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LA FINANZA COMPORTAMENTALE

2.1.2 LA CRITICA ALL’IPOTESI DEI MERCATI EFFICIENT

Le numerose critiche empiriche e teoriche alle ipotesi dei mercati efficienti hanno evidenziato come la realtà dei mercati sia molto diversa da quella descritta dalla finanza tradizionale. Dal punto di vista teorico vengono sollevate tre eccezioni principali.

Per prima cosa, ricollegandoci a quanto esposto nel paragrafo precedente, sappiamo che gli individui e, quindi, anche gli investitori, si comportano irrazionalmente. Fischer Black48 (1986) conferma questa intuizione accertando l’esistenza, nei mercati finanziari, dei cosiddetti “noise trader”, ossia investitori irrazionali che operano sulla base di fattori diversi dall’esame razionale delle informazioni disponibili. Secondo Kahneman e Riepe49 (1998) esiste una lunga serie di situazioni in cui gli individui deviano dal processo decisionale razionale ricorrendo a modalità spiegabili solamente dalla psicologia e dalla sociologia. In particolare individuano tre categorie di deviazioni: l’attitudine per il rischio, la formazione di aspettative diversa dal paradigma bayesiano e la sensibilità delle decisioni alla struttura del problema. Essendo la teoria EHM basata totalmente sulla razionalità degli investitori, è probabile che la psicologia rappresenti per essa una minaccia seria e forse fatale (Shleifer, 2000).

48 Black F., 1986, “Noise”, Journal of Finance, pp. 529-543.

In secondo luogo a mettere in crisi le ipotesi di efficienza dei mercati finanziari è la presenza negli stessi di altri soggetti operativi oltre agli investitori individuali. A gestire buona parte del denaro, infatti, sono i numerosi professionisti delle istituzioni finanziarie che, oltre ad essere influenzati dai pregiudizi tipici di un qualsiasi soggetto, sono condizionati anche dalle distorsioni derivanti dall’aver ricevuto la delega a gestire il denaro altrui.

Infine viene fatto oggetto di critica il concetto di arbitraggio senza rischio. La letteratura degli ultimi decenni ha evidenziato come non sempre sia possibile effettuare un arbitraggio del tipo delineato da Milton Friedman (1953) e Eugene Fama (1965). Vi sono diversi rischi che si possono materializzare e che portano ad un arbitraggio limitato; per comprendere quest’ultimo ci si rifà al modello proposto in un recente lavoro di Barberis e Thaler50 (2001). Vengono individuate quattro tipologie di rischio:

il rischio fondamentale, consiste nella possibilità che il valore fondamentale di un titolo possa cambiare a seguito della diffusione di nuove informazioni. Ad esempio, se delle cattive notizie tendono a far scendere ulteriormente il prezzo di un titolo, l’arbitraggista che lo ha acquistato in un mercato in cui era sottostimato per coprirsi da questo rischio venderà un titolo sostituto ma non sempre questo è perfetto e quindi non gli consentirà di eliminare del tutto il rischio fondamentale;

il rischio di noise trader, consiste nello sfruttamento da parte degli arbitraggisti della differenza tra il prezzo di un titolo e il suo valore fondamentale, possibile però solo nel breve termine. Generalmente gli arbitraggisti, lavorando per istituzioni finanziarie e quindi gestendo denaro altrui, operano in un’ottica di breve termine: perdite immediate comportano il rischio che i soggetti ritirino i fondi e per questo motivo, di fronte ad un titolo che, a causa degli investitori irrazionali, vede il suo prezzo abbassarsi sempre più nel tempo gli arbitraggisti non possono assumere una prospettiva di medio lungo termine, che consente di accettare le perdite e sperare in un rialzo del prezzo fino al suo valore fondamentale, ma devono sempre ragionare nel breve periodo;

 i costi di implementazione, sono tutti quei costi che complicano l’esecuzione dell’arbitraggio: i costi di transizione, le commissioni o i bid-ask spread e se poi si hanno compravendite di titoli in mercati stranieri le eventuali restrizioni legali a cui possono essere soggette richiedono un costo notevole per il loro superamento;

 il rischio di modello, consiste nella possibilità che l’arbitraggista non sia certo dell’esistenza della differenza tra prezzo e valore fondamentale. Questa differenza è il frutto

50

Barberis, Nicholas e Thaler R., 2003, “A Survey of Behavioral Finance”, in Handbook of Economics and Finance, a cura di G.M. Costantinides, M Harris e R. Stulz, Elsevier Sciencs B.V.

dell’applicazione di un proprio modello di calcolo che può risultare impreciso o, nel peggiore dei casi, completamente sbagliato.

Tutti questi rischi limitano l’operazione di arbitraggio e rendono il mercato inefficiente.

Dal punto di vista empirico, invece, la critica all’ipotesi dei mercati efficienti si avvale di numerosi studi pratici.

Uno degli studi più noti è sicuramente quello condotto da Rober Shiller (1981)51 in cui dimostrò che la volatilità dei mercati è maggiore rispetto a quanto ipotizzato e spiegato con l’EMH. Sull’esempio di Shiller altri studiosi indagarono il tema e riscontrarono molte altre anomalie che contribuirono ad enfatizzare i limiti degli assunti della finanza moderna.

Uno dei primi comportamenti anomali analizzati fu definito “effetto gennaio”. Rozeff e Kinney (1976)52, esaminando i rendimenti medi della borsa di New York nel settantennio 1904-1974, constatarono che il rendimento medio nel mese di gennaio era più elevato (nel periodo osservato del +0.42%) rispetto a quello degli altri mesi. Se la regola secondo la quale il prezzo dei titoli è uguale al suo valore fondamentale fosse valida, questo non dovrebbe accadere.

In seguito, Lakonishok e Smidt (1988)53 constatarono un forte incremento della redditività dei titoli azionari nell’ultimo giorno lavorativo di ogni mese e nei tre giorni successivi. In questo caso si parlò di “effetto cambio del mese”.

L’anomalia conosciuta come “effetto piccola impresa” fu invece individuata, in due lavori diversi, da due autori differenti: Banz 54 (1981) e Reinganum55 (1981). I due osservarono che il CAPM attribuisce una stima inferiore al rendimento medio delle imprese a bassa capitalizzazione e, viceversa, attribuisce una stima superiore al rendimento medio delle imprese ad alta capitalizzazione.

Jacobs e Levi (1988) osservando l’andamento dei titoli di borsa tra il 1963 ed il 1982 notarono che il 35% della crescita si concentrava negli otto giorni prefestivi di ogni anno e per questo motivo l’anomalia venne definita “effetto vacanza”.

Simile all’“effetto gennaio” è l’“effetto novembre”: solo dopo la Tax Reform statunitense del 1986, Bhabra, Dillon e Ramirez56 (1999) notarono, a novembre, un aumento dei prezzi simile a quello che si verifica nel mese di gennaio.

51 Shiller R., 1989, “Market Volatility”, MIT Press, Cambridge MA. 52

Rozeff M., Kinney W., 1976, “Capital market seasonality: the case of stock returns”, Journal of Financial Economics, pp. 379-402.

53

Lakonishok J., Smidt S., 1988, “Are Seasonal Anomalies Real? A Ninety-year Perspective”, Review of Financial Studies, Vol. 4, pp. 403-425.

54

Banz R., 1981, “The Relationship between Return and Market Value of Common Stocks”, Journal of Financial Economics, vol.9, pp.3-18.

55

Reinganum J., 1981, “Market Structure and the Diffusion of New Technology”, Bell Journal Economics, The Rand Corporation, vol.2, pp. 618-624.

56

Bhabram H., Dillon V., Ramirez G., 1999, “A November effect? Revisiting the tax-loss-selling hypothesis”, Financial Management, vol.28, pp. 5-15.

Infine, si ricorda il c.d. “effetto Halloween”: Bouman e Jacobsen57

(2002) verificarono che i rendimenti azionari risultano essere mediamente più elevati nel periodo tra novembre e aprile che nel semestre successivo (maggio-ottobre).

Tutte queste anomalie rappresentano chiaramente un forte attacco alla finanza tradizionale al punto da arrivare ad una vera e propria crisi della finanza moderna.

Sommando i validi contributi sia teorici che empirici in contraddizione con l’ipotesi dei mercati efficienti, è evidente che la fiducia negli assunti della finanza tradizionale sia venuta meno e che ci siano i presupposti per lo sviluppo della finanza comportamentale.