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La legittimazione del potere secolare per mezzo delle Sacre Scritture

Capitolo 3. Analisi della filza n 289, Stephani Bertolini collectanea sacerdotii et

3.2 La legittimazione del potere secolare per mezzo delle Sacre Scritture

Nella filza n. 289 Stefano Bertolini fece trascrivere diversi passi dell’Antico e del Nuovo Testamento, il cui contenuto poteva facilmente essere piegato in favore delle rivendicazioni portate avanti dal movimento giurisdizionalista. Questi brani, se letti in un’ottica regalista, sembrano sostenere l’origine divina del potere regio e l’impossibilità per l’autorità pontificia di occuparsi di ciò che non concerne la sfera spirituale. Perciò, all’interno di questo paragrafo, riproporrò questi passi biblici, in quanto sono il fondamento su cui si articolano diverse delle tesi contenute nella filza n. 289.

A partire dalla seconda metà del XVII secolo, le teorie regaliste giunsero ad affermare che l’interpretazione tradizionale del testo sacro portasse con sé un errore di fondo: l’idea che la Chiesa fosse il regno di Dio. Da questo grave fraintendimento, si affermava, si erano sviluppati una serie di ulteriori errori, alcuni dei quali di grande rilevanza, come vedremo in seguito. Punto di partenza fu perciò l’affermazione che il regno di Dio non fosse quello presente; in passato era esistito un suo regno, e tale era lo Stato ebraico, una teocrazia, ovvero uno Stato in cui gli abitanti erano al contempo

sudditi e fedeli298. Fin dalla creazione Dio aveva regnato sugli uomini, tuttavia il suo

regno ebbe formalmente inizio con il patto stretto con Abramo299, che rimase in vigore anche durante i regni di Isacco e Giacobbe300. Con Mosè l’accordo venne rinnovato301, in quanto non vi era una discendenza diretta con i precedenti; venne perciò a costituirsi un regno attraverso un patto tra i Giudei e Mosè302 (in veste di rappresentante divino), e poiché questo comunicava e seguiva i comandamenti di Dio, le norme di culto furono anche leggi civili303.

«Solo Dio, perciò, tenne il governo degli Ebrei, che quindi fu chiamato, in base alla sola virtù del patto, regno di Dio, e Dio stesso fu chiamato a buon diritto re degli Ebrei»304.

Mosè fu il solo, all’interno del suo popolo, ad avere la potestà di promulgare e interpretare le leggi divine, di giudicare e di comunicare con Dio, poteri che avrebbe trasmesso al suo successore. C’è un passo biblico importante circa il fatto che chiunque in uno Stato detenga la medesima posizione occupata da Mosè nello Stato ebraico, egli solo è interprete della parola e dei comandi di Dio305:

«Il Signore disse a Mosè: "Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui è lo spirito; porrai la mano su di lui, lo farai comparire davanti al sacerdote Eleazaro e davanti a tutta la comunità, gli darai i tuoi ordini in loro presenza e lo farai partecipe della tua autorità, perché tutta la comunità degli Israeliti gli obbedisca. Egli si presenterà davanti al sacerdote Eleazaro, che consulterà per lui il giudizio degli Urim davanti al Signore; egli e tutti gli Israeliti con lui e tutta la comunità usciranno all’ordine di Eleazaro ed entreranno all’ordine suo"»306.

Spinoza e Hobbes, interpretando diversamente il passo, giunsero a diverse teorie sulla divisione del potere tra Stato e Chiesa, e a differenti visioni sui diritti e i doveri spettanti al sovrano nello Stato laico. Nel Trattato teologico-politico, Spinoza scrisse che, in

298 J. Locke, Lettera sulla tolleranza, Bari, Laterza, 2005, p. 36. 299 Gen. 17,2-8.

300 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., p. 502. 301 Dt. 5,1-3.

302 B. Spinoza, Trattato, op. cit., pp. 417-418; T. Hobbes, Leviatano, op.cit., pp. 502-503. 303 J. Locke, Lettera, op. cit., p. 36; B. Spinoza, Trattato, op. cit., pp. 84, 418.

304 B. Spinoza, Trattato, op. cit., p. 418. 305 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., p. 505. 306 Nm. 27,18-21.

seguito alla morte di Mosè, lo ius leges interpetandi passò nelle mani del sommo sacerdote, mentre lo ius et potestas imperium administrandi al governo civile307, non condividendo la tesi hobbesiana contenuta nel Leviatano. In quest’ultimo, difatti, si affermava che entrambi questi diritti furono concessi a Eleazaro, figlio di Aronne, e che pertanto fu il sommo sacerdote ad avere la sovranità sia nella sfera civile, che in quella spirituale308.

Era «dimostrato sulla base della stessa Scrittura che Dio non elesse gli Ebrei per l’eternità»309: il regno di Dio ebbe un termine, e questo fu con l’avvento di Samuele, quando i Giudei chiesero di avere un re come gli altri Stati: «Nequaquam: rex enim erit super nos, et erimus nos quoque sicut omnes gentes»310. Da quel momento in poi nessun popolo fu più eletto da Dio. L’avvento di Gesù Cristo sulla Terra non doveva perciò essere inteso come la rinascita del regno di Dio; egli fu mandato dal Padre tra gli uomini, non per istituire un suo Stato, ma per annunciare quello che sarà. Per legittimare questo assunto, i regalisti citavano le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Giovanni: «Regnum meum non est de mundo hoc; si ex hoc mundo esset regnum meum, ministri mei decertarent, ut non traderer Iudaeis; nunc autem meum regnum non est hinc»311,

come la dichiarazione del Figlio di Dio di non voler regnare sulla Terra. Quindi la Santa Romana Chiesa non era per i regalisti una rappresentazione del regno di Dio, poiché, come si sosteneva nel Leviatano, il regno di Cristo doveva avere nuovamente luogo in una terza fase della storia umana. Tra il precedente regno di Dio fondato da Mosè e quello escatologico di Cristo, aveva vita un regno in cui a comandare era il sovrano temporale, e in cui i fedeli parlavano con Dio mediante la religione naturale. Hobbes

307 B. Spinoza, Trattato, op. cit., p. 468. 308 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., p. 507. 309 Ivi, p. 91.

310 «No, ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli». 1 Sam. 8,19-20.

311 «Il mio regno non è di questo mondo; se questo mondo fosse il mio regno, i miei servitori avrebbero

sosteneva che in futuro sarebbe nuovamente stato fondato un regno di Dio e che questo avrebbe avuto un suo governo politico a Gerusalemme, tuttavia quel momento non era ancora giunto312. Difatti, sottolineava Hobbes, gli Stati europei furono tutti fondati mediante patti tra uomini, e nessuno vide la sua creazione in un accordo con la divinità. Credevano i regalisti che la sopra citata frase di Cristo riportata nel Vangelo di Giovanni comportasse l’infondatezza delle tesi curialiste, le quali sostenevano che la Chiesa fosse una rappresentazione del regno di Dio e che il potere temporale pontificio avesse origine in Cristo. Teorie insussistenti, spiegavano, poiché Cristo non fondò alcuno Stato, non fu detentore di alcun potere temporale e non trasferì mai alcuna autorità regale a Pietro e agli altri discepoli. L’apostolo Pietro, scrisse Pietro Giannone, non ebbe mai un potere superiore a quello degli altri apostoli, ma anzi proprio in quanto apostolo anch’egli avrebbe dovuto predicare e diffondere la parola di Dio313. Il fatto che fissò la sua dimora a Roma, città già convertita, fu assolutamente contrario alla sua missione, in quant’egli avrebbe dovuto peregrinare alla volta di terre da evangelizzare. Secondo Louis Ellies Dupin il passo della prima epistola di Pietro in cui si legge: «Pascite, qui est in vobis, gregem Dei, providentes non coacto sed spontanee secundum Deum, neque turpis lucri gratia sed voluntarie, neque ut dominantes in cleris sed formae facti gregis»314, doveva essere interpretato come l’esclusione degli apostoli e dei loro successori dalla giurisdizione sul temporale della Chiesa. Quindi, non solo il pontefice come singolo, ma anche la Chiesa nel suo complesso era priva di qualsiasi regalità e di potere nella sfera temporale.

Nel Vangelo di Marco si narra che Gesù Cristo si fosse rivolto ai suoi discepoli, dicendo: «Scitis quia hi, qui videntur principari gentibus, dominantur eis, et principes

312 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., pp. 645-648. 313 ASFi, Reggenza, f. 289.

314 «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio;

non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge». 1 Pt. 5,2-3.

eorum potestatem habent ipsorum»315. Gesù Cristo, spiegavano i regalisti, con queste

parole intendeva che i detentori dell’imperium fossero i discendenti di Cesare, ossia i rappresentanti del potere secolare, e non i suoi seguaci. Ed infatti continuava: «Non ita est autem in vobis, sed quicumque voluerit fieri maior inter vos, erit vester minister; et, quicumque voluerit in vobis primus esse, erit omnium servus»316. Ancora una volta, il messaggio che i regalisti sostenevano avesse la Scrittura, era quello dell’inconsistenza di un potere temporale per la Chiesa di Roma, a causa del rifiuto di Cristo di farsi re dei Giudei. Questi non aveva mai desiderato una Chiesa proiettata nella mondanità, e il pontefice non aveva alcuna prova che potesse testimoniare il contrario. In contemporanea, i regalisti sottolineavano come il Figlio di Dio avesse riconosciuto e legittimato il potere laico di Cesare.

Il rifiuto di Gesù a voler assumere una posizione di potere nel governo laico non si manifestò solo con le parole, ma anche negli atti. Ciò risulta evidente, spiegavano i regalisti, quando pur di non essere nominato Cesare, Cristo fuggì: «Iesus ergo, cum cognovisset quia venturi essent, ut raperent eum et facerent eum regem, secessit iterum in montem ipse solus»317. Non volendo fondare alcun regno, Gesù Cristo non impose ai

suoi seguaci comandi contrari alla normativa statale vigente, ma visse in conformità alle leggi statali, insegnando ai suoi l’obbedienza alle istituzioni e al potere regio318: «Reddite ergo, quae Caesaris sunt, Caesari et, quae Dei sunt, Deo»319. Gli uomini

dovevano porsi sotto il potere politico di Cesare: «ciascuno sia soggetto a colui che gli è

315 «Voi sapete che quelli che sono ritenuti capi delle nazioni e le dominano e i loro grandi esercitano su

di esse il potere». Mc. 10,42.

316 «Fra di voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere

il primo tra voi sarà il servo di tutti». Mc. 10,43-44.

317 «Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna,

tutto solo». Gv. 6,15.

318 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., pp. 518-519

superiore in autorità320, poiché non esiste autorità che non venga da Dio»321, disse

Sant’Agostino. Nell’ottica regalista, al sovrano spettava per volontà divina il diritto di giudicare, di legiferare, di decidere quali teorie insegnare al popolo, di imporre le tasse, di dichiarare guerra, di nominare i consiglieri e le autorità civili, di punire; era questa l’essenza stessa del potere sovrano322. San Paolo affermò che gli uomini dovevano sottomettersi all’autorità regia, poiché le autorità esistenti erano state volute e stabilite da Dio, e che perciò coloro che si opponevano a Cesare e non rispettavano la legge civile, si ponevano in contrasto con la volontà di Dio stesso323. Questo è anche quanto aveva detto San Pietro:

«Subiecti estote omni humanae creaturae propter Dominum: sive regi quasi praecellenti sive ducibus tamquam ab eo missis ad vindictam malefactorum, laudem vero bonorum; quia sic est voluntas Dei»324.

Le parole del primo pontefice ben si accordavano con quelle espresse da San Paolo nell’Epistola ai Colossesi:

«Filii, obeodite parentibus per omnia; hoc enim placitum est in Domino. […] Servi, obeodite per omnia dominis carnalibus, non ad oculum sevientes, quasi homnibus placentes, sed in simplicitate cordis, timentes Dominum»325.

Secondo gli scrittori regalisti San Paolo, con queste parole, intendeva che si dovesse prestare al sovrano la dovuta obbedienza. Egli era padre e padrone dei suoi sudditi, e come si ama il proprio padre e si rispettano i comandi del proprio padrone, così il popolo cristiano doveva atteggiarsi con il proprio principe. L’obbedienza al sovrano doveva essere continua e non manifesta solamente quando si era sotto lo sguardo del

320 Le dottrine regaliste leggevano il termine generico di “autorità” come sinonimo della specifica

“autorità regia”.

321 ASFi, Reggenza, f. 289.

322 T. Magri, Hobbes, Bari, Laterza, 1994, p. 57. 323 ASFi, Reggenza, f. 289; Rm. 13,1-2.

324 «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come al sovrano, sia ai

governatori come ai suoi invitati, per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio». 1 Pt. 2,13-15.

325 «Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. […] Voi, servi, siate docili in tutto

con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Col. 3,20-22.

magistrato; rispettare la volontà della massima autorità era un comandamento divino e se gli occhi del magistrato non vedevano, quelli di Dio certamente lo facevano.

La risposta dei curialisti alle argomentazioni regaliste, si articolava in due assunti326. I passi biblici sfruttati dalla causa giurisdizionalista non volevano in verità insegnare la particolare sottomissione al sovrano temporale, bensì la generale subordinazione dell’“inferiore” al “superiore”. Tale ordine non prevedeva però una commistione tra ecclesiastici e laici, pertanto un ecclesiastico era sottoposto ad un ecclesiastico, e un laico ad un altro laico. In secondo luogo, la sottomissione della Chiesa al sovrano temporale si sarebbe dovuta in realtà concludere una volta che gli imperatori romani si fossero convertiti al cristianesimo. Il clero avrebbe dovuto essere sottoposto alla giurisdizione dello Stato solo finché questo fosse stato guidato dagli “infedeli”; terminata quell’epoca i chierici sarebbero dovuti divenire liberi da quest’obbligo e sottomessi solo al pontefice. A quest’ultimo argomento i regalisti ribattevano sostenendo che i chierici erano prima di tutto sudditi dello Stato temporale,

status che non poteva essere perso con l’acquisizione dell’abito ecclesiastico. Non

esisteva perciò alcuna differenza tra i sudditi laici e chierici, l’unica distinzione esistente era quella tra cittadini e sovrano, in quanto i primi nascevano tutti uguali e tutti egualmente sottomessi al secondo327.

Paolo Sarpi sostenne che l’obbedienza all’autorità civile fosse stata insegnata direttamente da Gesù Cristo tramite il suo esempio328. Cristo fu posto sotto accusa e fu

326 ASFi, Reggenza, f. 289. Bertolini scrisse che questa citazione fu tratta dall’opera dell’ “Autore

Spagnolo” del Giudizio imparziale sopra il Breve di Clemente XIII contro gl’Editti dell’Infante Duca di Parma; si tratta dello storico spagnolo Rodríguez de Campomanes (1723-1802). R. Campomanes, P., Juicio Imparcial sobre las Letras, en forme de Breve, que ha publicado la Curia Romana, en que se intentan derogar ciertos Edictos del Serenísimo Señor Infante Duque de Parma, y disputarle la soberanía temporal con este pretexto, Madrid, J. Ibarra, 1768.

Per maggiori informazioni, si rimanda a: N. Guasti, Lotta politica e riforme all’inizio del regno di Carlo III. Campomanes e l’espulsione dei gesuiti (1759-1768), Firenze, Alinea, 2006; F. Venturi, Economisti e riformatori spagnoli e italiani del ‘700, in «Rivista Storica Italiana», 74 (1962), pp. 532-561.

327 ASFi, Reggenza, f. 289. Il passo è tratto da un’opera di Montesquieu, non indicata. 328 Ibidem.

condannato ingiustamente alla crocifissione da Pilato329; nonostante fosse il figlio di

Dio, come qualsiasi suddito egli accettò la sentenza di condanna che gli veniva mossa, riconoscendo in Pilato l’autorità di giudicarlo. E ciò avvenne perché, disse S. Bernardo riprendendo le parole di S. Paolo, «non est potestas nisi a Deo330. Et qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit»331. Sarpi non si soffermò solo su questo aspetto del passo biblico, andò oltre, e affermò che Cristo dicendo a Pilato «Non haberes potestatem adversum me ullam, nisi tibi esset datum desuper»332, legittimò ufficialmente il potere politico come di diritto divino. Ciò accadde, scrisse Giannone, perché «è ai Principi della Terra che il Signore ha rimesso l’amministrazione della giustizia»333. La tesi sarpiana citata da Bertolini proviene dalle Considerazioni sopra le

censure di Papa Paolo V. L’opera ottenne una Risposta334 (1606) dal carmelitano padre

Bovio, il quale reputò la teoria di Sarpi troppo simile a quella dell’eretico Marsilio da Padova, condannato per le sue asserzioni da Papa Giovanni XXII. Bovio scrisse che i giudizi espressi in merito alla sentenza di Pilato da Sant’Agostino, San Bernardo e Gaetano335 – i quali definirono il suo giudizio come «iniquissimo ma non usurpato», ed asserirono che egli godette di una potestà sia de facto che de iure – dovessero essere intesi come una “permissione” concessa al potere civile336. Il servita Fulgenzio Micanzio replicò quindi a Bovio in un’opera intitolata Confermazione delle

Considerazioni sopra le Censure di Fra Paolo Sarpi337 (1606); nello scritto l’allievo di

Sarpi ribadì che Sant’Ambrogio, San Bernardo e Gaetano, ritennero che «il giudizio fu

329 Gv. 18-19. 330 Rm. 13,1.

331 «Non c’è autorità se non da Dio, e colui che si oppone all’autorità, si oppone all’ordinamento di Dio».

ASFi, Reggenza, f. 289.

332 «Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto». Gv. 19,11. 333 ASFi, Reggenza, f. 289.

334 A. Bovio, Risposta alle Considerazioni del P. M. Paolo da Venetia sopra le censure della Santità

Paolo Quinto contro la Repubblica di Venetia, Roma, Facciotto, 1606.

335 Tommaso de Vio (1468-1534), detto il Gaetano da Gaeta, sua città natale. Cfr.: P. Sarpi, Istoria, op.

cit., p. 16. La tesi di Sarpi si fondò sul giudizio espresso da queste tre autorevoli figure.

336 A. Bovio, Risposta, op. cit., pp. 62-63.

giuridico, con la potestà data da Dio338»339. E continuò spiegando come San Crisostomo

fosse caduto in fallo ritenendo il verdetto sbagliato, e pertanto emesso de facto e non de

iure (in quanto Dio permise di errare). L’ingiusta condanna di Pilato fu de facto, tuttavia

l’autorità della sentenza fu de iure. Micanzio sottolineò quindi come Sarpi si era espresso in maniera del tutto simili a San Tommaso d’Aquino340, e domandò a padre Bovio se anche questo meritasse una condanna quale eretico, come Marsilio da Padova341.

Vediamo dunque cosa scrisse San Tommaso in merito alla questione. Nel Vangelo di Giovanni si narra che alla domanda di Pilato «Ergo rex es tu?», Cristo rispose con le seguenti parole: «Tu dicis quia rex sum. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimonium perhibeam veritati; omnis, qui est ex veritate, audit meam vocem»342. San Tommaso affermò che dal passo biblico risultava evidente che Pilato, una volta escluso il sospetto circa la regalità terrena e compreso che Cristo affermava di essere re solo nell’insegnamento della verità, desiderò conoscere questa e fare parte del suo regno. Ecco perché il racconto prosegue con il quesito di Pilato «Quid est veritas?»343. Come evidenzia Joseph Ratzinger la regalità annunciata da Cristo non

ha nulla a che fare con il mondo temporale, non è una categoria politica, ma è la regalità della verità344.

Ciò che risulta è quindi una certa forzatura da parte di Micanzio nell’interpretazione della dottrina di San Tommaso, il quale aveva posto al centro del suo discorso la questione della verità e non certo quella della natura del giudizio di

338 Si riferisce a: Gv. 19,11. 339 ASFi, Reggenza, f. 289.

340 Summa Theologiae, quaestio CXVII, art. XI. 341 ASFi, Reggenza, f. 289.

342 «Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono

nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”». Gv. 18,36.

343 «Che cos’è la verità?». Gv. 18,37.

344 J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme alla resurrezione, Roma, Libreria

Pilato. Questo passo risulta essere un’interessante esempio di come le dottrine regaliste piegassero i passi biblici e le opere di importanti teologi cristiani a favore delle proprie necessità.

Le tesi regaliste affermavano che il sovrano laico fosse l’unica figura dotata di una potestà temporale; da ciò conseguiva che il potere secolare esercitato dal pontefice era un potere politico ottenuto per mezzo di una concessione regia, una potestà che quindi esercitava de iure civili, e non de iure divino345. Questa affermazione era di una portata rilevante poiché, così dicendo, si rendeva il papa un semplice vassallo del

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