la sospensione per dieci anni del Sant’Uffizio, emanato una legge sulle “mani morte” e imposto il divieto di istituire nuovi fedecommessi93. Tuttavia, fu durante il regno di Pietro Leopoldo che lo Stato, più forte e consolidato rispetto al passato, giunse ad imporsi sulla Chiesa e sulle sue istituzioni. Nel Granducato il progetto era il superamento del giurisdizionalismo stesso e la costruzione di uno Stato toscano illuminato, risultato possibile solo mediante

91 G. Galasso, Il mezzogiorno, op. cit., pp. 237-238. 92 Ivi, p. 257.

93 F. Scaduto, Stato e Chiesa sotto Leopoldo I Granduca di Toscana (1765-90), Livorno, U. Bastogi

(30)

l’emancipazione e la secolarizzazione dello Stato stesso. Si avviò perciò un’offensiva contro la Chiesa e tutte le sue istituzioni e furono colpiti i privilegi del clero, la proprietà ecclesiastica, gli ordini religiosi, gli organi pontifici e la curia romana. La stagione riformatrice toscana prese avvio nel XVIII secolo per volontà del sovrano illuminato Pietro Leopoldo d’Asburgo-Lorena. Se in passato il potere civile aveva cercato di mascherare i suoi interventi nel settore ecclesiastico, con il Granduca tali azioni si fecero manifeste, in nome del diritto-dovere del sovrano, il quale svolgeva una funzione attiva nella riforma della Chiesa94. Tuttavia, è importante sottolineare che inizialmente

gli interventi leopoldini furono volti non tanto al giurisdizionalismo, quanto piuttosto alla riforma delle componenti devozionali barocche e contro le superstizioni presenti tra i ceti subalterni95. La Chiesa toscana fu sottoposta a un processo di rinnovamento e di

razionalizzazione attraverso l’azione congiunta del Granduca e del suo consigliere, il vescovo di Prato e Pistoia Scipione de Ricci (1780-91). L’avvicinamento tra i due ebbe luogo verso la fine degli anni ‘70, quando il Granduca guardò con interesse al rinnovamento liturgico, pastorale e dottrinale che stava avvenendo nella diocesi Prato e Pistoia. In esso, egli vedeva una spinta all’allontanamento della Chiesa toscana da Roma.

Nella relazione tra potere politico ed ecclesiastico in Toscana, possiamo osservare una peculiarità che differenzia questo caso dalle politiche giurisdizionalistiche avviate in area asburgica, ossia il fatto che le riforme avvennero in maniera graduale e poco traumatica. Questa cautela trova giustificazione nel fatto che Pietro Leopoldo era perfettamente consapevole del forte potere che Roma esercitava all`interno del suo territorio per mezzo del fanatismo96, dei tribunali, dei nunzi, del clero regolare e secolare, delle confraternite. A differenza di altri Paesi, la Toscana non avviò trattative

94 G. Greco, La Chiesa nell’età moderna, Bari, Laterza, 1999, p. 179.

95 M. Rosa, Riformatori e ribelli nel `700 religioso italiano, Bari, Dedalo, 1969, p. 170. 96 F. Scaduto, Stato, op. cit., p. 171.

(31)

per realizzare dei Concordati con Roma: il Granducato non era aveva mai attuato vere politiche giurisdizionalistiche, ed anzi, secondo Francesco Scaduto, con gli ultimi Medici aveva perso quasi ogni controllo in merito alle faccende ecclesiastiche97. Tuttavia, recenti studi hanno messo in discussione questa visione dell’età medicea, e particolarmente interessanti sono i risultati delle ricerche di Gaetano Greco98. Lo storico propone una visione sui fatti storici diametralmente opposta a quella di Scaduto, affermando che nonostante la Toscana medicea fosse uno Stato confessionale, in cui la religione aveva un valore importante all’interno del linguaggio egemonico della società, la Chiesa di Roma perse sul territorio parte della sua potestà. Nello specifico, la perdita riguardò i settori della moderazione e della repressione della violenza privata. Greco afferma che la presenza di scontri nei casi di contenzioso giudiziario tra i tribunali laici e quelli ecclesiastici, è una prova dell’esistenza di una “socialità animata e complessa”, una situazione perciò ben diversa da quella delineata dagli studi passati.

Francesco Scaduto spiega che la Toscana non sottoscrisse mai un trattato in quanto consapevole che, non appena ci fosse stato un momento di debolezza, Roma non avrebbe esitato ad allargare la propria sfera d’azione99. D’altronde, «i Concordati sono

tregue, non paci»100. Inoltre, i provvedimenti che il Granduca intendeva emanare erano così numerosi e di così ampia portata che lo stesso Kaunitz si mostrò scettico della possibilità di ottenere tutto, e consigliò il Lorena di mettere Roma dinnanzi al fatto compiuto101. D’altronde, Pietro Leopoldo era pur sempre il fratello dell’autorevole Giuseppe, il più potente principe della penisola italiana, perciò godeva di una solida

97 Ivi, p. 179.

98 G. Greco, I Medici e la Chiesa in Toscana, in Il paesaggio dei miracoli: Maria Santissima della

Fontenuova a Monsummano, santuari e politiche territoriali nella Toscana Medicea da Ferdinando I a Cosimo II, Atti del convegno, Monsummano Terme, 6-7 dicembre 2002, a cura di A. Benvenuti, G. C. Romby, Pisa, Pacini, 2002.

99 M. Rosa, Riformatori, op. cit., p. 171. 100 G. Greco, La Chiesa, op. cit., p. 180.

101 F. Venturi, Settecento riformatore. La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), vol. II,

Riferimenti

Documenti correlati

Dopo questi preliminari, che vorrebbero prevenire certe obbiezioni, questa mattina vi parlerò della nostra fede di sa cerdoti salesiani in Dio Padre, Piglio e

Ma il libro di Bonini ci fa conoscere anche persone eccezionali, a cominciare da Ilaria, la sorella di Stefano. Che sembra una donna

Typhimurium AznuABC vaccine reduce clinical signs, bacterial colonization and shedding in pigs challenged with a virulent strain of S.. Typhimurium, corroborating our previous

del 1965 a destinazione E1 (zona di espansione) con soggezione dell’attività edificatoria a obbligo di progettazione unitaria estesa all’intero perimetro del Comprensorio

In questi anni abbiamo elaborato alcune proposte per uscire dalla crisi. Proposte che non possono essere petizioni da inoltrare candidamente a chi ci governa ma che devono essere

Cum nolimus modo aliquo per presentem nostram divisio- nem, separacionem et exemptionem iamdictis universitati et hominibus ipsius civitatis nostre Orie, eidem nostre Curie

Nel mese di ottobre c’era la raccolta delle castagne, i famosi marroni, io e i miei fratelli eravamo soliti al- zarci alle 4:00 del mattino per raggiungere il castagne- to dei

Il corso ha la finalità di orientare e supportare chi è alla ricerca di lavoro con l’obiettivo di fornire tecniche e strumenti operativi efficaci per orientarsi nel mondo del