II. Approssimazione quantitativa
2.1 La percezione numerica e l’abilità di quantificazione
Quando parliamo di percezione quantitativa, facciamo riferimento ad un particolare bagaglio cognitivo di cui l’essere umano dispone ed attraverso il quale gli sono garantite abilità di percezione, discriminazione e calcolo della realtà che lo circonda. Un esempio reale può aiutare ad introdurre questo argomento in modo diretto e semplice. In fila dal panettiere, una bambina di circa 4 anni si rivolge a sua madre ed esclama a gran voce: “Mamma, siamo quattro persone! Lo so perché ho pensato, non ho contato.” L’operazione mentale cui la bambina fa riferimento, spiegando a sua madre di non aver avuto bisogno di un’operazione di calcolo per giungere alla conclusione che in fila ci sono quattro persone, è ciò che comunemente viene definita capacità di subitizzazione (subitizing), ovvero la capacità di stimare ad occhio e senza necessità di operazioni aritmetiche una quantità esigua di oggetti o persone, non superiore alle cinque unità. Questo tipo di operazione è precoce nell’essere umano, che è in grado di metterla in pratica in modo istintivo anche in età prescolare, prima cioè di aver preso dimestichezza con cifre grafiche ed operazioni aritmetiche più avanzate. Essa è indice di una naturale propensione all’organizzazione numerica della realtà che ci circonda. Molti studi si sono impegnati nell’individuazione delle aree cerebrali specifiche dedicate a queste operazioni, riconoscendo nella zona parietale inferiore il locus della percezione numerica, ovvero il motivo per cui ci è impossibile non quantificare la realtà che viviamo e vediamo ogni giorno. Una delle prime concrete definizioni di questa capacità è quella di Dehaene (1997), che con il termine number sense fa riferimento alla capacità dell’essere umano di capire, approssimare e manipolare le quantità numeriche e le interrelazioni che le governano. Riuscire ad individuare delle zone fisiche di attivazione cerebrale è solo una delle ragioni per cui la percezione numerica, il number sense dehaeniano, è oggi riconosciuta come un bagaglio biologico specifico. L’essere umano possiede, infatti, questa capacità anche in fase preverbale, fase in cui è già in grado di discriminare set di elementi di quantità diverse a livello intermodale, associando ad esempio al numero di sillabe pronunciate da un adulto un concetto numerico, o riconoscendo una quantità particolare nel numero di salti compiuti da un burattino (Dehaene et al. 1998). Esperimenti di laboratorio hanno inoltre rivelato l’esistenza di questo specifico bagaglio biologico anche negli animali (Boysen/Capaldi 1993). In particolare, ratti, colombi e scimpanzé posseggono abilità numeriche simili a quelle condivise dai bambini in fase
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preverbale e antecedenti l’acquisizione di abilità di calcolo esatto. Una delle più importanti analogie riscontrate nella percezione numerica di umani ed animali è la presenza, in tutte le specie coinvolte, di due tratti peculiari della percezione quantitativa: gli effetti di distanza e di grandezza numerica (numerical distance effect, number size effect) (Dehaene 1997, Dehaene et al. 1998, Siegler/Opfer 2003). In primo luogo, l’abilità di discriminare due grandezze numeriche migliora con l’aumento della distanza tra le stesse: è più facile, tanto per l’uomo quanto per l’animale, distinguere due quantità di valori molto distanti fra loro, come 2 e 9, rispetto a quantità molto vicine, come 3 e 4. L’effetto di grandezza numerica si riferisce, invece, al fatto che a parità di distanza numerica (come nel caso delle coppie numeriche 1 e 2, 3 e 4, 9 e 10, 19 e 20, ecc.), l’abilità di discriminazione peggiora con l’aumento della grandezza dei numeri. Ciò si traduce in una maggiore propensione all’approssimazione numerica, man mano che ci si sposta verso grandezze maggiori. Questa è la ragione per cui
[…] in various number processing tasks, humans quickly access a representation of numerical quantities similar to that of animals, which is organized by numerical proximity and gets increasingly fuzzier for increasingly larger numbers (Dehaene et al. 1998: 358).
Questa importante dotazione biologica, che possediamo fin dai primi mesi di vita, ci permette di quantificare il mondo che ci circonda e di approssimare valori numerici in modo innato. I bambini hanno capacità di addizione e sottrazione già prima di aver acquisito gli strumenti per tradurre i risultati di queste operazioni in parole numeriche (Canobi/Bethune 2008, Sarnecka/Carey 2008). Questo bagaglio è, però, ben diverso dalle strutture che acquisiamo successivamente, in fase scolare e sempre più crescendo, con cui svolgiamo operazioni di calcolo complesse, che seguono criteri aritmetici veri e propri, come la divisione e la moltiplicazione. Calcolo esatto e approssimazione sono, infatti, abilità molto diverse, che è possibile individuare in aree cerebrali dissociate, a seconda di quale venga attivata (Stanescu-Cosson et al. 2000). I modelli di rappresentazione numerica lineari possono essere adoperati solo in seguito all’acquisizione del principio di cardinalità: a quel punto siamo in grado di associare ad una cifra una grandezza fisica, che aumenta in modo lineare con variabilità scalare. Possediamo diversi modelli di rappresentazione numerica, uno intuitivo-approssimativo e uno lineare-scalare, che vengono di volta in volta attivati a seconda del compito e del contesto: per stimare, ad esempio, la quantità di oggetti presenti in un preciso luogo visibile, come nel caso della bambina precedentemente citato, si fa appello alla propria abilità di approssimazione,
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mentre risolvere problemi aritmetici, in cui ciascun elemento numerico ha rilevanza, è un’operazione che richiede capacità di rappresentazione simbolica e un sistema verbale di associazione precisa tra numero e quantità (Siegler/Opfer 2003).
La dissociazione tra “a verbal system of number words and a non-symbolic representation of approximate quantities” (Lemer et al. 2003) è stata confermata da numerosi esperimenti che hanno individuato, attraverso l’uso di esami fisici come la risonanza magnetica funzionale (RMF), l’attivazione di diverse aree cerebrali a seconda che il compito richiedesse capacità di approssimazione o di calcolo. Questo approccio si è dimostrato molto utile soprattutto negli studi condotti su pazienti affetti da acalculia e discalculia, nei quali si è dimostrato come, a seconda della lesione cerebrale, alcune abilità vengono inibite mentre altre restano intatte (Lemer et al. 2003, Dehaene/Cohen 1995, Dehaene 1997, Dehaene et al. 1998, Dehaene/Cohen 1997, Stanescu-Cosson et al. 2000). Un paziente con acalculia può mostrare, ad esempio, difficoltà di calcolo, pur mantenendo un basso margine di errore nei compiti di approssimazione; al contrario, la sindrome di Gerstmann (caratterizzata da una lesione del lobo parietale sinistro) inibisce solitamente la facoltà di approssimazione, lasciando però pressoché inalterata quella di calcolo.
L’esistenza di una dissociazione tra un sistema di rappresentazione non simbolica di approssimazioni quantitative e un apparato dedito alle operazioni di calcolo esatto spiega anche alcuni particolari casi di tribù amazzoniche, in parte ormai estinte, le cui lingue non hanno o avevano un sistema verbale per nominare entità numeriche. I Tououpinambos, in particolare, conoscevano ed intendevano perfettamente i concetti di addizione e di numerosità, pur non mostrando l’esigenza di parole che denotassero ogni possibile quantità numerica. Il filosofo inglese John Locke, che osservò questa caratteristica nella lingua della tribù dei Tououpinambos verso la fine del ‘600, concluse che un sistema verbale per i numeri è utile per l’apprendimento del calcolo e per la comunicazione, ma non indispensabile per intendere il concetto di quantità (Gelman/Butterworth 2005: 8). I Munduruku, un gruppo etnico del Brasile, con una popolazione di circa 11.000 individui, usano parole che indicano le quantità numeriche da 1 a 5. Per quantità superiori a 5, usano parole di approssimazione numerica, come ‘molti’, ‘alcuni’, eccetera. Sono, tuttavia, perfettamente in grado di compiere esercizi di approssimazione numerica su set di oggetti che superano le 80 unità. Il vocabolario numerico estremamente limitato di queste popolazioni deriva da una scarsa necessità di
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compiere operazioni di calcolo complesso, per le quali è necessario un sistema articolato ed esteso di associazione tra numeri e linguaggio.
Dalla panoramica fin qui esposta si evincono due dati fondamentali:
a. L’essere umano ha una naturale propensione all’approssimazione quantitativa della realtà che lo circonda, e condivide questa biologica caratteristica con altre specie animali. Questa capacità si manifesta inoltre in età precoce, prima di aver sviluppato le competenze linguistiche e operazionali necessarie a svolgere compiti aritmetici di calcolo matematico.
b. La suddetta capacità di approssimazione quantitativa si differenzia dal calcolo aritmetico esatto sia dal punto di vista neurologico, poiché sfrutta aree cerebrali distinte per essere messa in atto, sia perché ha funzioni diverse rispetto a quest’ultimo nella vita di tutti i giorni. Questo è ulteriormente confermato dal fatto che alcune popolazioni, che vivono secondo schemi sociali molto differenti da quelli occidentali cui siamo abituati, non posseggono un bagaglio linguistico sufficientemente ampio a tradurre verbalmente tutte le possibili quantità numeriche o le operazioni di calcolo, ma dispongono di parole a sufficienza per comunicare in modo approssimato concetti quantitativi utili per le quotidiane necessità relazionali.