veritiera e corretta, non
4. Confronto con le normative di altri Stat
4.7. La pubblicità professionale negli Stati Uniti d'America
Che gli U.S.A. fossero un modello di ispirazione per buona parte del mondo occidentale non lo scopriamo di certo oggi; e gli americani ci hanno diffuso anche il concetto di marketing legale.
Il tutto si può fare risalire al lontano 1977, anno in cui il giudice della Corte Suprema (il più alto tribunale americano) Harry Blackmun, lo stesso che quattro anni prima, in Roe v. Wade, 410 U.S. 113 (1973), aveva spianato la strada alla legalizzazione dell'aborto, decretò che la pubblicità informativa è protetta dal primo emendamento della Costituzione americana (quello che vieta al Congresso di emanare leggi che limitano la libertà di parola o di stampa).
Procediamo con ordine, fin dall'origine della controversia; John Bates e Van O'Steen, due neo-laureati presso l'Università dell'Arizona, decisero di aprire uno studio legale con il preciso intento di fornire servizi legali a prezzi modici a persone con un reddito modesto, alle quali non è stata riconosciuta l'assistenza legale. Di conseguenza, accettavano solo casi abbastanza semplici (magari privi di contestazione) e rifiutavano tutti quelli complicati: i loro introiti, quindi, dipendevano dalla mole dei casi accettati, proprio perché i guadagni (a causa dei contenziosi minimi) non erano eccezionali. Trascorsi due anni, arrivarono alla conclusione che lo studio legale, continuando a seguire quest'idea di fondo, non poteva sopravvivere: a meno che non si pubblicizzasse la disponibilità di servizi a basso costo.
L'annuncio venne etichettato come una pubblicità. Sempre nel 1976, lo State Bar of Arizona proibì agli avvocati di quello stato di pubblicizzare i propri servizi. In conseguenza di ciò fu avviato un procedimento disciplinare contro i due avvocati: si profilava loro una sospensione non inferiore ai sei mesi. Così, decisero di appellarsi alla Corte Suprema, sostenendo che il divieto di pubblicità violasse sia il primo emendamento che lo Sherman Act (un codice anti-trust emanato per le imprese commerciali ma già allargato alla professione di avvocato nel caso Goldfarb v. Virginia State Bar, 421 U.S. 773 [1975]). La Corte rigettò il secondo ricorso affermando che lo Sherman Act non era stato violato poiché lo Stato dell'Arizona, in materia di pubblicità forense, era da considerarsi "sovrano": ergo il divieto posto era più che lecito.
Sempre la Suprema Corte, però, dichiara che l'annuncio in questione non sfugge dalla sfera protettiva del primo emendamento solo perché "proposes a mundane commercial transaction ". Inoltre, l'informazione pubblicitaria, a detta della Corte, riveste un importante ruolo sociale perché informa il pubblico sulla natura, sulla disponibilità dei prezzi e dei servizi, consentendo loro di scegliere razionalmente: il divieto posto dallo Stato dell'Arizona veniva etichettato come una forma inibitoria del libero flusso delle informazioni, con il conseguente mantenimento del pubblico nell'ignoranza.
Di contro lo State Bar of Arizona si appellava al fatto che gli avvocati dovessero conservare una certa aura di professionalità che, a suo dire, per colpa della pubblicità sarebbe potuta venire meno; la stessa pubblicità avrebbe potuto minare il senso di dignità e di autostima dell'avvocato, erodendo la fiducia nutrita dal cliente nei suoi confronti e offuscando l'immagine pubblica della professione.
Come abbiamo visto, la sentenza diede ragione ai due novelli avvocati dichiarando che il divieto assoluto di pubblicità viola il primo emendamento che, appunto, protegge tutte le forme di comunicazione
(quindi anche il commercial speech): ma ciò non significa che gli Stati della federazione non abbiano il potere di regolamentare l'informazione pubblicitaria forense. La Corte ha ribadito il fatto che tutti gli Stati sono autorizzati a: vietare le pubblicità "false, ingannevoli o fuorvianti" (false, deceptive, or misleading); regolare le modalità con le quali il professionista può sollecitare personalmente delle operazioni; richiedere avvertenze e disconoscimenti se la pubblicità può indurre in errore il potenziale cliente; imporre altre ragionevoli restrizioni sul tempo, sul luogo e sulle modalità di informare il pubblico. Chi non rispetta le regole dettate dalla normativa statale è soggetto ad onerose multe ed al rischi concreto del ritiro della licenza per potere esercitare.
Il caso «Bates v. State Bar of Arizona» divenne presto un riferimento internazionale: chi prima (l'Inghilterra nel 1986) chi dopo (l'Italia nel '99), tutti i paesi dell'area occidentale consentirono ai propri avvocati di utilizzare strumenti di promozione pubblicitaria.
Dopo quasi 40 anni come si è evoluta la pubblicità a stelle e strisce? Oggi gli "avvocati americani [...] si servono regolarmente di radio, TV, giornali, metropolitana e Internet per reclamizzare i loro
servigi"41. Ma, guardando le statistiche dell'American Bar Association
e leggendo le dichiarazioni di Stephen Gillers, docente alla New York University School of Law e membro di una speciale commissione incaricata di vigilare sulla correttezza delle pratiche pubblicitarie dei legali, di oltre un milione di avvocati iscritti all'albo solamente una minima percentuale si avvale del diritto (a questo punto, costituzionale) alla pubblicità: considerata dallo stesso Gillers «una pratica comune soprattutto tra i neolaureati desiderosi di costruirsi una clientela». Fatto sta che la "gara per accaparrarsi clienti ha dato vita ad un’aggressiva e spesso molto creativa forma di marketing. Si va dallo studio specializzato in incidenti di moto a quello anti-discriminazione
41
Alessandra Farkas, Gay, divorziati, motociclisti: così i legali Usa cercano clienti -
che difende lesbiche, gay e malati di Aids. Dall’«avvocatessa
cristiana» a quella per soli cani e gatti maltrattati"42. Tenendo anche
conto del fatto che gli avvocati statunitensi possono pure citare i nomi dei rispettivi clienti per dimostrare il livello della propria utenza, redigendo una sorta di case history a scopi promozionali (a differenza di quelli italiani che non possono assolutamente permetterselo, neppure col consenso espresso delle parti) davanti a noi si materializza una forma pubblicitaria apparentemente libera; ma c'è una cosa che (almeno temporaneamente) viene dichiaratamente vietata dagli stai federali: vale a dire, contattare potenziali clienti vittime di incidenti, disgrazie naturali o attentati se non sono trascorsi 30 giorni dalla tragedia. Oltre all'evidente motivazione etica di sottofondo, la ratio della norma risiede nel fatto che si vogliono evitare episodi spiacevoli come quello di un noto studio legale newyorchese che, il giorno dopo il tragico incidente avvenuto nel 2003 del traghetto che collega Manhattan a Staten Island, dove persero la vita 11 persone e ne furono ferite molte altre, cercava di farsi pubblicità utilizzando uno spot pubblicitario raffigurante un'imbarcazione che navigava in un mare di banconote con un slogan che faceva così: «se sei tra i feriti, hai diritto ad essere ricompensato e noi possiamo aiutarti».
Come abbiamo visto prima, soltanto una minima parte dei professionisti fa ricorso alle pratiche pubblicitarie, ma chi lo fa ci investe un bel gruzzolo: una campagna pubblicitaria può arrivare a costare 100.000 $ (quasi 90.000 €)!
Chiaramente l'evoluzione giurisprudenziale trova riscontro nella disciplina normativa di settore: oltre alle molteplici regolamentazioni statali, esiste una codificazione elaborata dall'American Bar Association (ABA), la principale associazione statunitense. Oltre a fissare gli standard accademici per le Law School, l'associazione formula i codici etici che i professionisti forensi devono rispettare.
Nello specifico, il primo codice ad affrontare il tema pubblicitario è stato il Model Code of Professional Responsibility, adottato nel 1969: era elencato un ristretto numero di informazioni che potevano essere divulgate al pubblico di potenziali clienti e tutte quelle non
espressamente citate (consentite) erano ritenute vietate.
Succesivamente alla storica sentenza del '76, l'ABA promulgò un nuovo codice nel 1983: le Model Rules of Professional Conduct. Adesso ogni forma di pubblicità ha una sua disciplina, con tanto di comportamenti modello da poter seguire e sono ritenute vietate solamente le pubblicità false e fuorvianti. La Rule di riferimento è la numero 7, intitolata Information About Legal Services; il primo punto, come anticipato sopra, si limita a proibire le comunicazioni false o fuorvianti, dando anche una spiegazione di cosa si intende: la pubblicità è vietata se contiene travisamenti di fatto o di diritto, o se omette un dato necessario per un informazione corretta nelle forme e nei contenuti.
Passiamo al punto 3 (il motivo sarà presto evidente) che si occupa della sollecitazione fatta dal legale al fine di acquisire clienti. Questa è da considerarsi proibita se ha come scopo prevalente quello del guadagno economico; a meno che il soggetto sollecitato non sia: o un altro avvocato, o una persona che ha un rapporto familiare o personale o un precedente rapporto professionale con l'avvocato sollecitante. È altresì vietata la sollecitazione fatta a chi aveva chiaramente espresso il desiderio di non essere sollecitato dal legale, oppure che riguarda coercizione, costrizione o molestie.
Qualsiasi tipo di sollecitazione, sia essa scritta, registrata o comunicata elettronicamente, deve contenere le parole "Advertising Material" (materiale pubblicitario).
Eccezion fatta per quanto previsto dai punti 1 e 3, l'avvocato può pubblicizzare i propri servizi attraverso qualsiasi mezzo, mass media inclusi (ecco il dettato della Rule 7.2 e il motivo del salto
precedentemente compiuto). Per pubblicizzare lo studio il legale non deve dare nessuna cosa di ingente valore a un soggetto terzo per la raccomandazione dei servizi offerti, a meno che non rientri nelle fattispecie indicate dallo stesso articolo alla lettera B. Infine, ogni comunicazione offerta all'esterno deve includere il nome e l'indirizzo di almeno un avvocato o di uno studio legale responsabile per il suo contenuto.
La Rule 7.4 elenca le modalità di comunicazione dei settori di pratica e delle specializzazioni dell'avvocato.
La regola che segue affronta il tema della spendita del nome: questo non deve violare quanto regolamentato dalla Rule 7.1 e non deve lasciare intendere che vi siano connessioni con enti governativi o pubblici o di beneficienza. Il nome di uno studio legale che esercità in più giuridizioni può mantenere lo stesso nome, ma devono essere precisati i nomi di quegli avvocati che non hanno la licenza per poter esercitare nella giuridizione dove lo studio ha la sede.
Se un avvocato ricopre una carica pubblica, il suo nome non può essere usato da uno studio legale se l'attività forense dell'avvocato non è attiva e regolare per un lasso sostanziale di tempo.
L'articolo conclusivo impone agli avvocati (o agli studi legali) di non accettare cariche governativi o impieghi da giudice se lo stesso avvocato (o lo studio) ha dato un contributo politico o ha sollecitato contributi politici con lo scopo di ottenere o di essere considerato per quel tipo di carica o di impiego: in sintesi, una norma che in Italia non vedrà mai la luce.
Conclusioni
Questo lavoro di tesi ha cercato di mettere in luce un connotato multiforme della professione forense, quale è la pubblicità informativa.
Prendendo le mosse dalla figura autorevole e piena di prestigio dell'avvocato, lo studio si è focalizzato sulle norme etiche che ne contraddistinguono l'Ordine, dagli inizi alla più recente modifica del codice deontologico.
Servendomi degli scritti di autorevole dottrina, ho tentato di mettere a fuoco l'aspetto centrale (quello pubblicitario) di questa mia indagine conoscitiva, mettendo in risalto i cambiamenti nonché i passi avanti susseguitesi nel tempo, dal divieto in materia presente nel primo Codice datato 1997 alla parziale liberalizzazione dei giorni nostri. Ho provato ad analizzare ogni dettaglio della pratica pubblicitaria, cercando di inquadrare i precisi confini del consentito e di offrie una visione articolata laddove la norma manca di concretezza e specificità, facendo appello, qualora ce ne sia stato bisogno, alla giurisprudenza
del Consiglio Nazionale Forense e a quella ordinaria.
Da lì l'attenzione si è spostata sugli ordinamenti esteri, mettendo in risalto le svolte storiche che hanno consentito una disciplina
normativa positiva nonché la regolamentazione vigente,
evidenziandone, non appena riscontrate, le differenze salienti con la nostra, senza tralasciare quei paesi dove l'informazione pubblicitaria è ancora ferma all'anno 0 (vedi il caso turco).
Fino ad approdare là dove tutto ha avuto origine (gli U.S.A.), confermando e smentendo allo stesso tempo tutti quelli che erano i miei preconcetti in merito, rilevando che il legal marketing proiettatoci dai mass media e dall'immaginario collettivo esiste veramente, ma che ad avvalersene è solo una minima percentuale degli avvocati, quella fetta della torta che ancora un nome non ce l'ha (e ritorniamo alla reputazione tanto cara ad Hazard e Dondi) e che per
venire fuori si trova costretta a fare réclame tramite un cartellone, un opuscolo o uno sketch televisivo. E sì, la maggior parte di loro sono neolaureati.
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