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La categoria del “caso”: per una definizione contemporanea

Il caso grammaticale e la sua interpretazione in Giappone

5.1 La categoria del “caso”: per una definizione contemporanea

È necessario premettere che, riguardo alla questione della definizione della categoria del “caso grammaticale”, non sembra esserci accordo tra i linguisti contemporanei (cfr. Blake 1994; Butt 2006; Malchukov, Spencer 2009 per una introduzione circa tale problema).

Il punto di vista adottato nel presente lavoro è quello di definire “caso grammaticale” come una categoria astratta che permetta di dar conto del collegamento istituito tra gruppi di forme flesse (allomorfi) e gruppi di contenuti, grammaticali o semantici che siano178.

A livello formale è necessaria quindi la presenza di variabilità allomorfica che non sia condizionata dal contesto, ossia la scelta di tali forme non deve dipendere da ragioni morfosintattiche, semantiche o fonetiche: la presenza di allomorfi non prevedibili su base contestuale rende infatti evidente che il predicato selezioni la categoria del “caso” e non un morfema nel particolare. Inoltre, un altro importante prerequisito per poter postulare la categoria del “caso” è che la sua espressione debba essere obbligatoria e il tema nominale non possa comparire isolato. Ad esempio, il cosiddetto “Criterio di Beard” (teorizzato in Beard 1995) sostiene che il tratto [Caso] sarebbe riscontrabile in una lingua soltanto se esso fosse necessario per racchiudere e dare conto di differenti forme che abbiano le medesime funzioni. Allo stesso modo, De Mauro (1965: 55) sembra sottintendere la necessità dell’allomorfia, proponendo la definizione di “caso” come “classe di forme avente funzione unitaria”.

Ad esempio la dicitura “caso ablativo” in latino permetterebbe di dar conto delle funzioni espresse da diversi allomorfi come -ā, -ō, ma anche i plurali -īs, -ibus e così via, la cui scelta non è prevedibile in base al contesto, ma è invece fissata a livello di lessico. Viceversa, coerentemente con Criterio di Beard, in lingue in cui il morfema considerato è invariabile o i suoi allomorfi prevedibili non sarebbe necessario postulare una categoria di “caso”. Un esempio addotto da Spencer, Otoguro (2005) è il caso del turco, in cui si osserva un unico morfema che presenta sì allomorfi, ma questi sono del tutto prevedibili sulla base dell’armonia vocalica. Si prenda ad esempio il suffisso turco comunemente denominato “genitivo” -in: esso ha quattro allomorfi -in, -ın, -ün e -un scelti in base all’arrotondamento e all’avanzamento della vocale del tema. Poiché si tratta di un unico affisso e l’alternanza dei suoi allomorfi dipende da un fattore prevedibile (ossia l’armonia vocalica), Beard (2005) sostiene che si potrebbe utilizzare una dicitura come “forma -in” piuttosto che “caso genitivo”179.

Per quanto riguarda i gruppi di contenuti espressi, questi possono essere grammaticali e/o concreti. Le funzioni grammaticali (o sintattiche) consistono nell’espressione di relazioni grammaticali, come il soggetto, l’oggetto diretto e indiretto; le funzioni concrete

178 Tale approccio è stato definito nel modo più completo solo di recente, cfr. Polivanova (2019).

179 Per alcune critiche molto interessanti al Criterio di Beard cfr. Arkadiev (2010: 417-8), che parte dall’analisi di un articolo di Spencer in cui quest’ultimo si sofferma sul sistema di casi ungherese e arriva a proporre un gran numero di esempi in cui, a parere di Arkadiev, tale Criterio sarebbe difficilmente applicabile.

(o semantiche) riguardano l’espressione di specifici contenuti semantici, come il possesso, il luogo, la compagnia e così via. Nella tradizione grammaticale europea in ciascun gruppo di contenuti espressi da un determinato caso viene selezionato un elemento di significato considerato prototipico per tutta la categoria. Tuttavia, tale prototipicità è facilmente messa in discussione.

Ad esempio, si osservi l’insieme di funzioni che vengono considerate prototipiche del caso accusativo nelle lingue indoeuropee antiche (cfr. Kuryłowicz 1964: 181-3; De Mauro 1959: 239-40). Tramite tale caso si esprime la relazione grammaticale dell’oggetto diretto (funzione considerata centrale da Kuryłowicz) e un insieme di contenuti semantici specifici come la direzione o moto a luogo, l’estensione temporale (con sostantivi che denotano un lasso di tempo come nox, annus), l’estensione spaziale (con sostantivi che indicano una misura o una distanza), l’accusativo “di contenuto” (detto anche “cognate object”, quando il sostantivo in accusativo è etimologicamente o semanticamente connesso con il verbo, es. in latino vitam vivere o aetatem vivere ‘vivere la vita’ o in sanscrito tapas tapyate ‘una penitenza viene espiata’), l’accusativo di relazione (esprime una limitazione, es. πόδας ὠκὺς ‘pié veloce’, ‘veloce quanto ai piedi’). De Mauro (1959: 241) nota, a ragione, che potrebbero essere riconosciute numerose altre categorie come l’accusativo di argomento (con verbi come doceo), l’accusativo laborativo (o accusativus algeticus) che designa la parte dolente con verbi connessi al soffrire, e così via, e che i confini tra tali categorie sono estremamente labili e sfumati.

Non sembra quindi possibile definire in modo preciso la semantica dei diversi casi e, benché per convenienza si utilizzino spesso le medesime diciture “parlanti” in tutte le lingue (come “accusativo”, “dativo” e così via), non è possibile rintracciare una perfetta corrispondenza tra le funzioni di tali categorie in ciascuna lingua: è quindi improprio riferirsi a una entità (come l’accusativo) applicabile a qualsiasi lingua (cfr. Haspelmath 2009: 510). Il riconoscimento dei contenuti semantici espressi da ciascun caso è legato in modo specifico a ciascuna lingua all’interno di cui tale categoria sia riconoscibile.

La terminologia dei casi nasce infatti nel contesto della filosofia greca: con il termine πτῶσις Aristotele identificava non soltanto i casi grammaticali ma anche procedimenti di suffissazione e derivazione (De Mauro 1965: 34-5) e sarebbero poi stati gli stoici a restringere l’uso di tale termine alla sola declinazione nominale, distinguendola dalla coniugazione dei verbi, che sarebbero “senza caso” (ἄπτωτον)180. La terminologia utilizzata

180 È molto curioso, a tale proposito, che, come vedremo, gli studiosi giapponesi a partire dal XIX secolo applicarono la categoria del caso anche a elementi come verbi, congiunzioni e così via. Si veda §5.3.3; §5.3.4; §5.3.5.

in Grecia venne accolta dai grammatici latini, che aggiunsero ai cinque casi greci il “casus sextus” (l’ablativo), ma le interpretazioni attribuite a posteriori dai romani sono spesso fuorvianti, tanto che i calchi latini dei termini greci destano molte perplessità (cfr. De Mauro 1965: 43 ss.).

Un esempio è il termine per “dativo”, che viene tradizionalmente interpretato come “caso del dare” o “caso di colui al quale si dà”. Tali definizioni, però, non rispecchiano il vero utilizzo del dativo in greco, poiché la percentuale di uso del dativo greco con verbi come δίδωμι è relativamente bassa in greco, al contrario di utilizzi che si sovrappongono all’ablativo latino o allo strumentale sanscrito, come la funzione locativa, quella strumentale, causale e così via. De Mauro propone infatti di interpretare il caso dativo in senso più generale, e più conforme alle probabili radici aristoteliche di questa terminologia, come il caso che esprime “tutte le realtà concrete delle quali il processo deve tener conto e con le quali esso opera, realtà concrete entro i cui limiti il processo si sviluppa”: in questo senso queste realtà sono tutte “dati”; il dativo, insomma, come il caso della “datità”.

Allo stesso modo, l’accusativo viene tradizionalmente inteso come “caso dell’accusato”, ma De Mauro (1965: 53-4) ipotizza che esso sia identificabile come il caso che esprime l’eventus o fructus dell’azione, ossia ciò che “l’azione reca in sé stessa come una sua indispensabile qualificazione”. Ne consegue che, in rapporto a un predicato che esprime il contenuto di “dire”, l’accusativo denota ciò che viene detto (senza il quale l’azione non sarebbe possibile), il dativo segnala il luogo, il tempo, le circostanze, gli strumenti, che sono “dati” all’azione.

Tale ipotesi ricostruttiva è però applicabile soltanto al greco, mentre in latino tali “dati” sarebbero espressi in ablativo e in sanscrito anche in strumentale o locativo. È quindi evidente che non sia possibile una perfetta sovrapposizione tra le funzioni dei diversi casi nelle lingue indoeuropee antiche, poiché i “casi” sono categorie specifiche di ogni lingua e ciascuna etichetta di caso è valida soltanto all’interno della lingua in questione.

Tale approccio ci permette di prendere le distanze dalle definizioni più comuni di “caso grammaticale” riscontrabili nella letteratura scientifica, che trattano tale categoria in modo differente.

Da un lato, si osservano definizioni legate all’espressione morfologica del “caso”. Tradizionalmente, infatti, “caso” viene sovrapposto alla flessione nominale: ad esempio, Jespersen (1924: 186) sosteneva la possibilità di riconoscere il “caso” solo in presenza in presenza di morfemi flessivi, mentre sequenze di preposizione e nome non potrebbero essere identificabili come tali (cfr. Haspelmath 2009: 505, che scrive che “caso” si riferisce

a un “inflectional category-system”). Pian piano gli studiosi hanno ammesso ulteriori stratagemmi per esprimere tale categoria, infatti già Hjelmslev (1935: 127) sosteneva che sia la strategia della flessione nominale, sia quella dell’utilizzo delle preposizioni esprimerebbero allo stesso modo la relazione fra due elementi, così che la categoria del “caso” potrebbe essere applicata a entrambe. Tradizionalmente tali due diverse strategie di marcatura vengono definite “caso sintetico” (quando il caso è espresso da un affisso legato) e “caso analitico” (quando è espresso da una preposizione o una postposizione e il sostantivo). Oltre a tali due modalità, più recentemente gli studiosi hanno identificato come espressione del “caso grammaticale” anche clitici, modifiche interne al tema e sovrasegmentali, come ad esempio nelle alternanze di tono riscontrate in alcune lingue nilotiche (Moravcsik, 2009: 231; Haspelmath et al. 2005: 210-1). “Caso” sembra quindi essere divenuto indipendente dall’espressione formale e poter essere realizzato tramite mezzi espressivi diversi come la flessione, l’ordine delle parole, le preposizioni e così via (cfr. Lyons 1968: 302-4). Come conseguenza di tale ipotesi, la definizione del “caso” sarebbe possibile soltanto dal punto di vista funzionale.

Dall’altro lato, infatti, la definizione funzionale di “caso” collega tale categoria a qualsivoglia espediente morfologico o sintattico che permetta di segnalare il ruolo semantico di un elemento o la relazione grammaticale tra più elementi181. “Caso

grammaticale” sarebbe quindi una strategia di “overt marking of the syntactic or semantic function of a nominal or pronominal argument” (Bickel, Nichols 2009: 482).

Poiché “caso” avrebbe la funzione di esprimere il ruolo semantico o la relazione grammaticale di un nominale, una distinzione comunemente accettata è quella che oppone casi grammaticali (o sintattici, relazionali, astratti) e casi semantici (o concreti, avverbiali, periferici, cfr. Haspelmath 2009: 508). Casi grammaticali sono considerati generalmente il nominativo e l’accusativo; alcuni studiosi vi includono anche il genitivo e raramente il dativo182. I casi grammaticali sono così definiti se sono selezionati dal verbo ed esprimono

relazioni grammaticali come il soggetto, l’oggetto diretto o indiretto (quindi l’inserimento del dativo in tale categoria sarebbe corretto)183.

181 Come notano giustamente Spencer e Otoguro (2005: 119; 143), questo assunto avrà la sua logica conclusione nell’idea di “caso astratto” di Chomsky, in cui il Caso diventa un meccanismo operativo in tutte le lingue, espressione di una proprietà della Grammatica Universale, indipendentemente dalla sua realizzazione morfologica. La visione di Chomsky è quindi alquanto lontana dall’interpretazione tradizionale di questo concetto, quasi fosse solo una pura coincidenza terminologica. In quanto tale, non sarà presa in considerazione nel presente lavoro.

182 Kuryłowicz (1964: 179) include il genitivo, ma afferma che la posizione del dativo rimane incerta. Hjelmslev (1935: 57) include il genitivo nei casi grammaticali, il dativo nei casi locali.

183 Si tratta di una distinzione sorta all’interno degli studi di indoeuropeistica, quindi il caso ergativo e assolutivo (nelle lingue ad allineamento ergativo-assolutivo) o i due casi utilizzati per marcare agente e

I casi semantici o concreti esprimerebbero uno specifico contenuto semantico: si tratterebbe quindi di casi come il comitativo, il comparativo e così via. Una grande sottoclasse all’interno dei casi semantici è costituita dai cosiddetti casi “locali”, che hanno la funzione di esprimere relazioni spaziali (cfr. Haspelmath 2009: 514-6, che distingue casi concreti non spaziali come strumentale, comitativo, abessivo, comparativo e così via e casi spaziali, cfr. anche Creissels 2009). Casi locali sono ad esempio il locativo, l’allativo (che esprime il moto a luogo), il perlativo (che indica il moto per luogo), l’ablativo (moto da luogo184), ma in alcune lingue si può generare un complesso sistema che indichi anche

l’orientamento (verticale o orizzontale) e altri parametri di descrizione del movimento. Si noti, però, che tali casi concreti o semantici sembrano specializzati nell’esprimere un solo contenuto, il che contraddice quindi la definizione da noi utilizzata, secondo la quale è necessario identificare un gruppo di contenuti o funzioni espressi dal morfema di caso (con i suoi allomorfi).

È utile notare, infatti, che benché i casi concreti in senso stretto esprimano uno specifico contenuto semantico, nella tradizione degli studi di indoeuropeistica vengono così definiti casi come lo strumentale e l’ablativo, che – come noto – esprimono più di un contenuto semantico specifico e possono anche marcare gli attanti. Ad esempio, un caso che viene definito concreto come l’ablativo in latino può esprimere l’origine, il luogo, lo strumento e così via, ma anche l’agente in frase passiva185. L’opposizione tra casi

grammaticali e concreti, dunque, non è così netta e, in assenza di criteri oggettivi, sembra impossibile mantenere le due categorie distinte186.

Un terzo approccio, incompatibile con i due precedenti, sovrappone “caso” ai ruoli semantici. Ad esempio, Fillmore (1968) definisce “deep cases” ruoli come agente, strumento, origine e così via, selezionati dal predicato e assegnati a ciascun sintagma nominale (cfr. Dowty 1991), a prescindere dalla realizzazione morfologica.

paziente nelle lingue ad allineamento attivo-stativo spesso non sono menzionati, ma sarebbero classificabili a buon diritto come casi grammaticali. Non sembra essere riscontrabile una dicitura universalmente accettata per indicare i due casi delle lingue attivo-stative: ad esempio Haspelmath (2009: 513) li chiama “agentivo” e “pazientivo”, ma Vovin (2005) nel suo studio sull’allineamento morfosintattico del giapponese li chiama “attivo” e “assolutivo”.

184 Si noti che, benché si utilizzi l’etichetta “ablativo” per indicare il caso che esprime il moto da luogo, di fatto esso non si può sovrapporre al caso ablativo di lingue come il latino, in quanto in latino l’ablativo svolge numerose funzioni e ha un uso estremamente più ampio.

185 Situazione similare si ha con lo strumentale sanscrito, che esprime specifici contenuti semantici come strumento e compagnia, ma anche il ruolo semantico dell’agente in frase passiva. Sull’utilizzo dello strumentale in sanscrito cfr. Whitney (1896: 83 ss.). Questo utilizzo dello strumentale sanscrito conduce Kuryłowicz (1964: 188) a ipotizzare di includere tale caso nel gruppo dei casi grammaticali.

186 Tale problema era già stato notato in Jespersen (1924: 185), ciononostante la distinzione è stata continuamente applicata negli studi sul caso fino ai giorni nostri.

Prima di osservare in che misura tali approcci siano stati applicati al giapponese, è utile notare che, secondo Haspelmath (2009: 506), la marcatura di aspetti pragmatici e legati al livello informativo, come la definitezza, il topic e il focus, tradizionalmente “have never been considered cases”. In realtà, già Kibrik (1997: 295 ss.) discuteva della possibilità di segnalare in modo cumulativo o separato il livello semantico, quello comunicativo e la dimensione deittica (ossia il livello in cui si situano i partecipanti al discorso). Allo stesso modo, Butt (2009: 27) ritiene che in molte lingue la marcatura di caso non sarebbe solo collegata alle relazioni grammaticali, ma anche a parametri come agentività, animatezza, definitezza, e così via, e interagirebbe inoltre con elementi pragmatici come il topic e il focus.

Negli studi tradizionali giapponesi, infatti, le particelle che marcano elementi pragmatici (kakakri joshi nella classificazione yamadiana, wa, mo, zo, koso e così via) sono spesso trattate come morfemi che indicano il “caso”, al pari di particelle come ga, no, wo. Tale approccio è presente già nelle grammatiche ottocentesche (in Kurokawa, ad esempio), ma anche in Yamada, sebbene quest’ultimo sia il primo studioso a distinguere nettamente le particelle pragmatiche da quelle che esprimono il “caso” (§5.3.5).