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1.3 Lo svolgimento intellettuale: tra De Sanctis e Labriola

1.3.2 La prima fase del rapporto Croce-Labriola

Si era già accennato al triennio romano di Croce senza approfondire ulteriormente la questione. Nel 1883 la vita del giovane, come è ben noto, fu travolta da una catastrofe che ne sconvolse l‘esistenza. Lo stesso Croce nel Contributo lo racconta in maniera epigrafica: «Una brusca interruzione e un profondo sconvolgimento sofferse la mia vita familiare per il terremoto di Casamicciola del 1883, nel quale perdetti i miei genitori e la mia unica sorella, e rimasi io stesso sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Guarito alla meglio, mi recai insieme con mio fratello a Roma, in casa di Silvio

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B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, cit., pp. 374. «E mi vi compiacevo, sia per certe mie naturali tendenze di bibliofilo e di curioso, sia perché quella era la tendenza del tempo; e quella tendenza non solo seguii, ma esagerai e materializzai per la logica consequenzialità che era del mio temperamento mentale» (Ibidem).

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Spaventa, che aveva accettato di diventare nostro tutore».100 Quel terremoto non lasciò i suoi segni soltanto sul fisico del giovane, ―fracassato in più parti‖, ma provocò nel suo animo una profonda inquietudine, un male di vivere, che troverà soltanto nella filosofia un attenuazione, in una costante ricerca di equilibrio che contraddistinguerà l‘attività crociana. Lo zio Silvio, fratello del filosofo Bertrando, al pari del fratello, fra gli animatori del ‘48 napoletano e figura importante dell‘hegelismo meridionale, divenne il tutore dei due orfani, accogliendoli all‘interno della propria dimora romana. Fu in quella casa che Croce incontrò per la prima volta quello che divenne uno dei punti di riferimento per la propria formazione intellettuale, riconosciuto come maestro e, pertanto, sempre stimato e rispettato come tale, anche nei momenti di più grande dissenso: Antonio Labriola.

«Un raggio di sole, nel grigiore di quel triennio romano, spuntò per il Croce, quando, tra il gennaio e il febbraio 1884, conobbe Antonio Labriola, legatosi con lo Spaventa sin da quando nel 1863 quest‘ultimo, allora in Torino segretario generale nel Ministero dell‘Interno e a cui il fratello Bertrando aveva raccomandato col maggior calore quel giovane tanto intelligente quanto povero».101 L‘ingresso di Antonio Labriola nella vita di Croce rappresentò una vera e propria svolta per la formazione del giovane studioso, il quale, come si è visto, nonostante i profondi stimoli offertigli dalle pagine desanctisiane, si era immerso negli studi di erudizione, prediligendo più la ricerca bibliografica che la speculazione.

Nell‘assistere alle accese discussioni tra Labriola e lo zio Silvio, il giovane rimase affascinato dallo spirito del primo riconoscendo in quegli argomenti, sostenuti con animo acceso e sprezzante, un esempio di alta morale e di eticità, virtù delle quali, dopo la tragedia subita, andava disperatamente alla ricerca. Vent‘anni più avanti, nella commemorazione per la scomparsa di Labriola, Croce, parlando di quel rapporto amorevolmente conflittuale che legava Labriola allo Spaventa, offrirà un ricordo di quelle serate in casa dello zio, e di quelle discussioni, che risultarono decisive per la sua formazione e per le scelte che di lì in avanti avrebbe dovuto compiere. Scrive Croce:

Lo Spaventa gli voleva molto bene. E con lui litigava quasi sempre, in punto di filosofia; ma nel litigare mostrava insieme non so qual soggezione, che non sfuggiva al mio occhio di ragazzo. Ricordo una serata invernale rigidissima, in cui, dei visitatori consueti, solo il Labriola non mancò; e lui e lo Spaventa, accanto al caminetto, avendo me per unico spettatore, combattettero per un paio d‘ore intorno alla possibilità o meno di far sorgere l‘etica dalle formazioni sociali. Lo Spaventa, vecchio egheliano, sosteneva la possibilità: il Labriola, allora herbartiano, lo incalzò e lo strinse con una serie di obiezioni e di motti di spirito, e, sbalordito l‘avversario, con un‘eloquente perorazione

100 Ivi, p. 354 101

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finale fece trionfare, almeno per me, l‘apriorità del giudizio morale, reazione estetica dello spirito, che nessun corso storico, nessun intreccio sociale, può mai partorire.102

Croce vedeva, fra le pieghe di quelle argomentazioni, e in quello spirito fervente, una risposta alle domande che gli si agitavano dentro, tant‘è che, come testimonia nel

Contributo, prese la decisione di seguire il corso di filosofia dell‘amico dello zio, anche

perché, lo «Spaventa stesso [lo] esortò a frequentar le lezioni del Labriola all‘Università».103

Nella testimonianza di Croce si può cogliere l‘effetto che le riflessioni di Labriola subito sortirono sul suo spirito inquieto; quelle lezioni «vennero incontro inaspettatamente al [suo] angoscioso bisogno di rifar[si] in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e doveri».104

Il problema essenziale, ―vitale‖, in questa fase è quello di fronteggiare quel vuoto profondo, causato dall‘immane tragedia, e acuito dalla perdita, già in età adolescenziale, della fede religiosa,105 che lo costringeva in un forte stato depressivo.106 In quelle lezioni di ―alta etica‖ egli trovava un rifugio, un porto sicuro in cui riparare per poter riorganizzare la

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B. Croce, Antonio Labriola. Ricordi, in A. Labriola, Scritti varii editi e inediti di filosofia politica, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1906, p. 499. Cfr. F. Nicolini, Benedetto Croce, cit., p. 76.

103 Ibidem. 104

B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 356.

105 «Frequentai il corso liceale come alunno esterno delle scuole del collegio; e in quel tempo ebbe inizio la

mia crisi religiosa, che tenni accuratamente celata in famiglia, e anche agli amici, come infermità vergognosa. Quella crisi fu provocata non da letture empie, non da insinuazioni maligne, come i devoti sogliono figurarsi e dire, non da parole di filosofi come lo Spaventa, ma dal direttore stesso del collegio, pio sacerdote e dotto teologo, il quale si accinse poco accortamente a somministrare a noi licealisti, per raffermarci nella fede, alcune lezioni di ―filosofia‖ (come le intitolava) ―della religione‖: lievito gettato nel mio intelletto, sin allora inerte innanzi a quei problemi. Molta tristezza e vive ansie provai per quel vacillare della fede: cercai, come infermo la medicina, libri di apologetica, che mi lasciarono freddo; qualche balsamo mi venne talora dalle parole di animi sinceramente religiosi, come dalla lettura delle Mie prigioni del Pellico, le cui pagine talvolta, in certi rapimenti di gioia, baciai per gratitudine; e poi... Poi mi distrassi, preso dalla vita, senza più interrogarmi se fossi o no credente, continuando anche per abito o per convenienze esteriori alcune pratiche religiose; finché, a poco a poco, smisi anche queste, e un giorno mi avvidi, e dissi chiaro a me stesso, che ero fuori affatto delle credenze religiose» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, cit., pp. 352-353).

106 «Lo stordimento della sventura domestica che mi aveva colpito, lo stato morboso del mio organismo che

non pativa di alcuna malattia determinata e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza su me stesso e sulla via da percorrere, gl‘incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m‘inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 355). Desiderio, nella sua recente opera biografica dedicata alla figura di Benedetto Croce, rintraccia un filo conduttore che attraversa l‘intera esistenza del filosofo – e che condiziona anche la sua attività filosofica – in questo senso di angoscia che opera continuamente, dialetticamente, nel suo animo. Scrive Desiderio: «La vita di Croce di questa lotta è un chiaro esempio: la sua esistenza fu attraversata dal principio alla fine dalla morte, dall‘angoscia, dalla depressione, dalla sofferenza e  ciò che più conta per il nostro lavoro  il suo pensiero e le sue opere con la sua ―angoscia cronica‖, prima ―selvatica e fiera‖ poi ―domestica e mite‖, vi sono a stretto contatto come la madre è a contatto con i figli. Il senso della sofferenza come tono musicale costante della vita è in Croce sempre presente, tanto che nella Logica, dunque in un libro che dovrebbe essere solo e soltanto ―tutto pensiero‖, prendendo spunto da una bella frase di Alfredo Oriani nota che ―la superiorità‖ della vita della conoscenza è semplicemente ―il diritto di soffrire più in alto‖, ma né più né meno degli altri sofferenti, e 

aggiunge  è il diritto di soffrire più in alto per operare più altamente» (G. Desiderio, Vita intellettuale e

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propria vita e riprendere il cammino. «L‘etica herbartiana del Labriola valse a restaurare nel [suo] animo la maestà dell‘ideale, del dover essere contrapposto all‘essere, e misterioso in quel suo contrapporsi, ma per ciò stesso assoluto e intransigente».107

Se, da un lato, quelle lezioni offrivano un contributo importante all‘animo inquieto del giovane, dall‘altro, esse agivano, in maniera altrettanto importante, nell‘ambito del suo svolgimento intellettuale. Quelle parole di Labriola erano come il lievito per la mente dello studioso che, in questo primo approccio diretto alle discipline filosofiche, cominciava a sentire la necessità di rielaborare, in maniera più rigorosa, le problematiche emerse nel corso dei suoi studi, attraverso un crescente bisogno teoretico che, di lì a qualche anno, era destinato a sfociare in una vera e propria rivoluzione filosofica, che sconvolse definitivamente la sua natura di storico-erudito. Come sottolinea Nicolini, riferendosi all‘influsso che il Labriola ebbe sul giovane Croce, non è affatto strano che «quelle lezioni

 che avevano come una continuazione anzitutto in istrada, indi nel retrobottega della libreria Loescher ovvero in una saletta del caffè Aragno,  avessero sul cervello del Croce un effetto che si potrebbe ben paragonare, manzonianamente, a un grosso paniere di fiori allor còlti posto accanto a un alveare. Sarebbe dir troppo poco che esse, secondo il detto kantiano, gl‘insegnarono ―non pensieri ma a pensare‖».108

Croce, che nella propria attività di erudito era stato sempre indaffarato nella affannosa ricerca del dettaglio, di quel particolare che resta tale senza collegarsi ad un sistema di relazioni più complesse, comincia ad affacciarsi ad una nuova attività, con caratteristiche

107 B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 356. È comunque importante segnalare l‘importanza

che questo periodo ebbe per la successiva attività filosofica di Croce; quelle riflessioni etiche stimolate dal dolore e della situazione in cui il giovane si era venuto a trovare, e, allo stesso tempo, gli spunti della lezione labriolana possono essere considerate come il materiale sul quale successivamente il Croce maturo lavorerà per la composizione di quell‘opera della filosofia dello spirito, Filosofia della Pratica, nella quale approfondirà le proprie analisi intorno all‘individuo e il rapporto con le passioni, la volontà e le forze che stanno alla base della sua esistenza. Una testimonianza di questo discorso è data dallo stesso Croce: «Le lezioni del Labriola solevo riassumere in pochi punti che fissavo sulla carta e che rimuginavo in mente al mattino nel destarmi; e fu anche allora il tempo che più mi travagliai intorno ai concetti del piacere e del dovere, della purità e dell‘impurità, delle azioni mosse da attrattiva per la pura idea morale e di quelle che riuscivano ad apparenti effetti morali per associazioni psichiche, per abiti, per impulsi passionali. Di questi contrasti facevo come l‘esperimento sopra me stesso con l‘osservarmi e rimproverarmi; e tutti quei pensieri di allora passarono, tanti anni di poi, in chiarificata forma teorica, nella mia Filosofia della pratica la quale, per questi ricordi che vi si legano, ritiene ai miei occhi un aspetto quasi autobiografico, che è affatto celato al lettore dalla forma didascalica dell‘esposizione» (Ibidem).

108 F. Nicolini, Benedetto Croce, cit., p. 77. Nicolini si riferisce a questo passo contenuto nella già citata

commemorazione crociana, Antonio Labriola. Ricordi: «Ma il Labriola si faceva un punto d‘onore di non dar mai una definizione: entrava subito in medias res; mostrava le difficoltà e gli aspetti varii dei problemi: svolgeva gl‘indirizzi diversi ed antitetici come necessità intrinseche dei problemi stessi: non parlava con tono professorale, ma con periodi brevi e pungenti, che di tanto in tanto si allargavano e sollevavano ad impeto ed onda oratoria. Parecchi dei miei compagni si lamentavano che quel professore non si lasciasse riassumere: ma io, nei corridoi dell‘Università, lo difendevo calorosamente. Gli è che quelle sue lezioni erano le sole che mettessero in fermento il mio cervello e, secondo il detto di Kant, m‘insegnassero non dei pensieri, ma a pensare» (A. Labriola, Scritti varii editi e inediti di filosofia politica, cit., p. 500) .

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proprie, attraverso cui leggere la realtà. Siamo ancora lontani da quella che sarà l‘attività matura del Croce filosofo. Per il momento la preoccupazione principale è quella di cercare nella filosofia, una risposta al proprio dolore, per tale motivo, le indagini di questo periodo si muovono nel campo della morale e dell‘etica. E né, tantomeno, Croce poteva comprendere, se non qualche anno più tardi, l‘importanza di questa fase  in cui cominciò a guardare alla filosofia con occhi nuovi, seppure per un bisogno interiore  per lo sviluppo successivo. Nella filosofia egli cercava delle risposte per lenire il proprio malessere, una cura alle proprie «condizioni d‘animo, allora assai depresse. Pur filosofando – scriveva Croce –, e per aiuto al mio intelletto leggendo alcuni libri di filosofia, io non pensai mai allora che tale spontaneo avviamento del mio spirito potesse segnare un cammino nel quale avrei speso le mie maggiori fatiche e provato le migliori gioie e il più alto conforto, e ritrovato come la mia vocazione: filosofavo, spinto dal bisogno di soffrir meno e di dare qualche assetto alla mia vita morale e mentale».109

Nel 1886, Croce, concluso il suo soggiorno romano, rientra a Napoli rituffandosi negli studi di erudizione, e mettendo da parte, nuovamente, le proprie riflessioni filosofiche: «E non solo non acquistai coscienza della mia vocazione filosofica, ma quasi mi si offuscò il barlume che pur talvolta me ne traluceva, tornato che fui a Napoli nel 1886; quando la mia vita si fece più ordinata, il mio animo più sereno e talvolta quasi soddisfatto, ma ciò accadde perché, lasciata la politicante società romana, acre di passioni, entrai in una società tutta composta di bibliotecari, archivisti, eruditi, curiosi, e altra onesta e buona e mite gente, uomini vecchi o maturi i più, che non avevano l‘abito del troppo pensare, e ai quali io mi assuefeci, e quasi mi adeguai, almeno nell‘estrinseco».110

Quel fervore filosofico che aveva accompagnato gli anni romani era svanito, e aveva lasciato il posto ad un placido ritorno alle ricerche erudite, i cui frutti Croce iniziava a raccogliere, pubblicando in quegli anni alcune delle sue opere storiche più importanti. Il

109 B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 357. E non è un caso che le riflessioni di questo

periodo, che si muovono nel campo della morale e dell‘etica, saranno importanti per la composizione di quell‘opera della filosofia dello spirito, Filosofia della Pratica, nella quale approfondirà le proprie analisi intorno all‘individuo e il rapporto con le passioni, la volontà e le forze che stanno alla base della sua esistenza. Una testimonianza di questo discorso è data dallo stesso Croce che, con uno sguardo retrospettivo, afferma: «Le lezioni del Labriola solevo riassumere in pochi punti che fissavo sulla carta e che rimuginavo in mente al mattino nel destarmi; e fu anche allora il tempo che più mi travagliai intorno ai concetti del piacere e del dovere, della purità e dell‘impurità, delle azioni mosse da attrattiva per la pura idea morale e di quelle che riuscivano ad apparenti effetti morali per associazioni psichiche, per abiti, per impulsi passionali. Di questi contrasti facevo come l‘esperimento sopra me stesso con l‘osservarmi e rimproverarmi; e tutti quei pensieri di allora passarono, tanti anni di poi, in chiarificata forma teorica, nella mia Filosofia della pratica la quale, per questi ricordi che vi si legano, ritiene ai miei occhi un aspetto quasi autobiografico, che è affatto celato al lettore dalla forma didascalica dell‘esposizione» (Ivi, p. 356) .

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rapporto con Labriola continuerà, anche a distanza, a essere un punto centrale del Croce di quegli anni, ma la mancanza di quegli stimoli diretti che, attraverso le discussioni e le lezioni del maestro, costituivano un tratto essenziale della vita romana del giovane Croce, aveva determinato una battuta d‘arresto del percorso di formazione filosofica che Croce aveva intrapreso. Scrive Croce:

Le speculazioni filosofiche della mia adolescenza erano ricacciate in un cantuccio dell‘animo, da cui di tanto in tanto mandavano voci di rimprovero e di richiamo a vita più severa […]. Mi provavo a leggere, in certi ritorni su me stesso, qualche libro di filosofia (quasi sempre tedesco, perché la fede nel ―libro tedesco‖ mi era stata inculcata dallo Spaventa e rafforzata dal Labriola), ma non l‘intendevo bene e mi scoraggiavo, persuaso che il non intendere fosse sempre mio difetto e non mai intrinseca inintelligibilità e artificiosità di quei sistemi. […] Con, lieto balzo dell‘animo e dell‘intelletto rivedevo il Labriola a Roma, o quando egli capitava a Napoli; e bevevo avidamente le sue parole, e le estendevo e le approfondivo per mio conto, e ne traevo profitto per le cose mie.111

Ma, per quale motivo ci è soffermati così tanto sulla figura di Antonio Labriola, visto il tema della ricerca? Che ruolo gioca il rapporto che Croce intrattenne con il suo maestro, all‘interno di una discussione sui primi contatti hegeliani del giovane studioso? E, soprattutto, in che modo l‘insegnamento di Labriola ha influenzato quel dialogo che di lì ad una decina d‘anni Croce avrebbe intrattenuto con Hegel?

Per rispondere a queste domande, bisogna prendere in esame, rapidamente, le influenze effettive che la filosofia hegeliana ebbe sul pensiero maturo di Labriola, e cercare di mostrare se e come questi spunti hegeliani abbiano potuto influenzare il giovane Croce che di Labriola si considerò, seppur sui generis, discepolo. Prima di arrivare a prendere in considerazione il rapporto diretto tra Hegel e Croce bisogna quindi, seguendo anche l‘invito di Raffaello Franchini, indagare in maniera più approfondita quel legame decisivo per la formazione crociana costituito dall‘insegnamento di Labriola. Infatti, a proposito del famoso saggio hegeliano del 1906, scrive Franchini: «La genesi di questo saggio famoso, […] non s‘intende se non lo si riporta alla formazione spirituale del Croce quale si era venuta delineando dopo il suo incontro romano con Antonio Labriola».112 E se, in certa

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Ivi, p. 358.

112 R. Franchini, Croce interprete di Hegel…, cit., pp. 8-9. «Come è noto, Labriola, già alunno dello Spaventa

all‘Università di Napoli, e giunto alla cattedra di Filosofia morale con l‘appoggio autorevole di lui, si era progressivamente staccato dall‘hegelismo, passando prima all‘herbartismo e poi cominciando, primo in Italia che avesse mente e preparazione di filosofo, a studiare e far conoscere il materialismo storico di Marx e di Engels. Croce, è bene precisarlo, giunse a Hegel attraverso l‘antihegeliano e marxista Labriola, che fu praticamente il suo solo maestro riconosciuto e praticato come tale, nonostante che a un certo punto, in seguito alle polemiche sull‘interpretazione del marxismo, egli dovesse distaccarsene sul piano teorico» (Ivi, p. 8-9). Per un‘attenta analisi intorno alla figura di Antoni Labriola e il suo rapporto con l‘idealismo italiano non possiamo che rimandare a F. Rizzo, Il posto di Labriola nella filosofia dell‟idealismo italiano, in Id., F. Rizzo, Sei studi sulla filosofia italiana del Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 75-110. Nelle pagine del saggio, la studiosa prende in considerazione le diverse operazioni di appropriazione compiute nei confronti del filosofo – dalla riproposizione crociana delle opere del maestro, al tentativo, di carattere

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misura, si è mostrato nelle pagine precedenti la genesi e le dinamiche che animarono quel rapporto, ora bisogna prendere in considerazione il rapporto che Labriola ha intrattenuto con la filosofia hegeliana.

Nelle pagine del Contributo dedicate al periodo romano Croce ci offre una testimonianza diretta riguardante i tratti essenziali della filosofia del maestro: «Ed altresì allora io ascoltava con grande fede le lezioni universitarie dello herbartiano e antihegeliano Labriola, e beveva avidamente le sue parole nelle conversazioni in casa dello Spaventa o per istrada, accompagnandolo all‘uscire dall‘università; e il Labriola, satirico e maldicente,