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Capitolo IV – La giurisprudenza della Corte

1. La giurisprudenza sul partisan gerrymandering

1.4 Dal 2000 a oggi

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il fenomeno del

partisan gerrymandering visse, a seguito delle importanti sentenze

degli anni Sessanta, una fase di rapido sviluppo e di sempre più frequente applicazione, che lo portò ad essere associato, in via quasi automatica, alla pratica del redistricting: si arrivò, in sostanza, ad inquadrarla non più come l’operazione favorevole e necessaria da effettuare in seguito ad ogni censimento allo scopo di ottenere mappe elettorali quanto più vicine all’assetto della popolazione, ma come l’occasione migliore, per le legislature dei vari Stati, di disegnare i confini elettorali in modo tale da ottenere un determinato risultato.

Karcher v. Daggett e Davis v. Bandemer, trattando pur sempre di redistricting, si sono spinte infatti verso nuove considerazioni, con la

prima sentenza che ammette l’esistenza di un collegamento tra la pratica del redistricting e il fenomeno del partisan gerrymandering, e la seconda che addirittura dichiara quest’ultimo giudicabile. Queste nuove conquiste giurisprudenziali, tuttavia, non furono sufficienti a sciogliere definitivamente il nodo creato dal partisan gerrymandering, che continuava a persistere in quanto nessun criterio era stato fissato, da Davis v. Bandemer, per giudicare casi del genere. L’eredità lasciata da queste sentenze, dunque, se da un lato si caratterizzava per l’aver individuato e riconosciuto come sindacabile il fenomeno del partisan

gerrymandering, dall’altro lasciava alle sentenze a venire l’onere di

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la Corte Suprema si è atteggiata nelle sentenze successive a quelle sopracitate e come ha gestito i casi di redistricting, e più specificamente di partisan gerrymandering, senza avere alcun criterio standard da poter applicare. La sentenza in questo senso più discussa è stata, senza dubbio, Vieth v. Jubelirer134, riguardante un piano di

congressional redistricting della Pennsylvania. È opportuno

premettere che il censimento del 2000 aveva portato alla necessità di ridurre di due membri il numero dei rappresentanti della Pennsylvania alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, e che questa circostanza aveva a sua volta condotto all’ulteriore necessità di ridisegnare i confini dei distretti congressuali. Il Governo della Pennsylvania, a maggioranza repubblicana, seguì l’ordine del Partito Repubblicano nazionale di ridisegnare tali confini in modo da creare un vantaggio per lo stesso partito; una volta ultimata, la nuova mappa elettorale venne sottoposta alla state legislature che, essendo anch’essa a maggioranza repubblicana, la approvò, rendendola operativa. Fu allora che diversi sostenitori del Partito Democratico, tra cui Richard Vieth, fecero causa al Presidente del Senato della Pennsylvania (Robert C. Jubelirer) e ad altri funzionari, sostenendo che il piano di redistricting fosse affetto da political gerrymandering; in particolare, sostenevano che fosse incostituzionale perché in contrasto con la Equal Protection Clause. La questione che venne sottoposta all’attenzione della Corte consisteva dunque nel capire se il modo in cui il Governo e la state legislature della Pennsylvania avevano disegnato la nuova mappa elettorale suggerisse o meno che si fosse di fronte a un caso di gerrymandering. Ebbene: con una decisione sofferta e priva di un’opinione di maggioranza, la Corte Suprema dichiarò che i casi di partisan gerrymandering non fossero giudicabili in quanto non esisteva alcun criterio standard su cui basare

134 541 U.S. 267 (2004).

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un simile giudizio. Il giudice Scalia, con una plurality opinion135 di quattro membri, sostenne che il partisan gerrymandering non fosse, contrariamente a quanto era stato affermato in Davis v. Bandemer, giudicabile dalle corti; al contrario, secondo il suo parere, le questioni legate a questo fenomeno avrebbero dovuto essere considerate non giudicabili dalle stesse, che si sarebbero addirittura dovute rifiutare di ascoltarle. Nello specifico affermò che, se nessuna corte era riuscita, in 18 anni (il tempo che era intercorso tra Davis v. Bandemer e Vieth

v. Jubelirer), a trovare un criterio standard per i casi di partisan gerrymandering, probabilmente era tempo di riconoscere che tale

criterio semplicemente non esisteva. È interessante sottolineare che il giudice Kennedy elaborò una concurring opinion, puntualizzando innanzitutto come un lasso di tempo di 18 anni non fosse così lungo da poter indurre a credere che non esista nessuna soluzione, e argomentò inoltre come il fatto che la Corte non fosse ancora riuscita a trovare un’appropriata soluzione giudiziaria per i casi di partisan

gerrymandering non doveva necessariamente significare che non

l’avrebbe trovata mai. In altre parole, Kennedy era d’accordo sulla linea di non intervento scelta dalla Corte per quello specifico caso, ma sosteneva una politica di intervento nel caso in cui, in futuro, si fosse riusciti a definire uno standard che a suo parere poteva essere trovato. Da menzionare, infine, è la posizione del giudice O’Connor, che, esattamente come aveva fatto in Davis v. Bandemer, non soltanto reputò nuovamente che il partisan gerrymandering fosse argomento non giudicabile dalle corti, trovandosi quindi perfettamente in linea

135 Plurality Opinion, Legal Beagle: «A plurality opinion announces the decision of

the court but fails to get a majority of the justices to support the legal reasoning. When no single opinion gets majority support, the decision that gets the most votes and supports the majority outcome becomes the plurality opinion. Since the legal reasoning is not adopted by a majority of the justices, it is less reliable as legal precedent». In altre parole, è l’opinione della maggioranza relativa di un gruppo di

giudici; quella che, pur non avendo ricevuto il supporto della metà più uno dei giudici (maggioranza assoluta), ha ricevuto più supporto di ogni altra opinione, risultando quindi essere quella dominante.

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con la plurality opinion, ma ritenne anche che potesse considerarsi una pratica esperibile. In conclusione è interessante notare come, nonostante dagli anni Sessanta in poi la Corte Suprema avesse fatto molti passi in avanti, con la pronuncia di Vieth v. Jubelirer fu un po’ come se fosse tornata improvvisamente indietro: se prima di Baker v.

Carr i casi di redistricting venivano considerati non giudicabili dalle

corti in quanto political questions, nel 2004 la Corte Suprema era tornata a classificare i casi di redistricting, stavolta affetti dal fenomeno del gerrymandering, non giudicabili perché, semplicemente, non-justiciable questions. Momenti diversi (1962 e 2004) e motivazioni diverse (political e non-justiciable questions), ma, fondamentalmente, stesso contenuto: le corti avrebbero dovuto rifiutarsi di trattare casi del genere. Tuttavia, la Corte Suprema non ribaltò esplicitamente quanto aveva sancito con Davis v. Bandemer, dal momento che ben cinque giudici, cioè i quattro che avevano formulato le dissenting opinions e Kennedy che aveva formulato una

concurring opinion, si erano espressi contrari al dichiarare il partisan gerrymandering una non-justiciable question. Procedendo poi con le

sentenze meritevoli di particolare attenzione, ci imbattiamo in tre casi emersi a seguito del censimento del 2010. Il primo di questi, che non ha avuto ad oggetto la presunta sussistenza di un partisan

gerrymandering, ma piuttosto il delineamento del criterio in base a cui

il redistricting dovrebbe essere effettuato, è Evenwel v. Abbott136, su cui la Corte Suprema si è pronunciata il 4 aprile 2016. La questione centrale di questo caso ha riguardato la mappa elettorale che la legislatura del Texas aveva disegnato, a seguito del censimento citato, per le elezioni senatoriali statali. Sue Evenwel e Edward Pfenninger, due cittadini texani registrati rispettivamente nei distretti senatoriali 1 e 4, avevano fatto causa al governatore del Texas e al segretario di Stato, accusandoli di aver disegnato una mappa elettorale basata sul

136 578 U.S. ___ (2016).

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conteggio della popolazione totale dello Stato, piuttosto che di quella effettivamente votante137; in particolare, lamentavano che ai loro distretti fosse stato assegnato lo stesso numero di rappresentanti che era stato assegnato ad altri distretti, contenenti sì lo stesso numero di persone, ma solo la metà del numero di persone in grado di votare (pari popolazione totale, diversa percentuale di popolazione votante). Da un lato, questo assetto sembrava diluire significativamente il peso elettorale dei distretti che, a parità di popolazione totale rispetto agli altri, contavano un più elevato numero di soggetti votanti; dall’altro, sembrava condurre ad una sovrarappresentazione elettorale di quegli altri distretti che, pur avendo all’incirca la stessa popolazione totale rispetto ai primi, contenevano un gran numero di soggetti non votanti. I due ricorrenti, quindi, si erano appellati alla Corte Suprema, sostenendo che tale disegno elettorale violasse il principio “one

person, one vote” della Equal Protection Clause e chiedendo che la

legislatura texana procedesse al disegno di una nuova mappa elettorale, stavolta basata non sulla popolazione totale, ma sulla popolazione registrata nelle liste elettorali e, quindi, effettivamente votante. L’interrogativo sollevato da questo caso riguardava dunque la

137 Negli Stati Uniti si registra un forte divario tra il numero della popolazione totale

e quello della popolazione effettivamente votante. Il diritto di voto, infatti, è subordinato al possesso di requisiti e al superamento di ostacoli burocratici che riducono consistentemente l’affluenza alle urne di gran parte della popolazione, soprattutto tra le fasce più povere. Un altro forte condizionamento è dato dalla circostanza che, in ben venti Stati dell’Unione, si può votare solo se in possesso della c.d. ID card – non un semplice documento d’identità, che negli Stati Uniti di fatto non esiste e può in qualche modo considerarsi sostituito dalla patente di guida, ma un documento obbligatorio per potersi registrare come elettori e, conseguentemente, esprimere il proprio voto – tutt’altro facile da ottenere, sia per i costi da sostenere che per le complesse modalità con cui viene erogata. Nello specifico, gli ostacoli posti all’esperimento del diritto di voto vengono giustificati dai repubblicani in quanto permetterebbero di prevenire i furti d’identità; tuttavia, data l’irrisoria frequenza con cui questi episodi si sono manifestati (nel periodo 2000-2014, solo 31 casi su oltre un miliardo di voti), l’impressione che se ne trae è che il preciso scopo di questo sistema sia proprio quello di essere discriminatorio nei confronti delle fasce più deboli e indifese della popolazione (tradizionalmente democratiche), diminuendone l’afflusso alle elezioni. Si rimanda a: Perché il diritto di voto è minacciato negli Usa, Estremo Occidente – Blog – Repubblica.it; Elezioni Usa 2016: diritto di voto, discriminazioni a stelle e strisce, Smartweek; Come mai l’affluenza è bassa negli Stati Uniti?, Il Post.

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presunta esistenza di un principio che, pur non essendo espressamente sancito né dalla Costituzione né da alcuno dei suoi emendamenti, sarebbe stato implicitamente desumibile dalla Equal Protection

Clause, e l’ammissione della sua esistenza da parte della Corte

Suprema avrebbe implicato, per le legislature statali intente a disegnare nuove mappe elettorali, l’obbligo di osservare uno standard più specifico e circoscritto rispetto a quello della popolazione totale di uno Stato. Qual era il dato demografico che una legislatura statale doveva prendere in considerazione per il disegno di nuovi distretti elettorali? Quale regola si poteva ricavare da una lettura interpretativa della Equal Protection Clause? Si poteva forse dedurre che i piani di

districting dovessero basarsi sul numero della popolazione votante,

piuttosto che di quella totale? Simili interrogativi non erano mai stati esplicitamente affrontati dalla Corte Suprema, che aveva sempre mantenuto l’attenzione più sulle possibili conseguenze negative del

redistricting, che sulle modalità mediante le quali avrebbe dovuto

svolgersi. Ebbene: la risposta della Corte è stata molto chiara nel determinare che il principio “one person, one vote” consente a uno Stato di disegnare i distretti elettorali sulla base della popolazione totale, senza che dallo stesso si possano ricavare regole ulteriori e più specifiche. In una majority opinion condotta dalla giudice Ginsburg, la Corte ha infatti sostenuto la sua posizione argomentando che, dall’analisi combinata della storia costituzionale statunitense, della pratica utilizzata dalle legislature statali fino a quel momento storico e degli stessi precedenti giudiziari, può dedursi che il disegno dei distretti elettorali basato sulla popolazione totale non è affatto in contrasto con la Equal Protection Clause; in particolare, Ginsburg ha voluto sottolineare come la tendenza della Corte nell’approcciarsi ai casi di redistricting sia sempre stata quella di considerare l’elemento demografico nella sua totalità, e che dunque non vi sia motivo di ritenere che ci si dovrebbe basare su un criterio diverso. Nella sua

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concurring opinion, invece, il giudice Thomas ha sostenuto che, come

la giurisprudenza della Corte sulla Equal Protection Clause non ha mai elaborato un criterio standard su come gli Stati dovrebbero mettere in atto il principio “one person, one vote”, così la Costituzione non prescrive a riguardo alcuna specifica regola; si può quindi dedurre, secondo Thomas, che uno degli obiettivi della Costituzione sia casomai quello di prevenire disuguaglianze ingiustificate mediante strumenti democratici che controbilancino pratiche, come può essere appunto quella del redistricting, volte a creare vantaggi per alcuni e svantaggi per altri. Ancora, il fatto che la Costituzione lasci agli Stati la libertà di condurre autonomamente le operazioni di districting sarebbe una chiara dimostrazione del fatto che la Corte non dovrebbe imporre un singolo metodo da far applicare a tutti gli Stati. Dunque, pur concordando con la maggioranza della Corte circa la possibilità, per uno Stato, di utilizzare il criterio della popolazione totale, Thomas ha aggiunto che, a suo parere, questo non possa essere considerato l’unico criterio permissibile. La decisione maggioritaria della Corte, tuttavia, ha spinto verso un’altra direzione, stabilendo che l’elemento della popolazione totale di uno Stato è proprio l’unico che le legislature statali devono considerare nel processo di reapportionment prima, e di redistricting poi. Possiamo dunque affermare che, grazie a

Evenwel v. Abbott, il profilo della Equal Protection Clause si è

arricchito di un ulteriore carattere, che contribuisce a definire in maniera ancora più dettagliata il contenuto della clausola. Ciò nonostante, se da questo punto di vista si era raggiunto un soddisfacente livello di definizione, la questione del partisan

gerrymandering restava invece molto incerta, avendo Vieth v. Jubelirer prodotto una sorta di frattura con la giurisprudenza che

l’aveva preceduta. Gli ultimi due casi a riguardo, così recenti che la Corte vi si è pronunciata solo pochi mesi fa, sono Gill v. Whitford138 e

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Benisek v. Lamone139, rispettivamente provenienti dal Wisconsin e dal

Maryland: il primo riguardava la presunta incostituzionalità di un piano di redistricting che avrebbe avvantaggiato, in qualsiasi scenario politico possibile, il Partito Repubblicano, così comprimendo il diritto di voto degli elettori democratici; il secondo, al contrario, si basava sulla denuncia di un piano di redistricting che avrebbe creato un evidente vantaggio per i Democratici, risultando quindi avverso agli elettori repubblicani. I due casi possono in qualche modo considerarsi speculari – vantaggio per i Repubblicani da una parte, per i Democratici dall’altra – e hanno in comune la particolarità di aver posto, per mesi, lo stesso interrogativo di fondo: riuscirà la Corte a pronunciarsi, stavolta in maniera definitiva, su una questione che è lasciata in sospeso da circa due secoli? Per scoprirlo abbiamo dovuto aspettare il 18 giugno 2018, giorno in cui la Corte Suprema ha deliberato su entrambi i casi. Cominciando da Gill v. Whitford, la questione è sorta nel 2010, quando gli elettori del Wisconsin hanno eletto una maggioranza repubblicana sia alla State Assembly che al

Senate. Questa circostanza avrebbe indotto la leadership repubblicana

a sviluppare una mappa distrettuale volta a far mantenere al Partito Repubblicano la maggioranza parlamentare di fronte a qualsiasi scenario elettorale possibile: l’accusa mossa dai ricorrenti, infatti, era che un simile piano elettorale avesse lo specifico obiettivo di diluire il potere di voto degli elettori democratici in tutto lo Stato. Ebbene: la Corte Suprema si è espressa sul caso con una decisione che, nonostante la formulazione di diverse concurring opinions, ha visto aderire tutti e nove i giudici (eventualità piuttosto rara): nello specifico, la majority

opinion ha deliberato, per la prima volta in un caso simile, che i

ricorrenti non sono riusciti a stabilire efficacemente il c.d. locus

standi140 a causa della discrepanza tra la injury dagli stessi denunciata

139 ___ (2018).

140 Standing, Lectlaw Legal Dictionary: «The legal right to initiate a lawsuit. To do

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(la presenza del partisan gerrymandering nei singoli distretti elettorali) e la remedy proposta (la modifica dell’intera mappa elettorale statale). Ad ogni modo, invece di respingere il caso come la legge imporrebbe di fare in caso di difetto del locus standi, i giudici hanno voluto dare ai ricorrenti una seconda possibilità, rinviandolo nuovamente alla corte distrettuale che per prima se n’era occupata, in modo da permettere loro di riformulare correttamente l’azione legale. A un primo sguardo potrebbe sembrare che la Corte abbia sapientemente aggirato, ancora una volta, la questione del partisan

gerrymandering, concentrandosi esclusivamente sull’aspetto tecnico

dell’accettabilità o meno, da parte della stessa, dell’azione legale intrapresa dagli attori, e dichiarando appunto la non sussistenza degli estremi necessari per poter procedere. L’opinione dottrinale su questa sentenza, tuttavia, rimane divisa: da un lato, c’è chi vede in questa pronuncia l’ennesimo tentativo, da parte della Corte Suprema, di evitare di decidersi su una questione che sembra proprio non voler risolvere; dall’altro, c’è chi invece intravede un nuovo atteggiamento della Corte, che avrebbe fatto a meno di pronunciarsi sull’argomento del partisan gerrymandering soltanto per permettere ai ricorrenti di basare la loro azione legale sul locus standi (nello specifico: se un cittadino denuncia un caso di partisan gerrymandering nel suo distretto, deve chiedere alla Corte di intervenire relativamente a quel distretto, e non alla mappa elettorale dell’intero Stato) che forse potrebbe addirittura prospettarsi come il tanto atteso e ricercato

case or controversy that can be resolved by legal action. There are three requirements for Article III standing: (1) injury in fact, which means an invasion of a legally protected interest that is (a) concrete and particularized, and (b) actual or imminent, not conjectural or hypothetical; (2) a causal relationship between the injury and the challenged conduct, which means that the injury fairly can be traced to the challenged action of the defendant, and has not resulted from the independent action of some third party not before the court; and (3) a likelihood that the injury will be redressed by a favorable decision, which means that the prospect of obtaining relief from the injury as a result of a favorable ruling is not too speculative. […]. The party invoking federal jurisdiction bears the burden of establishing each of these elements».

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criterio standard sulla base del quale presentare, affrontare e giudicare i casi di partisan gerrymandering. Procedendo poi con Benisek v.

Lamone, in questo caso la questione riguardava un piano di redistricting del Maryland che avrebbe provocato una diluizione del

potere di voto degli elettori repubblicani in un distretto congressuale, il sesto, sempre stato a maggioranza repubblicana. Alcuni di questi elettori, quindi, si sono rivolti alla corte distrettuale competente chiedendo che, ancor prima che venisse ordinato allo Stato di disegnare una nuova mappa, gli venisse impedito di utilizzare il piano di redistricting vigente mediante una preliminary injunction141. Perché una domanda di preliminary injunction venga accolta, però, è necessario che la parte richiedente dimostri la sussistenza di una serie di requisiti: la concreta probabilità di vincere la causa nel merito; il fatto che sarà esposta a un danno immediato e irreparabile se l’ingiunzione non verrà emanata; che «the balance of equities»142

pende in favore della parte richiedente e, infine, che l’ingiunzione preliminare verrebbe emanata per soddisfare un interesse non privato, ma pubblico. Non essendo i ricorrenti riusciti a soddisfare questi punti, la corte distrettuale ha respinto la richiesta da loro avanzata, che si sono così appellati alla Corte Suprema; quest’ultima, tuttavia, ha appoggiato la sentenza della corte distrettuale con una decisione unanime.

141 Preliminary Injunction, Cornell Legal Information Institute: «A temporary

injunction that may be granted before or during trial, with the goal of preserving the status quo before final judgment. To get a preliminary injunction, a party must show that they will suffer irreparable harm unless the injunction is issued. Preliminary

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