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Capitolo IV – La giurisprudenza della Corte

1. La giurisprudenza sul partisan gerrymandering

1.3 Il periodo post-anni Sessanta

Come abbiamo visto, il periodo degli anni Sessanta non si è caratterizzato solamente per le numerose sentenze pronunciate dalla Corte in materia di redistricting, ma anche per il fatto che questa pratica visse un fortissimo incremento. Ciò perché, com’è stato opportunamente sottolineato nel paragrafo precedente, si voleva ovviare al lungo periodo, precedente gli anni Sessanta, durante il quale gli Stati non avevano ridisegnato quasi mai i loro confini. Procedendo verso gli anni successivi al decennio appena esaminato, gli elementi che più saltano all’occhio sono l’intensa frequenza – verrebbe quasi da definirla frenesia – con cui le operazioni di redistricting continuavano ormai ad essere condotte e la dimestichezza con cui venivano poste in atto, che condusse ad un impiego del redistricting non soltanto più sapiente, ma anche più mirato. In particolare, la familiarità acquisita dalle legislature statali nel ridisegnare i confini elettorali portò le stesse ad intuire dapprima, e a scoprire poi, modalità sempre più sofisticate di utilizzo della pratica; modalità che, se applicate con astuzia e lungimiranza, potevano rivelarsi preziose alleate nel prevedere, e perfino orientare, i risultati elettorali verso un partito piuttosto che verso un altro. Com’è facile immaginare, la pratica del redistricting passò ben presto dall’essere considerata attività necessaria ad aggiornare la relazione tra il dato demografico e

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le relative circoscrizioni elettorali, all’essere sfruttata come strumento tattico per pilotare le elezioni. Nell’arco di qualche anno, di conseguenza, si assistette a uno slittamento di prospettiva sul fenomeno: dall’effettuare quante più operazioni possibili di

redistricting, si passò all’urgenza di controllare e contenere tale

attività per via dei suoi risvolti potenzialmente “pericolosi”; questi risvolti, nello specifico, si manifestavano ogniqualvolta una semplice operazione di redistricting celava l’ulteriore obiettivo di produrre un vantaggio politico, o per meglio dire partitico, dando vita al fenomeno del gerrymandering. Da questo punto di vista, la sentenza più significativa è stata Karcher v. Daggett128, riguardante un’operazione di congressional districting effettuata nello Stato del New Jersey e sospettata di essere affetta da partisan gerrymandering. Questo fu il primo importante caso che coinvolse, mettendola seriamente in dubbio, la legalità del redistricting e che aprì la pista alla considerazione, all’epoca poco scontata, ma poi trasformatasi in un’associazione mentale quasi automatica, che tale pratica favorisse il fenomeno del gerrymandering. La questione si presentò perché un piano di congressional redistricting disegnato dai Democratici che controllavano la legislatura del New Jersey e approvato dallo stesso governatore, sempre Democratico, aveva dato vita a distretti elettorali che, nonostante differissero, da un punto di vista demografico, di meno dell’un per cento l’uno dall’altro, erano stati palesemente elaborati in modo tale da favorire il Partito Democratico. Il piano di

reapportionment sopracitato prevedeva, nello specifico, la formazione

di 14 distretti aventi una popolazione media di 526.000 persone ciascuno; il distretto più grande, cioè il quarto, avrebbe avuto una popolazione di 527.472 persone, mentre il più piccolo, il sesto, di 523.798: il divario demografico tra i due era solo dello 0,1384%. Nonostante questa irrisoria differenza matematica, restava il fatto che

128 462 U.S. 725 (1983).

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l’intento di chi aveva creato i confini elettorali era quello di produrre un vantaggio per il Partito Democratico. Per questo motivo, il piano venne citato in giudizio dai ricorrenti: secondo il loro parere, avrebbe violato il principio della eguale rappresentanza. La Corte fu dunque chiamata a valutare, innanzitutto, se l’intento della legislatura statale fosse effettivamente stato quello di creare un vantaggio per il Partito Democratico; in secondo luogo, a stabilire se, pur sussistendo eventualmente un simile intento, una così minima differenza di popolazione tra il distretto più e quello meno popoloso potesse considerarsi rilevante e, conseguentemente, punibile. Ebbene, una volta acclarato che tali distretti «were not the result of a good faith

effort to achieve population equality»129, e che quindi la state

legislature del New Jersey aveva disegnato i nuovi confini elettorali

con l’obiettivo di dare una precisa direzione alle elezioni politiche, la Corte ritenne di dover dichiarare il piano di redistricting incostituzionale nonostante la differenza demografica tra i due distretti fosse minima. In sostanza, la Corte percepì che l’oggetto principale della sua valutazione non dovesse essere tanto l’elemento numerico – se si fosse basata solo su questo, probabilmente non sarebbe arrivata a dichiarare il piano incostituzionale – quanto piuttosto la natura dell’intento che aveva sostenuto la legislatura statale nel disegno dei nuovi confini elettorali. In particolare, avvalorò la propria posizione argomentando, in via generale, che lo standard della eguale rappresentanza richiedeva che i distretti congressuali fossero distribuiti in modo da perseguire l’uguaglianza della popolazione (obiettivo che non era certo stato perseguito dalla state legislature) e affermando, più nel dettaglio, che anche una variazione demografica così minima tra distretti avrebbe potuto essere evitata, se ci fosse appunto stata la buona intenzione di perseguire realmente quel fine. In conclusione, dunque, la Corte Suprema dichiarò che il piano violava il

129 Ibidem.

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principio della eguale rappresentanza, in quanto lo scarto tra la popolazione del quarto e quella del sesto distretto, per quanto matematicamente poco rilevante, era palesemente il risultato di un’operazione svolta in malafede. Questa sentenza, non a caso, è frequentemente utilizzata nella giurisprudenza statunitense come esempio del fatto che non esiste una deviazione matematica minima, tra il numero degli abitanti di un distretto e il numero degli abitanti di un altro, che permetta di stabilire quando sussiste una diseguaglianza tra gli stessi: la regola individuata da Karcher v. Daggett, infatti, ha stabilito che qualunque deviazione numerica, anche la più irrisoria, debba essere giustificata da un legittimo interesse governativo e, soprattutto, creata in buona fede. Per quanto questa sentenza sia stata importante, però, è bene notare che essa non arrivò a pronunciarsi sul fenomeno del gerrymandering, lasciando aperta sia la questione circa la sua presunta incostituzionalità, sia quella riguardante, semplicemente, il suo essere passibile di giudizio da parte di una corte. È qui che si inserisce un’altra pietra miliare della giurisprudenza sul

gerrymandering: Davis v. Bandemer130, sentenza riguardante un piano

di apportionment, disegnato per le elezioni della General Assembly dell’Indiana, sospettato di essere affetto da gerrymandering. La premessa da tenere presente è che la legislatura dell’Indiana è composta da una Camera dei rappresentanti di 100 membri e da un Senato di 50 membri: i rappresentanti vengono eletti da distretti uninominali e plurinominali; i senatori da distretti esclusivamente uninominali. Nel 1981, la legislatura statale, a maggioranza repubblicana sia alla Camera che al Senato, redistribuì i distretti sulla base del censimento del 1980: il piano di reapportionment prevedeva la creazione di 61 distretti uninominali, 9 distretti binominali e 7 distretti trinominali per la Camera (i distretti plurinominali includevano generalmente le aree metropolitane) e di 50 distretti

130 478 U.S. 109 (1986).

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uninominali per il Senato. L’anno dopo, un gruppo di sostenitori del Partito Democratico citò in causa questo piano, sostenendo che fosse stato elaborato col preciso scopo di diluire i voti dei Democratici in distretti strategici e che pertanto costituisse un caso di partisan

gerrymandering; in particolare, sarebbe stato proprio il miscuglio di

distretti uni e plurinominali ad essere appositamente studiato per svantaggiare i Democratici: alle elezioni, in effetti, ottennero alla Camera il 51,9% dei voti in tutto lo Stato, ma solo 43 dei 100 seggi totali, mentre al Senato il 53,1%, ma solo 13 dei 25 candidati democratici vennero eletti. La questione che si poneva, dunque, era se il piano di reapportionment disegnato dalla legislatura statale violasse o meno la Equal Protection Clause del quattordicesimo emendamento. Ebbene: la Corte Suprema sostenne che, nonostante tale piano potesse aver provocato un certo effetto discriminatorio nei confronti dei Democratici, si trattava pur sempre di un effetto non «sufficiently

adverse»131 da violare la Equal Protection Clause. Sebbene avesse

respinto l’accusa mossa dai Democratici e giudicato il piano costituzionale, la Corte colse comunque l’occasione fornitale da questo caso per stabilire la regola, mai accennata prima di quel momento, consistente nella vera novità apportata da Davis v.

Bandemer e giustificante la sua notorietà: la passibilità di giudizio dei

casi di partisan gerrymandering. Questa fu la conclusione a cui pervenne la maggioranza della Corte, ma è bene sottolineare che non tutti i giudici furono d’accordo: nella concurring opinion132, O’Connor, concordando sulla posizione presa dalla Corte circa il caso concreto che le era stato presentato, ma non trovandosi d’accordo con

131 Ibidem.

132 Concurring Opinion, Legal Beagle: «A concurring opinion agrees with the

outcome of the majority opinion but not necessarily the reasoning found in the majority opinion. The concurring opinion gives a concurring justice an opportunity to further explain the legal reasoning of a case or to offer a completely different legal reasoning for the decision». In altre parole, è l’opinione di uno o più giudici

che, pur concordando con la decisione presa dalla maggioranza assoluta (majority) o relativa (plurality) della corte, la sostengono con motivazioni aggiuntive o diverse.

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la maggioranza circa la possibilità di considerare giudicabile il

partisan gerrymandering da parte delle corti, argomentò che «the Equal Protection Clause does not supply judicially manageable standards for resolving purely political gerrymandering claims, and does not confer group rights to an equal share of political power. Racial gerrymandering claims are justiciable because of the greater warrant the Equal Protection Clause gives the federal courts to intervene for protection against racial discrimination, and because of the stronger nexus between individual rights and group interests that is present in the case of a discrete and insular racial group. But members of the major political parties cannot claim that they are vulnerable to exclusion from the political process, and it has not been established that there is a need or a constitutional basis for judicial

intervention to resolve political gerrymandering claims»133. Il

pensiero di O’Connor, come vedremo, tornerà a manifestarsi dopo qualche anno, lasciando però già intravedere la difficoltà oggettiva che le corti avrebbero continuato ad incontrare di fronte ai casi di partisan

gerrymandering e, soprattutto, la polemica che sarebbe scaturita

dall’inevitabile confronto col racial gerrymandering, che, come acutamente osservato da O’Connor, era e rimane tutt’oggi molto più semplice da gestire rispetto al partisan. In ogni caso, la majority

opinion fu chiara: pur non essendo riusciti a trovare un criterio

standard sulla base del quale giudicare i casi di partisan

gerrymandering, questi erano comunque processabili da parte delle

corti, che avrebbero applicato il criterio più adatto a seconda del caso. Ecco perché questa sentenza è così importante: perché è stata la prima, nella storia della giurisprudenza della Corte Suprema, a riconoscere che i casi di partisan gerrymandering sono processabili. Tuttavia, e questo è un punto che resta irrisolto ancora oggi, i giudici della Corte non riuscirono a trovarsi d’accordo su quale dovesse essere il criterio

133 478 U.S. 109 (1986).

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da applicare in casi del genere: pur dichiarando che le corti federali avevano il potere di pronunciarsi sui casi di partisan gerrymandering, lasciò alle stesse la libertà, e quindi anche l’onere, di scegliere quello che di volta in volta ritenessero più appropriato.

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