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La giurisprudenza sul racial gerrymandering

Capitolo IV – La giurisprudenza della Corte

2. La giurisprudenza sul racial gerrymandering

Venendo adesso alla seconda macrocategoria, il racial gerrymandering ha vissuto un’evoluzione più rapida e snella rispetto

al partisan, ma anche più posticipata nel tempo. Fino agli anni Sessanta-Settanta, infatti, le corti non si erano mai confrontate con l’argomento; una maggiore attenzione verso il problema ha cominciato a manifestarsi con la graduale presa di coscienza di questa forma di discriminazione, e in particolare a seguito dell’emanazione del già citato Voting Rights Act. Nelle prime sentenze che trattarono casi di racial gerrymandering, cioè Fortson v. Dorsey143, Burns v.

Richardson144 e Whitcomb v. Chavis145, la Corte Suprema adottò un

atteggiamento di tolleranza nei confronti delle legislazioni statali che avevano disegnato i piani di redistricting incriminati, che, in tutti e tre i casi, erano plurinominali. Era proprio questo l’elemento denunciato dai ricorrenti: la plurinominalità dei distretti, che a loro dire avrebbe comportato una diluizione del potere di voto degli elettori afroamericani. Bisognerà aspettare il 1973 affinché la Corte faccia il suo primo passo verso il riconoscimento del problema: la questione posta da White v. Regester146 si era originata da un piano di state legislative reapportionment, elaborato in Texas nel 1970, il quale,

secondo i ricorrenti, avrebbe diluito il potere di voto dei neri. La corte distrettuale competente rilevò, in generale, che il piano deviasse sensibilmente dallo standard dell’eguaglianza della popolazione, e in particolare che due distretti plurinominali fossero discriminanti verso la minoranza nera: invalidò quindi l’intero piano di reapportionment e ordinò che i due distretti sopracitati venissero rielaborati come uninominali. Il caso arrivò davanti alla Corte Suprema, che tuttavia

143 379 U.S. 433 (1965).

144 384 U.S. 73 (1966). 145 403 U.S. 124 (1971). 146 412 U.S. 755 (1973).

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confermò la decisione della corte distrettuale, ritenendo che i distretti plurinominali disegnati in modo da sommergere le minoranze etniche costituissero una chiara limitazione del diritto di voto dei membri alle stesse appartenenti. Fu però con la sentenza successiva, Mobile v.

Bolden147, che si arrivò a una delineazione più precisa dei confini del

racial gerrymandering. La città di Mobile, in Alabama, aveva un

governo locale basato su una commissione cittadina di tre membri eletti “at-large”, cioè senza che il corpo elettorale venisse ripartito in distretti. Alcuni residenti della città condussero un’azione legale per conto di tutti i cittadini di colore, i quali sostenevano che la suddetta modalità di elezione diluisse ingiustamente il loro potere di voto, violando il quindicesimo emendamento. Bene: se la corte distrettuale e la corte di appello competenti si pronunciarono in favore di Bolden, la sentenza della Corte Suprema fu invece di diverso avviso. La Corte, pur con una pluraliy opinion, stabilì infatti che un sistema elettorale, pur appurato il suo effetto diluente sul voto, potesse considerarsi in contrasto col quindicesimo emendamento, e quindi incostituzionale, solo se «conceived or operated as a purposeful device to further racial

discrimination»148, e quindi che «action by a State that is racially

neutral on its face violates the Fifteenth Amendment only if motivated

by a discriminatory purpose»149. Ecco dunque che la Corte fissava il

primo criterio di classificazione in base al quale individuare un caso di racial gerrymandering: non l’effetto, ma l’intento discriminatorio. Ciò che i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare, quindi, non era tanto il risultato di un piano o di un sistema elettorale, quanto piuttosto la volontà, l’intento che aveva mosso la legislatura statale competente a elaborarlo. Questa regola, tuttavia, non ebbe lunga vita: nel 1982 il Congresso degli Stati Uniti emendò la sezione 2 del Voting Rights Act, ribaltando il contenuto di Mobile v. Bolden. Il divieto contro il

147 446 U.S. 55 (1980).

148 Ibidem. 149 Ibidem.

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discriminatory intent venne infatti sostituito dal divieto contro il discriminatory effect, rendendo quindi quest’ultimo l’elemento che i

ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare nel proporre azione legale contro leggi elettorali sospette: da quel momento in poi, perciò, sarebbe contato solo l’effetto discriminatorio prodotto da una legge elettorale, indipendentemente dal fatto che fosse stata intenzionalmente promulgata con fini discriminatori o meno. Il collegamento legale tra il redistricting e i diritti delle minoranze, comunque, acquisì ancora più forza a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sulla scia di una serie di innovative sentenze della Corte Suprema. Nel 1986, la Corte si pronunciò su Thornburg v. Gingles150. La General Assembly del North Carolina aveva approvato un piano di

state legislative redistricting che, secondo gli elettori afroamericani,

avrebbe avuto un effetto diluente sul loro potere di voto. La corte distrettuale competente riconobbe che alcuni distretti violavano l’appena emendata sezione 2 del Voting Rights Act e perciò invalidò il piano, circostanza che indusse lo Stato del North Carolina ad appellarsi alla Corte Suprema; questa, tuttavia, confermò la sentenza di primo grado, ribadendo come il Voting Rights Act vietasse la costituzione di distretti legislativi discriminanti le minoranze etniche. Questa sentenza è interessante principalmente per due ragioni: la prima è l’ulteriore specificazione del criterio in base al quale i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare la sussistenza di un racial

gerrymandering lesivo; la seconda è l’interpretazione che le state legislatures ne hanno dato. Partendo dal primo punto, la Corte ha

ripreso il criterio elaborato dall’emendamento alla sezione 2 del

Voting Rights Act, in base al quale il ricorrente avrebbe dovuto provare

soltanto l’effetto discriminatorio di un piano di redistricting, e lo ha approfondito, arrivando a formulare un triplice test: «First, the

minority group must be able to prove that it is sufficiently large and

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geographically compact to constitute a majority in a single member district; second, the minority group must be able to show that it is politically cohesive; third, the minority group must be able to demonstrate that the white majority votes sufficiently as a bloc to enable it – in the absence of special circumstances, usually to defeat

the minority’s preferred candidate»151. Ora, e qui passiamo al secondo

punto, questa decisione venne interpretata dalle state legislatures come un input loro rivolto affinché disegnassero i distretti elettorali in modo da consentire alle minoranze di essere elette (remedial

redistricting); nello specifico, dedussero che il metodo da utilizzare

per questo scopo fosse quello di creare distretti in cui una minoranza etnica costituisse la maggioranza di quel distretto (majority-minority

districts)152. Questo nuovo schema, già criticato da coloro che vi

intravedevano un racial gerrymandering al contrario, e cioè «lesivo del diritto all’eguaglianza degli elettori bianchi»153, cominciò a

produrre i primi effetti negativi non appena le state legislatures iniziarono ad applicarlo. In North Carolina, ad esempio, il tentativo di disegnare un majority-minority district si tradusse nella creazione di un distretto talmente bizzarro (includeva porzioni di due città che distavano più di 200 chilometri l’una dall’altra) da dar vita a un altro importante caso giudiziario: Shaw v. Reno154. La Corte Suprema, pur essendo consapevole che l’intento sotteso al disegno del distretto, così come previsto da Thornburg v. Gingles, era quello di risultare favorevole alla minoranza afroamericana, ordinò che lo stesso venisse ridisegnato: da una parte, sottolineò come la razza non potesse essere l’unico elemento da tenere in considerazione nel processo di

redistricting, soprattutto se si rischiava di disegnare distretti dalle

151 Ibidem.

152 Engstrom E. J., Gerrymandering and the Future of American Politics, in Partisan

Gerrymandering and the Construction of American Democracy, University of

Michigan Press (2013), p. 198.

153 Stradella E., Dai rotten boroughs ad oggi, il lungo viaggio verso la

rappresentanza, cit., p. 981.

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forme così stravaganti; dall’altra, stabilì che il redistricting operato su base razziale dovesse essere ricondotto a uno standard di strict

scrutiny155, così rimuovendo «the privileged status of remedial

redistricting»156. A partire da quel momento, quindi, i piani di

remedial redistricting avrebbero dovuto essere motivati da uno

stringente interesse statale e quanto più strettamente possibile adattati al raggiungimento di quell’interesse. Sulla scia di Shaw v. Reno, poi, si inserì un’altra importante sentenza: Miller v. Johnson157. Dopo il censimento del 1990, che in Georgia aveva rivelato un significativo aumento della popolazione di colore, la General Assembly dello Stato fu spinta a ridisegnare i distretti congressuali statali. In particolare, dal momento che solo uno di quei distretti era a maggioranza nera, l’obiettivo che si prefissò era quello di crearne un altro (l’undicesimo) che contasse anch’esso la stessa maggioranza, cioè un majority-

minority district; tuttavia, anche stavolta, il risultato fu il disegno di un

distretto dai contorni molto bizzarri. La Corte Suprema riprese dunque

Shaw v. Reno e argomentò che sebbene la razza fosse un fattore da

poter considerare nella creazione di nuovi distretti, così come aveva appunto stabilito Thornburg v. Gingles, essa non poteva comunque essere il fattore predominante; com’è stato giustamente osservato, «while States are authorized to enhace minority representation

opportunities, if they use race as the overriding consideration in drawing district lines, it will constitute a violation of the Fourteenth Amendment, regardless of whether the State is complying with the

Voting Rights Act or the Justice Department»158. Di conseguenza, la

155 Strict Scrutiny, Cornell Legal Information Institute: «Strict scrutiny is a form of

judicial review that courts use to determine the constitutionality of certain laws. To pass strict scrutiny, the legislature must have passed the law to further a “compelling governmental interest”, and must have “narrowly tailored” the law to achieve that interest».

156 Rush M. E., From Shaw v. Reno to Miller v. Johnson: Minority Representation

and State Compliance with the Voting Rights Act, Publius, vol. 25, n. 3, p. 158.

157 515 U.S. 900 (1995).

158 Rush M. E., From Shaw v. Reno to Miller v. Johnson: Minority Representation

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Corte stabilì che lo strict scrutiny avrebbe dovuto essere applicato ogniqualvolta risultasse che la razza era stata la «overriding,

predominant force»159 utilizzata nel processo di redistricting. La

regola individuata da questa sentenza, tra l’altro, si è rivelata utile nell’orientare, una ventina di anni dopo, una delle più recenti e importanti pronunce sul racial gerrymandering: Bethune-Hill v.

Virginia Board of Elections160. In seguito al censimento del 2010, la

General Assembly della Virginia aveva elaborato un nuovo piano di state legislative redistricting che mirava alla creazione di 12 majority- minority districts; la particolarità di questi distretti era che in ciascuno

di essi almeno il 55% della popolazione votante avrebbe dovuto essere di colore (c.d. black voting-age population). Alcuni degli elettori bianchi residenti in quei distretti fecero perciò ricorso, sostenendo che il piano di redistricting elaborato dalla legislatura statale costituisse un chiaro esempio di racial gerrymandering e contrastasse la Equal

Protection Clause. La corte distrettuale competente, tuttavia, ritenne

che i ricorrenti non fossero riusciti a dimostrare «that race was the

predominant factor motivating the legislature’s decision»161, dal

momento che «race predominates only where there is an actual

conflict between traditional redistricting criteria and race»162;

conflitto che, secondo il parere della corte, non sarebbe a maggior ragione esistito in quanto «the legislature’s use of race was narrowly

tailored to serve a compelling state interest»163; in sostanza, anche se

fossero riusciti a dimostrare che la razza era stato l’elemento prevalentemente considerato nel piano di redistricting, quest’ultimo si sarebbe comunque salvato dall’incostituzionalità perché rispettava le altre regole vigenti in materia, prime fra tutte quelle imposte dallo

strict scrutiny. Avendo la corte distrettuale respinto il loro ricorso, i 159 515 U.S. 900 (1995). 160 580 U.S. ___ (2017). 161 Ibidem. 162 Ibidem. 163 Ibidem.

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ricorrenti si appellarono dunque alla Corte Suprema, la cui pronuncia, com’è stato opportunamente sottolineato, «più che per la novità in sé dei suoi contenuti, si segnala soprattutto per il fatto di potersi ritenere il punto di approdo ed emersione di dinamiche che affondano le proprie radici indietro nel tempo»164. La questione, infatti, consisteva nel dover individuare l’elemento più rilevante tra i due che la corte inferiore aveva preso in considerazione: l’elemento della razza usata come fattore predominante (Miller v. Johnson) o quello del rispetto degli standard richiesti per le operazioni di redistricting, con particolare riguardo a quelli previsti dallo strict scrutiny (Shaw v.

Reno)? Può un piano di redistricting, pur avendo usato la razza come

fattore predominante, essere considerato costituzionale per il fatto di aver soddisfatto tutti gli altri principi del redistricting? Ebbene: la Corte Suprema, ribaltando la sentenza di primo grado, ha sostenuto che un piano di redistricting, anche nell’ipotesi in cui soddisfi tutti gli altri requisiti richiesti, sarà comunque incostituzionale se ha fatto della razza il suo elemento-guida. Ecco dunque che la Corte ha formulato la nuova regola in materia di dimostrazione del racial gerrymandering: chiunque voglia denunciare un piano che ne sia affetto, dovrà provare che la razza è stato il fattore determinante nella formazione dello stesso. Ma è con l’ultima sentenza in materia, cioè Cooper v. Harris165, che la Corte Suprema ha davvero superato ogni precedente. Dopo il censimento del 2010, la legislatura repubblicana del North Carolina ha preparato un piano di congressional redistricting con l’obiettivo di aggiungere più elettori di colore nei distretti 1 e 12, circostanza che ha indotto i ricorrenti (democratici) a fare ricorso sostenendo che il piano fosse un chiaro esempio di racial gerrymandering. In altre parole, la

state legislature (a maggioranza repubblicana) avrebbe operato sui

due distretti sopracitati per mettere in atto una delle più classiche

164 Trucco L., A volte ritornano: la Corte Suprema USA alle prese col

gerrymandering, DPCE Online, vol. 30, n. 2, p. 421.

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tecniche del gerrymandering: il packing, che prevede la concentrazione degli elettori del partito avverso (le minoranze etniche sono elettrici storiche del Partito Democratico) in una manciata di distretti elettorali, proprio allo scopo di indebolirne il voto. La corte distrettuale competente ha accolto il ricorso e riconosciuto che l’elemento predominante nel ridisegno dei due distretti era stato proprio quello della razza, senza che oltretutto vi fosse stato alcun

compelling interest a sostegno del progetto, dichiarando che il piano

di redistricting violava la Equal Protection Clause e che pertanto costituiva un caso di «unconstitutional racial gerrymandering»166. Lo Stato del North Carolina, quindi, si è rivolto alla Corte Suprema, che tuttavia ha approvato la decisione di primo grado. Attraverso una

majority opinion di 5-3, la Corte ha riaffermato Miller v. Johnson e Bethune-Hill v. Virginia State Board of Elections, sostenendo che

«race was the predominant factor motivating the legislature’s

decision»167, e si è anche spinta là dove non era mai riuscita ad arrivare

con nessuna sentenza precedente: alla dichiarazione di incostituzionalità del racial gerrymandering, segnando la prima volta in assoluto, nella storia della giurisprudenza statunitense, che la pratica del (racial) gerrymandering sia stata dichiarata tale.

166 Ibidem.

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CONCLUSIONI

Dall’analisi svolta risulta evidente come la questione posta dal

gerrymandering, nonostante abbia ormai circa due secoli di vita, non

sia ancora stata del tutto risolta. “Del tutto” perché, in parte, sembra essersi aperto uno spiraglio nella corazza della Corte Suprema, che ha recentemente dichiarato il racial gerrymandering incostituzionale. Il problema, però, è proprio questo: e cioè che, almeno per il momento, è riuscita a fare questo importante passo in avanti solo verso il racial, superando un limite che per il partisan non è ancora riuscita a oltrepassare. Se da un certo punto di vista Cooper v. Harris può dunque considerarsi una grande conquista giurisprudenziale, resta nondimeno l’attesa di una decisione altrettanto rivoluzionaria in materia di partisan gerrymandering. Oltretutto, finché la Corte lascerà aperta la parentesi del partisan, la suddetta pronuncia, per quanto avanguardista, potrebbe non riuscire a contrastare così efficacemente il ricorso al racial; com’è stato acutamente osservato, infatti, «race

can still be a factor in drawing districts as long as the primary motive

is partisanship rather than race»168. In altre parole, il fatto che il racial

gerrymandering sia stato dichiarato incostituzionale non basta a

risolvere il problema alla radice, dal momento che l’elemento della razza potrebbe continuare ad essere impiegato per mettere a punto strategie di partisan gerrymandering. Affinché il fenomeno del

gerrymandering inteso in senso lato, posto che le sue declinazioni in partisan e racial possono essere utilizzate anche in combinazione,

venga efficacemente ostacolato, è perciò presumibilmente opportuno che la Corte arrivi a dichiarare incostituzionale anche il partisan, ponendo così fine a un dibattito centenario. L’attesa di una simile

168 Engstrom E. J., Gerrymandering and the Future of American Politics, in Partisan

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dichiarazione, in effetti, era legata al risultato degli ultimi due importanti casi affrontati in materia, che avrebbero forse potuto costituire il grande punto di svolta nella giurisprudenza sul partisan

gerrymandering, ma hanno invece deluso le aspettative: con Gill v. Whitford, la Corte ha dovuto respingere l’azione legale mossa dai

ricorrenti in quanto supportata da un locus standi non coerente; con

Benisek v. Lamone, si è limitata ad approvare la sentenza emanata

dalla corte distrettuale, avendo anch’essa constatato la mancata dimostrazione, da parte dei ricorrenti, della sussistenza degli elementi idonei a supportare una preliminary injunction. Nessuna novità, dunque, nello scenario del partisan gerrymandering. L’unica speranza che si intravede, almeno per il momento, è quella che i ricorrenti di

Gill v. Whitford riformulino il locus standi che la Corte Suprema ha

loro espressamente richiesto e avviino una nuova azione legale: di fronte a uno standing ben formulato, infatti, la Corte si troverebbe a doversi pronunciare sulla questione di merito del partisan

gerrymandering, senza più potersi concentrare su una questione

puramente rituale com’è stata quella del locus standi. Questa potrebbe dunque essere un’importante occasione per approfondire l’attuale posizione della Corte Suprema sulla questione e far luce sulle ragioni che l’hanno portata a rendere Gill v. Whitford una mera pronuncia di rito: si è trattato dell’ennesimo tentativo di aggirare lo spinoso argomento del partisan gerrymandering o, piuttosto, di un approccio nuovo e originale, che magari può anche lasciar intravedere un tentativo di delineare quel criterio che Davis v. Bandemer aveva detto rintracciabile e che il giudice Thomas, nella sua concurring opinion in

Vieth v. Jubelirer, ha continuato a difendere e ritenere potenzialmente

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