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Del potere giudiziario della Chiesa

Capitolo 3. Analisi della filza n 289, Stephani Bertolini collectanea sacerdotii et

3.3 Del potere giudiziario della Chiesa

Nella filza n. 289 Bertolini fece trascrivere numerosi passi sul tema del potere giudiziario del clero, mostrando interesse sia per la storia della sua origine, che per le tesi volte alla sua limitazione. Come afferma Antonio Banfi, la questione della giurisdizione ecclesiastica coinvolge direttamente lo Stato nel processo di affermazione del suo primato nel diritto367. Il recupero del pieno controllo della sfera giuridica era perciò fondamentale per lo Stato per auto-affermarsi e per imporsi su tutto il territorio,

366 «Poiché non c’è nessuna legge della legge evangelica e nel Nuovo Testamento, che avrebbe sollevato

il clero dalla giurisdizione dei principi secolari». ASFi, Reggenza, f. 289. Si tratta di una citazione del giurista spagnolo Diego Covarrubias y Leiva (1512-77), tratta da Practicae quaestiones eaeque resolutiones (1556). Tutte le trascrizioni presenti nella filza n. 289 di Covarrubias sono tratte da quest’opera.

367 A. Banfi, Habent illi iudices suos: studi sull’esclusività della giurisdizione ecclesiastica e sulle origini

anche sulla Chiesa nazionale. Storicamente, i giurisdizionalisti interpretarono la storia della giurisdizione civile dei vescovi come la storia della nascita e dello sviluppo dei privilegi del clero. Tuttavia, studi moderni hanno rivalutato queste posizioni considerate radicali ed eccessivamente influenzate da una storiografia poco imparziale. Nelle pagine seguenti viene quindi proposta una ricostruzione della storia del potere giudiziario della Chiesa, sulla base di alcune opere trascritte nella filza n. 289 e degli studi più recenti di Giulio Vismara e Antonio Banfi.

Come già affermato chiaramente nel paragrafo precedente, Gesù Cristo rifiutò di fondare un proprio regno e di detenere qualsiasi forma di potere. Perciò, egli rifiutò anche di giudicare ed esprimere sentenze nelle liti tra gli uomini, come risulta dalle parole: «et si quis audierit verba mea et non custodierit, ego non iudico eum; non enim veni, ut iudicem mundum, sed ut salvificem mundum»368. Infatti, quando nel Vangelo di Luca si narra che venne interpellato per giudicare in una contesa, egli chiese chi mai l’avesse fatto giudice sopra gli uomini («Homo, quis me constituit iudicem aut divisorem super vos?»369), rifiutando di esprimere un giudizio a favore di una delle parti. Sant’Ambrogio affermò che Cristo giustamente si rifiutò di essere giudice, in quanto il governo sugli uomini non era faccenda che lo riguardasse: «bene terrena declinat qui propter caelestia tantum descenderat, nec dignatur iudex esse litium et arbiter facultatum»370. Parere condiviso da San Bonaventura, il quale disse che Cristo fu

mandato per distribuire beni spirituali, e per questo si rifiutò di farsi portatore di beni

368 «Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per

condannare il mondo, ma per salvare il mondo». Gv. 12,47.

369 «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». Lc. 12,14.

370 «Bene rifiuta le cose terrene colui che era disceso soltanto in ragione delle cose celesti, né il giudice si

degna di essere arbitro delle liti e delle ricchezze». ASFi, Reggenza, f. 289. La citazione è tratta da: Ambrogio, Expositio Evangelii secundum Lucam, VII, 122, PL 15.

temporali: «quia Deus miserat eum ad spiritualia communicanda, ideo descendere recusabat ad temporalia»371.

Nel Nuovo Testamento Cristo incaricò gli apostoli di rimettere le ingiurie così quanto fosse stato sciolto e legato in Terra, sarebbe stato ugualmente sciolto e legato in Cielo372. Sebbene ciò possa essere interpretato come l’assegnazione di un potere giuridico da parte di Cristo alla sua Chiesa, questo passo biblico non sancì la nascita della potestà giudicante della Chiesa. Questa nacque dal precetto paolino contenuto nell’epistola ai Corinzi, risalente al 57 d. C. Poiché agli apostoli era stato concesso da Cristo di poter assolvere e condannare, San Paolo fece uso di questa potestà, esortando il popolo della città di Corinto:

«Saecularia igitur iudicia si habueritis, contemptibiles, qui sunt in ecclesia, illos constituite ad iudicandum? Ad verecundiam vestram dico! Sic non est inter vos sapiens quisquam, qui possit iudicare inter fratrem suum?»373.

Prima della scoperta dei manoscritti di Qumran374 questa lettera era ritenuta la prima testimonianza storica che autorizzava la Chiesa all’esercizio del potere giuridico375. Tuttavia, il precetto paolino nasceva non dalla volontà di appropriarsi del potere di giudicare sulla base dell’insegnamento biblico, quanto da un grave problema reale: i cristiani di Corinto erano molto litigiosi e Paolo preferiva mantenere nascoste ai pagani le discordie del suo popolo. La comunità cristiana si sarebbe così mantenuta più compatta e sarebbe stato più difficile qualsiasi attacco da parte degli esterni. A giudicare venne chiamato un saggio, individuato nella figura del vescovo; egli era quel membro della società giudicato più idoneo in quanto dotato per definizione di fides, onestà e

371 «Poiché Dio lo aveva inviato per renderci partecipi delle cose spirituali, perciò si rifiutava di scendere

a quelle temporali». Ibidem.

372 Mt. 18,15-20.

373 «Se dunque avete liti per cose di questo mondo, voi prendete a giudici gente senza autorità nella

Chiesa? Lo dico per vostra vergogna! Cosicché non vi sarebbe proprio nessuna persona saggia tra di voi che possa far da arbitro tra fratello e fratello?». 1 Cor. 6,4-5.

374 Sulla questione di Qumran si rimanda alla ricca produzione di Giovanni Ibba. G. Ibba, La teologia di

Qumran, Bologna, Edb, 2002.

pubblica fama (caratteri necessari per poter essere giudici o testimoni nei processi, e che definivano lo status del soggetto all’interno della società d’antico regime). Il vescovo, esercitando una giustizia non riconosciuta dal diritto romano, era quindi giudice delle controversie tra cristiani. Nel dirimere i contenziosi e nell’emettere le sentenze, egli metteva in pratica la normativa presente nel diritto romano, ma anche tutto quell’apparato di regole proprio del mondo cristiano, desunte dai canoni dei concili, dalle Scritture, dalla predicazione degli apostoli, dalla legislazione dei vescovi, dalle tradizioni e dalle consuetudini della comunità376.

«Il giudicio ecclesiastico meritava il nome di carità, poiché quella sola induceva il reo a sottoporsi e la Chiesa a giudicarlo con tanta sincerità del giudice et obedienza dell’errante»377.

Il riconoscimento ufficiale per il clero della potestà di giudicare risale a Costantino, seppure Jacques Godefroy nutra dei dubbi circa la veridicità della norma. Nella filza n. 289 si afferma che la legge di Costantino, con la quale si voleva attribuita la giurisdizione ai vescovi, e che venne poi riportata nel Codice Teodosiano, «è reputata falsa dai più dotti critici»378. I sospetti nascevano da fatto che questa norma fu collocata alla fine del Codice Teodosiano (dove poteva passare più facilmente inosservata)379 e dal fatto che Eusebio non ne accenni minimamente in alcuna delle sue opere380. In

passato, le concessioni fatte da Costantino alla Chiesa furono interpretate come il frutto dell’operato di un imperatore cristiano, parziale nei confronti dei membri della sua stessa comunità, e la storiografia risentì di questo giudizio (come rivela il dubbio insinuato da Godefroy). Studi recenti propongono di osservare questi fatti in una prospettiva diversa: i privilegi ottenuti dalla Chiesa in epoca costantiniana vanno intesi

376 Ivi, p. 9.

377 ASFi, Reggenza, f. 289. Si tratta di una citazione di Sarpi, tratta dall’Istoria del Concilio tridentino. 378 Ibidem.

379 Ibidem.

380 G. A. Hinojosa, Dell’origine delle immunità del clero cattolico e d’ogni altro sacerdozio, vol. II,

come il riconoscimento da parte dell’imperatore di una realtà di fatto. Fattori quali l’alta autorità che questi tribunali godevano presso il popolo e il loro essere oramai ben radicati nel territorio, ne imposero il riconoscimento ufficiale. Inoltre, l’apparato giudiziario dell’impero versava in una situazione di crisi, dovuta alla scorrettezza e alla incapacità di giudizio dei giudici secolari, interessati più a fare il loro utile che ad amministrare saggiamente il loro ministero. Il riconoscimento legale dell’istituto dell’episcopalis audientia fu quindi la manifestazione della volontà dell’impero di rinnovare la giustizia, poiché istanze di riforma provenivano da ogni dove381. Il popolo aveva sete di giustizia e i vescovi potevano risolvere questo grande problema: si trattava di soggetti eletti dalla comunità per la loro fama, noti per essere giusti nell’amministrare il loro incarico. Il vescovo divenne quindi sacrosanctae legis antistes, poiché santi erano i cristiani e la lex divina era fondamento giuridico della Chiesa382. Il compito del vescovo, spiegò Van Espen, era quello di sradicare l’odio tra i litiganti e, avvalendosi della dispensa concessa dal potere temporale, comandare sulle cose terrene per ottenere la concordia e la pace fondamentali per il cristianesimo383. L’atteggiamento di Costantino non rivela alcuna parzialità: così come erano stati riconosciuti i tribunali degli ebrei, lo stesso era avvenuto per quelli dei cristiani. E così come un cristiano poteva comparire davanti al giudice pagano, così un pagano poteva comparire davanti al vescovo. Una considerazione va fatta: il fatto che un cristiano fosse giudicato da un pagano aveva certamente un valore diverso dal fatto che un pagano fosse giudicato da un cristiano, poiché a differenza del paganesimo il cristianesimo non era religione di Stato. Tuttavia, è anche vero che la nuova religione si stava diffondendo con grande velocità e il riconoscimento legale dell’episcopale iudicium poteva soddisfare la popolazione cristiana e alleviare il carico di lavoro delle magistrature. Nacque così una

381 G. Vismara, La giurisdizione, op. cit., pp. 43-45. 382 Ivi, p. 28.

collaborazione tra impero e Chiesa, che persistette nei secoli in un rapporto altalenante, come dimostra il fatto che ogni imperatore concesse più o meno libertà ai tribunali ecclesiastici in base alla propria inclinazione.

Entrando nel dettaglio, la normativa emanata da Costantino sull’episcopalis

audientia si articolava in due leggi contenute nel Codex theodosianus384 e nelle Constitutiones Sirmondianae385, e presentava la giustizia episcopale come una forma concorrente con quella statale386. Non tutti gli storici concordano con quest’ultima affermazione: Gaudemet, Jones, Munier e Lepelley vedono nella giustizia episcopale un arbitrato. Vismara invece spiega che non può essere definito come un semplice arbitrato in quanto per questo era previsto un consenso sotto forma di compromissus, mentre nel caso dell’episcopalis audientia era richiesto un consenso informale, che prendeva il nome di consensus. La normativa costantiniana prevedeva che il giudice episcopale potesse giudicare nel civile sia cristiani che laici, anche nel caso in cui questi ultimi non fossero concordi. Prevedeva inoltre che la sentenza potesse andare in appello presso un giudice secolare e, qualora il giudizio di quest’ultimo non fosse stato concorde col primo, era previsto anche un terzo grado di giudizio.

Nuove esenzioni furono poi fatte dai figli di Costantino, Costanzo e Costante, da Valente e Graziano (380), da Arcadio e Onorio (400)387. Costanzo nel 355 emanò una costituzione che prevedeva un, seppur limitato, privilegio del foro388. Il fine era di

384 C. Th, 1, 27, 1 (318).

Ch. T. = Codex theodosianus. Si tratta di una raccolta ufficiale di costituzioni imperiali, voluta dall’imperatore d’Oriente Teodosio II, e pubblicata nel 438.

385 Sirm. 1 (333).

Sirm. = Constitutiones Sirmondianae. Si tratta di una raccolta privata di costituzioni imperiali relative ai rapporti tra Stato e Chiesa nel periodo compreso tra il 333 e il 425. Alcune costituzioni sono contenute nel Codex Theodosianus, tuttavia la raccolta completa fu pubblicata solo nel 1631 dal religioso francese Sirmond (da cui Sirmondianae). Per maggiori approfondimenti, si rimanda a: M. R. Cimma, A proposito delle Constitutiones Sirmondianae, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana, X Convegno internazionale, Università di Perugia, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, p. 359 e segg.

386 G. Vismara, La giurisdizione, op. cit., p. 46. 387 ASFi, Reggenza, f. 289.

coniugare in maniera più organica la giurisdizione secolare a quella episcopale. Come spiega Banfi, il privilegium fori non presenta caratteri di esclusività nella giurisdizione ampi quanto la giurisdizione esclusiva, che verrà in seguito concessa al clero. Tuttavia, si tratta pur sempre di un’ampia prerogativa determinata, in questo caso, dalla qualità delle persone: il privilegio era concesso solamente ai vescovi, il resto dei chierici rimaneva sotto al controllo dell’impero. La concessione riguardava il solo foro criminale, anche se non sappiamo con certezza quali crimini fossero esclusi dal privilegio. Costanzo fece tale operazione sostanzialmente per due motivi: accreditarsi agli occhi del clero e porre fine alle controversie interne al mondo cristiano.

Nel 380 Teodosio aveva emanato l’editto di Tessalonica389 con il quale si imponeva il cristianesimo come religione di Stato. La nuova religione aveva assunto un forte potere in quanto si era legata con l’élite dell’impero, pertanto l’unico modo per relazionarsi con il Cristianesimo era quello di accettarlo. Per questo Arcadio e Onorio (con i quali l’impero si indebolì) preferirono confermare le norme introdotte dai loro predecessori, attuando solo una lieve modifica nell’episcopalis audientia. Con una successiva norma390, indirizzata al console Flavio Eutichiano, si imponeva la restrizione

a recarsi al tribunale del vescovo solo quando entrambe le parti lo decidevano di comune accordo; inoltre, non era più consentito il ricorso al tribunale secolare. Era necessario snellire l’iter perché il sistema giudiziario era rallentato e congestionato dai troppi sudditi che si recavano in appello dal giudice secolare per ottenere una nuova sentenza. Vismara afferma che tale legge non comportò la conversione dell’episcopalis

audientia in arbitrato391. Tale norma venne poi confermata nel 408392. Nel 384 fu emanata da Teodosio (e Valentiniano II e Arcadio) a Costantinopoli una nuova norma

389 C. Th. 16, 1, 2. 390 C. Th. 1, 4, 7.

391 G. Vismara, La giurisdizione, op. cit., pp. 86-87. 392 C. Th. 1, 27, 2.

delle Constitutiones Sirmondianae 393, nella quale si affermava che il clero avrebbe di lì

innanzi goduto di una giurisdizione riservata; solo l’autorità episcopale aveva il potere di decidere nelle cause pertinenti gli affari ecclesiastici. A causa della contraddittorietà di questa norma con i provvedimenti di Costanzo del 355 e di Graziano del 376, essa non compare nel Codice Teodosiano (408-450). In questo sono difatti presenti: C. Th. 16, 2, 12 (355), C. Th. 16, 2, 23 (376), C. Th. 16, 2, 41 (412), C. Th. 16, 2, 47 (425), C. Th. 16, 11, 1 (399)394. Non bisogna però pensare che queste norme non presentino contraddizioni tra loro, al contrario si è ben lontani dall’avere armonia tra le due giurisdizioni.

A causa dell’eccessivo spazio lasciato dalla normativa circa l’interpretazione del

privilegium fori, Valentiniano III intervenne nel 425 con la Novella 35, intitolata De episcopali iudicio. Dalla lettura della norma emerge che la precedente C. Th. 1, 4, 7 non

fu mai applicata, pertanto si ribadivano al suo interno due cose: innanzitutto, che in seguito al giudizio del vescovo non era possibile richiedere l’appello al giudice secolare; poi, che solamente in presenza di un compromesso tra ambo le parti era possibile recarsi dal giudice episcopale395. Valentiniano però aveva anche un altro fine

con la Novella 35, ovvero il recupero del prestigio dell’impero, che era andato scemando a causa del sempre più ampio ricorso alla giustizia del vescovo. Era necessario ricordare alla Chiesa che la sua potestà riguardava solamente la sfera spirituale, per questo la legge del 425 impose la fine della collaborazione tra i due ordinamenti nel foro criminale (la collaborazione rimase solo per i casi di eresia).

393 Sirm. 3.

394 Codice Teodosiano, De episcopis, ecclesiis et clericis, de religione.

395 G. Vismara, La giurisdizione, op. cit., pp. 173-175; A. Banfi, Habent, op. cit., pp. 246-247; ASFi,

Reggenza, f. 289, come viene riportato in una trascrizione tratta da: Z. B. Van Espen, Ius ecclesiasticum universum, Lovanio 1753. Tutte le citazioni di Van Espen presenti nella filza n. 289 sono tratte da quest’opera.

Gli scritti della filza n. 289 giungono quindi a trattare l’epoca giustinianea, rilevante in questa ricostruzione storica in quanto:

«Justinien a été le premier de tous les Princes, qui ait commencé à donner aux Evêques un Tribunal pour juger des Causas ecclésiastiques, en leur accordant le privilège de ne pas plaider devant les Tribunaux laïques»396.

Giustiniano rappresenta l’estremo opposto a Costantino nella storia della giurisdizione episcopale nell’impero romano. Egli governò uno Stato ormai in piena decadenza, cercando di ricostruire i fasti del passato. La strategia che elaborò prevedeva l’integrazione di Stato e Chiesa mediante la fusione dei due apparati giuridici. Proprio per questo motivo, Banfi asserisce che in epoca giustinianea non è possibile parlare né di privilegium fori, né di esclusività della giurisdizionale ecclesiastica397. La nuova normativa regolante l’apparato giuridico trova espressione nel Codex repetitae

praelectionis (534) e nelle Novellae (539, 546). In merito alla giurisdizione episcopale e

al privilegio del foro, i testi di riferimento sono le Novelle 79, 83, 86 e 123. Nella raccolta di Bertolini compaiono trascritti i testi della Novella 83 tit. 12 cap.1 (Ut clerici

apud proprios episcopos primum conveniantur, et post hoc apud civiles iudices398), e della 123 cap. 21 (Ut clerici apud proprium conveniantur episcopum399), quest’ultima considerata la summa del diritto ecclesiastico giustinianeo400. Giustiniano permise al

clero di essere giudicato dal vescovo nel caso di contenzioso civile, ammettendo la possibilità anche per i laici di poter essere giudicati da questo nei casi in cui fossero coinvolti in un processo contro un ecclesiastico (non era più necessario effettuare un compromesso). Qualora una delle parti non fosse stata soddisfatta della sentenza emessa, avrebbe potuto rimandare la causa al giudice civile entro dieci giorni; nel caso

396 «Giustiniano è stato il primo di tutti i Principi che ha cominciato a donare ai vescovi un Tribunale per

giudicare le cause ecclesiastiche, e che ha loro accordato il privilegio di non difendersi davanti ai Tribunali laici». ASFi, Reggenza, f. 289.

397 A. Banfi, Habent, op. cit., p. 284.

398 Che i chierici siano prima convenuti presso i propri vescovi e poscia presso i giudici civili. 399 I chierici debbono essere convenuti presso il vescovo.

in cui l’appello si fosse risolto in un giudizio differente dal primo era previsto un ulteriore riesame. Il privilegio era rivolto a tutto il clero, abrogando quindi il contenuto della Novella 79, dove si affermava che il privilegium fori ratione fosse rivolto solo ai monaci401. La legge prevedeva poi che il vescovo avesse l’esclusiva nel giudicare i crimini di eresia, simonia e disobbedienza, ponendo fine alla collaborazione con l’impero. Infine, si impose che il vescovo potesse validare (e invalidare) le condanne emesse dal giudice civile nei confronti dei membri del clero402, in quanto deteneva il ruolo di controllore dell’attività del tribunale secolare. Tale potestà veniva concessa per supplire alla carenza di personale della giustizia secolare. Il cap. 22 della Novella 123 contiene espresso un particolare privilegio per i vescovi, i quali sarebbero stati giudicati non da un loro pari, bensì dal metropolita o dal patriarca403.

La normativa giustinianea venne in parte modificata da Eraclio, il quale concesse ai vescovi la giurisdizione, oltre che nel civile, anche nel criminale (630)404. Sarpi affermò che

«per questi gradi la caritativa correzione da Cristo instituita degenerò in una dominazione e fu causa di far perdere a’ cristiani l’antica riverenza et ubedienza. Si nega ben in parole che la giurisdizione ecclesiastica sia un dominio come quella del secolare, ma non si sa por tra loro differenza reale»405.

Nel mondo cristiano non tutti erano favorevoli all’attività dei vescovi nei tribunali. Marsilio da Padova nel Defensor Minor affermò che

«Dire la legge non è cosa che convenga ad alcun vescovo, sacerdote o diacono, chierico o ministro ecclesiastico di qualsiasi nome, considerati sia da soli sia nel loro collegio, e tanto individualmente quanto in comune»406.

401 Ibidem; ASFi, Reggenza, f. 289 (Z. B. Van Espen). 402 Ibidem.

403 Ibidem. 404 Ibidem. 405 Ibidem.

Diffuso era infatti il timore che l’esercizio del potere giuridico potesse portare facilmente il vescovo ad allontanarsi dall’attività pastorale per seguire le vie della mondanità407.

In conclusione, ben riassume la visione regalista sulla questione, il seguente passo dell’Istoria di Sarpi:

«e così sopra la spiritual potestà data da Cristo alla Chiesa di ligare e sciogliere, e sopra l’instituto di san Paolo di componer le liti tra cristiani, senza andar al tribunal de infedeli, in molto tempo e per molti gradi è stato fabricato un temporal tribunale più risguardevole che mai nel mondo fosse, e nel mezo di ciascun governo civile, instituitone un altro independente dal publico, che mai chi scrisse de’ governi avrebbe saputo imaginare che un tal stato di republica potesse sussistere»408.

Dopo aver ricostruito storicamente l’origine dell’esercizio del potere giuridico della Chiesa, Bertolini proseguiva il discorso attraverso la citazione di autorevoli autori gallicani. Questi autori, scrive Daniele Edigati, erano accumunati dalla volontà di

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