Come si è visto, nel lavoro del 1938 Matsuo si occupa dell’alternanza wo ~ Ø nel segnalare l’oggetto diretto nei testi composti tra l’VIII e il X secolo, distinguendo varie tipologie di testi (parti dialogiche, narrative e poetiche) e partendo dall’ipotesi che in origine tale particella avesse soltanto una funzione enfatica. In un lavoro successivo, pubblicato nel 1944, Matsuo ritorna sull’argomento per soffermarsi sui contesti sintagmatici nei quali l’alternanza si manifesta, analizzando in particolare quali elementi sono generalmente seguiti da wo e quali da Ø.
Ai lavori di Matsuo si ispirano due studiose, le quali hanno analizzato le occorrenze della particella wo tenendo conto sia delle tipologie testuali che in parte degli elementi contrassegnati o meno dalla particella medesima. Come Matsuo, Hiroi (1957) e Oyama (1958) ritengono infatti che nel periodo Nara e Heian wo esprimesse solo una particolare enfasi a livello emotivo e che, col passare del tempo, la particella wo presente in tali esclamazioni e interiezioni sarebbe stata percepita come una particella con funzione morfologica, dando così il via al processo di grammaticalizzazione. Le due studiose analizzano testi che risalgono a un periodo appena successivo a quello esaminato da Matsuo (le cui ricerche includevano testi redatti fino al 951 d.C.): Hiroi (1957) si concentra sull’ Utsubo monogatari (宇津保物語 Storia di un albero cavo, 970-1000 d.C.), mentre Oyama (1958) si occupa del Genji monogatari (源 氏 物 語 Storia di Genji, inizio XI secolo). Mentre Hiroi non esplicita la scelta del testo esaminato, Oyama invece afferma di aver optato per il Genji monogatari, poiché esso costituirebbe un buon testimone delle varietà diastratiche e diafasiche del giapponese dell’epoca, dato che tratta di un immenso
numero di tematiche e presenta numerosissimi personaggi, differenti per sesso, età, livello sociale15.
Entrambe le studiose analizzano i casi in cui la particella sembra apparire più frequentemente: secondo Oyama (1958) wo presenterebbe una maggiore frequenza di utilizzo quando si esprime emozione, esclamazione, tristezza o cordoglio (relazioni sentimentali, descrizione di paesaggi naturali, allontanamento da una persona o decesso), in occasioni solenni o austere (principalmente legate alla corte), in casi in cui si riconosce chiaramente un influsso del materiale sino-giapponese (connessi al confucianesimo o al buddhismo) e in porzioni di testo relative a un personaggio particolare. Hiroi (1957) conferma una situazione simile nel testo da lei analizzato: la particella wo verrebbe utilizzata più spesso quando si esprime un sentimento o una emozione, nelle parti influenzate dal kanbun kundoku, quando si esprimono concetti teorici che implichino l’utilizzo di molti modificatori tra verbo e oggetto16 e quando si parla di personaggi legati
alla corte.
Secondo Oyama, la particella comparirebbe invece meno frequentemente quando si descrive una situazione di estrema urgenza o di inquietudine, quando in prosa si elencano una serie di elementi (come doni ricevuti o strumenti musicali suonati) e nei casi di parlato rapido (la particella wo viene spesso omessa nei dialoghi): la velocità d’eloquio e l’elenco di più elementi sono individuati anche da Hiroi come fattori che favoriscono l’assenza di wo.
Le due studiose sottolineano quindi la maggiore frequenza di utilizzo di Ø nelle porzioni dialogiche di testo, ad esempio nella frase (4), proposta da Hiroi e tratta dal terzo capitolo dell’Utsubo monogatari:
(4) 「まろにふえ習はし給ふ
maro ni pue narapa-shi-tamapu
io OGIN flauto imparare.IPFV-CAUS.INF-HON.ADN 人のなり」と言ふ。
pito no nari to ipu
15 Sembrerebbe che l’autrice abbia utilizzato le tre condizioni essenziali proposte da Tokieda Motoki che definiscono il linguaggio come processo mentale (che verranno prese in considerazione in §4.3.2; §5.3.5): shutai 主体 ossia la persona che parla o scrive e forma una relazione parlante-ascoltatore con il suo interlocutore, bamen 場面 ossia il contesto in cui lo shutai agisce, e sozai 素材 ossia il contenuto che viene pronunciato o scritto. A questo proposito si veda Hiroi (1957: 43).
16 Il problema non sembrerebbe allora essere l’espressione di un concetto teorico quanto piuttosto la lontananza tra oggetto e verbo reggente, cosa già notata in Matsuo (§1.1).
persona PART essere.FIN QUOT dire.FIN 「あざましの事や」とて見給はず。
azamashi no koto ya tote mi-tamapa-zu
sorprendente.FIN ATTR cosa ENF QUOT vedere.INF-HON.IPFV-NEG.FIN 「なほ見給ひて、御返り賜え」
napo mi-tamapi-te, mi-kaeri tamape
proprio vedere.INF-HON.INF-GER HON-risposta dare.IMP と宣ひて、「今言はむ物ぞ」
to notamapi-te ima ipamu mono zo
QUOT dire.INF-GER ora dire.IPFV-CONG cosa PART とて泣きののしり給ふ
tote naki-nonoshiri-tamapu
QUOT piangere.INF-gridare.INF-HON.FIN
‘“È (da parte di) colui che mi insegna (a suonare) il flauto” disse,
“sorprendente” disse e non osservò nemmeno; “leggete come si fa di solito e rispondete” disse, “dite qualcosa!” urlò piangendo’(Utsubo monogatari III).
Nella sequenza di discorsi diretti dell’esempio (4), si ha Ø in due occorrenze: nella prima riga pue narapashi, in cui pue ‘flauto’ è oggetto diretto del verbo ‘imparare’ e nella frase successiva, in cui mikaeri ‘risposta’ è oggetto del verbo in forma imperativa tamape. Hiroi afferma che questi due esempi di occorrenza di Ø sarebbero dovuti all’omissione tipica del parlato (parla di kaiwateki shōryaku no seikaku 会話的省略の性格 proprietà ‘ omissive tipiche del parlato’), che avviene spesso ad esempio nei casi di discorso riportato a terze persone oppure quando entrambi gli interlocutori già conoscono l’argomento della discussione.
È inoltre utile sottolineare la minuziosa descrizione proposta da Oyama (1958: 129-36), che per ogni porzione dialogica di testo annota fattori come sesso, status sociale del parlante e il rapporto tra gli interlocutori17. Ad esempio, è prevedibile che quando il
parlante è un monaco buddhista o si tratta di una persona particolarmente versata negli studi classici, la frequenza di wo nel suo eloquio sia più alta rispetto al parlato di tutti gli altri personaggi: tale fenomeno sarebbe chiaramente spiegabile grazie all’influsso del sistema di glossature del materiale cinese. Anche quando il parlante è una persona vicina alla corte e alla famiglia imperiale la frequenza di wo sembrerebbe più alta: anche qui
l’eloquio di questi personaggi sembra più raffinato, solenne ed elegante e questo giustificherebbe la maggiore presenza di elementi enfatici come wo18. Questi due elementi
sono confermati anche dalle osservazioni di Hiroi, che nota che nel discorso diretto il Sovrano tende a utilizzare più frequentemente wo rispetto a Ø.
Oyama nota poi una differenza nel parlato legata al sesso del parlante, ossia il fatto che gli uomini in media utilizzerebbero la particella wo meno frequentemente rispetto alle donne: negli uomini la frequenza di wo oscillerebbe fra 52-54%, mentre nelle donne si osserverebbe una media di 61%. Oyama tenta di spiegare questa diversa percentuale d’uso accennando soltanto al fatto che le donne sarebbero più emotive degli uomini, ma non sembra essere una motivazione sufficiente. A tale proposito, anche Hiroi (1957: 54) analizza brevemente l’utilizzo di wo nell’eloquio di alcuni personaggi dell’Utsubo monogatari in rapporto al sesso dell’interlocutore. La studiosa non offre un conteggio preciso, ma afferma che gli uomini tendenzialmente utilizzano wo in misura maggiore quando il personaggio con cui interloquiscono è di sesso femminile. La medesima tendenza è osservabile nell’eloquio di alcuni importanti personaggi femminili come la Consorte Imperiale, nel loro parlato con gli uomini: Hiroi spiega però la posizione occupata dalla Consorte Imperiale, differente rispetto alle altre donne del racconto, motiverebbe tale utilizzo della particella wo. Purtroppo Hiroi non fornisce ulteriori dettagli e non chiarisce l’utilizzo di wo nell’eloquio tra donne o tra uomini.
Può essere utile notare, a tale proposito, che già Labov (1966; 2001) a più riprese aveva sottolineato che le donne tendono a evitare varianti non standard e utilizzare la variante di prestigio: Labov (2001: 266) sostiene infatti che “for stable sociolinguistic variables, women show a lower rate of stigmatized variants and a higher rate of prestige variants than men”. Labov propone numerose analisi, effettuate sia dallo studioso stesso che da altri studiosi e riguardanti varianti sia a livello fonetico che morfosintattico, che dimostrano come le donne presenterebbero una tendenza all’utilizzo di tratti standard, posto che la classe sociale di appartenenza non sia bassa e che esse abbiano accesso alla “prestigious norm”. È evidente come queste limitazioni non riguardino le protagoniste donne dei racconti analizzati da Oyama e Hiroi, che appartengono allo strato sociale più elevato e
18 Oyama spiega evidentemente questi fenomeni ponendo alla base la teoria secondo cui wo avrebbe avuto solo una funzione interiezionale in epoca Heian: è per questo che la presenza di wo nel parlato dei personaggi appartenenti alla famiglia imperiale viene giustificata sulla base dell’enfasi e non – in modo più verosimile – per mezzo di fattori come la formalità e il registro più elevato. La differenziazione tra il registro scritto (più formale e elevato) e il registro parlato sarebbe divenuta evidente qualche secolo dopo la scrittura del Genji monogatari, ma è possibile che già all’epoca vi fosse una differenza. Discuteremo di questi temi in §2.4.
spesso ricoprono ruoli ufficiali o in ogni caso importanti (come la Consorte Imperiale e le diverse consorti di Genji). La particella wo sembra, anche in questo caso, collegata a una maggiore formalità osservabile nei personaggi femminili rispetto a quelli maschili.
Ulteriore elemento notato da Oyama è il collegamento tra l’utilizzo di wo e il rapporto tra gli interlocutori: wo tenderebbe a comparire più frequentemente nel caso in cui l’ascoltatore appartenga a un rango sociale più alto del parlante e nei casi in cui il parlante non si senta a proprio agio con l’interlocutore. Ad esempio, nel caso in cui il protagonista Genji parli con il Sovrano wo compare assai spesso, mentre quando parla con le donne con cui ha relazioni sentimentali o un rapporto più intimo tende a comparire Ø. Un esempio proposto da Oyama è il rapporto tra Genji e una delle sue consorti, Murasaki. Infatti, quando Murasaki è ancora una bambina, Genji si rivolge a lei non utilizzando la particella esplicita, ma quando il loro rapporto diventa più intimo, la percentuale di utilizzo di wo inizia a salire fino a pareggiare quella dell’utilizzo di Ø, mentre quando Genji idealizza la sua figura, la percentuale di wo è più alta di quella di Ø.
A tutti i fatti da lei analizzati Oyama tenta di dare una ratio spiegando che wo aggiungerebbe soltanto una generale enfasi nella frase, senza veicolare alcun valore grammaticale. Il Sovrano e gli appartenenti alla famiglia imperiale, ad esempio, parlerebbero in modo più austero e solenne, così le donne tenderebbero a essere sentimentalmente più coinvolte rispetto agli uomini, allo stesso modo con persone di rango alto si tenderebbe a mantenere un registro più elevato mentre con persone con cui si è in confidenza il registro sarebbe differente: quando wo è presente, quindi, tale particella esprimerebbe il coinvolgimento emotivo da parte del parlante nei confronti dell’evento descritto o della situazione.
Shibatani (1990: 345-7), però, ipotizza che tale sfumatura semantica si sia sviluppata proprio nel periodo Heian, a causa dei mutamenti che coinvolsero il linguaggio onorifico dell’epoca, che divenne progressivamente più elaborato: la particella sarebbe stata utilizzata principalmente in connessione con persone particolari, come il Sovrano, o quando si dovesse esprimere un forte attaccamento o emozione. Tale sfumatura – continua Shibatani – si sarebbe perduta gradualmente nei periodi successivi e la particella wo si sarebbe diffusa sempre di più nella lingua scritta per influsso del materiale sino- giapponese19.
19 Shibatani accenna al fatto che in alcune lingue l’oggetto può essere marcato o meno sulla base della presenza di una “semantic significance”. Pur non nominandolo mai espressamente, Shibatani sembra accennare alla presenza del fenomeno della marcatura differenziale dell’oggetto (DOM, §2.1) almeno nel periodo Heian, mentre scrive che nel periodo Nara l’utilizzo di wo era facoltativo: come si vedrà gli studi contemporanei hanno invece dimostrato che il fenomeno del DOM sarebbe riscontrabile anche nel
Lo stesso Matsuo (1944: 626-7; 630-1) – come accennato – aveva iniziato ad affrontare il problema circa i contesti sintagmatici in cui wo poteva comparire. Matsuo aveva escluso che la presenza di wo dipendesse dal verbo reggente (miru 見 る vedere’, kiku 聞 く ‘ ‘ ascoltare’, ipu 言 ふ dire’ reggono sia wo che Ø), ma aveva notato che la particella ‘ tendeva a presentarsi più frequentemente in tre casi. Il primo è costituito dal caso in cui il sostantivo rimanda a un referente umano (nomi propri o pronomi personali), come ad esempio (5):
(5) 女をとかくいふこと
wonna wo tokaku ipu koto
donna OGG ogni modo dire.ADN cosa 月日へにけり
tuki niti pe-ni-keri
luna giorno passare.INF-PAST.INF-PAST.FIN
‘dopo aver corteggiato in vari modi per mesi una donna’ (Ise monogatari XCVI).
Il secondo caso è costituito dai sintagmi in cui l’oggetto è un pronome dimostrativo, ad esempio (6):
(6) 是を見奉りてぞ
kore wo mi-tatematuri-te zo
questo OGG vedere.INF-HON.INF-GER ENF 国の司もほほゑみたる
kuni no shi mo popowe-mi-taru
paese ATTR capo TOPEN ridere.INF-vedere.INF-PAST.ADN
‘a vederlo così conciato, persino il Governatore non riuscì a trattenere le risa’ (Taketori monogatari VI).
Il terzo è la presenza di frasi nominalizzate con o senza nominalizzatore (koto, yoshi). Un esempio senza nominalizzatore è (7), in cui wo segue la forma attributiva dell’ausiliare del passato, connesso al verbo ‘essere’:
(7) 男妹のいとをかしげ
wotoko imouto no ito wokashi-ge uomo sorella ATTR assai bella-SUFF なりけるをみをりて
nari-keru wo mi-wori-te
essere.INF-PAST.ADN OGG vedere.INF-essere.INF-GER
‘un uomo, osservando la straordinaria avvenenza della sua giovane sorella’ (Ise monogatari XLIX).
La non espressione della particella sarebbe invece più frequente quando il referente è una cosa (mono 物), una poesia o una canzone (la parola fumi ‘poesia, testo, lettera’ spesso occorre con Ø), oppure vestiti, capelli e bevande come il sake. Ad esempio:
(8) あやしき歌ひねりいだせり
ayashiki uta pineriidase-ri
strana.ADN poesia comporre con difficoltà.INF-PAST.FIN
‘ha composto questi strani versi con grande difficoltà’ (Tosa nikki 2.7);
(9) 御ぞぬぎてたまへけり
on-zo nugi-te tamape-ri-keri
HON-veste svestire.INF-GER dare.PFV-PAST.INF-PAST.FIN ‘si tolse una veste e gliela donò’ (Ise monogatari LXXXV);
(10) おきのゐてみやこじまといふところにて okinowite miyakojima to ipu tokoro nite
Okinowite Miyakojima QUOT dire.ADN posto LOC さけのませてよめる
sake noma-se-te yome-ru
alcool bere.IPFV-CAUS.INF-GER declamare.PFV-PAST.ADN
‘fu così che a Okinoite Miyakoshima gli servì del sake e declamò i versi’ (Ise monogatari CXV).
Negli esempi precedenti gli oggetti diretti non segnalati dalla particella wo sono i seguenti: uta ‘poesia, versi’ nella frase (8), on-zo ‘veste’ in (9) e sake ‘bevanda alcolica’ in (10)20.
Anche questo fenomeno viene interpretato da Matsuo in funzione della sua teoria secondo cui wo avrebbe una funzione enfatica: afferma infatti che se essa fosse stata riconoscibile come particella dell’oggetto avrebbe dovuto avere un utilizzo più ampio e non connesso soltanto alle categorie sovramenzionate. Matsuo (1944: 640) conclude che in realtà l’utilizzo di wo in questi testi sarebbe più affine a quello di una particella con funzioni pragmatiche (kakari joshi)21 come wa e mo. Tali morfemi, detti nelle grammatiche
contemporanee ‘particelle di topic e focus’, non esprimono alcuna relazione né ne modificano una esistente fra l’elemento a cui sono legate e il predicato o gli altri costituenti della frase, ma lo sottolineano, lo enfatizzano o lo pongono in discussione: segnalano appunto il topic o il focus della frase. A parere di Matsuo, così come wa avrebbe avuto già in epoca Heian la caratteristica di sottolineare ed enfatizzare un elemento, anche wo potrebbe aver avuto la stessa funzione. Matsuo sembra quindi sottintendere uno stadio intermedio tra una prima fase in cui la particella wo aveva soltanto una funzione interiezionale e l’ultimo, in cui essa si grammaticalizza come particella dell’oggetto diretto nota oggi: tale fase intermedia sarebbe collegata a una funzione pragmatica, in cui wo sottolineerebbe ed enfatizzerebbe l’elemento precedente.