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C APITOLO III IL TEMA DEL MATERNO IN ORLY CASTEL BLOOM

III.1 La questione della maternità: alcuni aspetti central

Il Novecento è stato definito anche “il secolo della madre1.” Già durante l’Ottocento la

maternità, la più importante e celebrata delle funzioni sociali della donna, comincia ad incarnare “la femminilità ideale”, un fenomeno che Marianne Hirsch connette all’istituzionalizzazione dell’infanzia durante il diciannovesimo e ventesimo secolo2

. La società moderna riverisce e idealizza la madre come “regina” del regno domestico, l’“Angelo del Cuore” che soddisfa i bisogni spirituali, fisici ed emotivi del marito e dei figli3

. Dal momento che la casa costituisce il luogo del suo dominio, la figura della madre finisce con l’esservi associata e quindi attrae su di sé tutto ciò che questa rappresenta: nutrimento, calore, sicurezza e stabilità. Inoltre, in quanto “donatrice della vita”, la madre viene percepita come dotata di un potere unico e quindi associata dapprima con figure mitologiche e archetipi e, in seguito, anche alla figura ancora più importante nella cultura occidentale della Madonna, che conferisce all’immagine materna una qualità quasi soprannaturale4

. La proclamazione del dogma dell’immacolata concezione nel 1854 e i culti della Vergine hanno ulteriormente contribuito alla predominanza di un’immagine idealizzata della figura materna.

Il tema è ovviamente molto vasto ed è stato oggetto di un’ampia discussione che, dall’ambito psicoanalitico inaugurato da Freud, si è poi spostata in campo letterario e filosofico con un preciso intento di revisione femminista della storia, della cultura, della

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Per una chiara descrizione del processo per cui la maternità è stata trasformata nel contesto occidentale nel

concetto idealizzato di Maternità si veda, tra gli altri, il volume curato da E. N. Glenn e L. R. Forcey

Mothering: Ideology, Experience and Agency e il volume di Michela de Giorgio The Catholic Model, con

particolare riferimento al primo capitolo.

2

Marianne HIRSCH, The Mother-Daughter Plot, Narrative, Psychoanalysis, Feminism, p. 14.

3

Ivi.

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società. Significativamente, anche una personalità centrale per lo sviluppo del femminismo moderno quale Virginia Woolf, proietta questo tipo di immagine idealizzata della figura materna nel romanzo To the Lighthouse (Gita al faro, 1927), opera dedicata alla madre, prematuramente scomparsa. La venerazione della madre non risulta, a parte singole eccezioni che non modificano comunque il quadro generale, in un potere sociale poiché nonostante il ruolo fosse idealizzato nel contesto culturale, esso era anche reso superfluo dal sistema legislativo e dalla consuetudine sociale5. Paula Webster ha osservato che la reverenza, un’espressione ambivalente di timore e paura, non implica necessariamente una condizione di potere né, tanto meno, di libertà6.

Oltre ad occuparsi della cura e del benessere dei propri figli, la madre rappresentava anche il garante della loro educazione ed era, quindi, ritenuta responsabile del loro futuro

comportamento7. Nonostante con l’avvento del femminismo e l’emancipazione femminile le

cose siano ovviamente cambiate dal punto di vista dell’organizzazione sociale, è innegabile che molte di queste qualità ideali siano ancora attribuite alla figura materna nella cultura occidentale, e non solo8. La figura della Madre nell’ebraismo è un esempio di questo processo

5

Anna Maria MOZZONI, La liberazione della donna, p. 73.

6

Paula WEBSTER, Matriarchy: A Vision of Power, p. 143. Con una posizione simile, Warner osserva come

il culto di divinità che celebravano la fertilità, quali Demetra o la Vergine stessa, non abbiano contribuito a migliorare la condizione delle donne nella società; anzi, “questa visione della fertilità femminile contribuiva a rafforzare la mitologia che la maternità fosse la questione centrale nella vita di una donna”. Si veda su

questo tema Marina WARNER, Alone of All Her Sex, 284 e, in particolare, il primo capitolo.

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In riferimento a questa immagine della madre devota e amorevole, moltissime sono le possibili direzioni di analisi. A partire dalla formulazione teorica elaborata da Carl Gustav Jung, si può infatti parlare di questa figura come di un “archetipo” culturale che è stato in seguito oggetto di diverse interpretazioni, a seconda dell’impianto teorico in cui venivano incluse. Lo scopo della presente discussione, tuttavia, non è quello di discutere le implicazioni e gli sviluppi culturali di questa immagine, bensì quello di analizzare l’incredibile operazione culturale compiuta da Orly Castel-Bloom attraverso uno specifico uso linguistico, con l’intento di intervenire sul un tema che ha un’intensa portata emotiva e psicologica sulla società, a prescindere dai processi culturali e storici che ne hanno determinato la forma attuale. Per una discussione di tale sviluppo nel

contesto ebraico, si veda CARANDINA, Elisa, Il ruolo materno della definizione dell'identità ebraica : il

rapporto tra la figura della madre e la declinazione dell'identità maschile in autrici della letteratura israeliana contemporanea.

8

Questo tipo di atteggiamento nei confronti della maternità come Maternità è al centro di numerose ricerche

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di epitomizzazione culturale della maternità9. Si tratta di una tradizione che si estende attraverso i secoli, a partire dai tempi biblici con il fondamentale esempio delle matriarche fino ai tempi nostri con l’affermarsi della figura della yiddiše mame10

. L’incredibile portata psicologica e culturale dell’immagine materna è confermata dalla vastità di opere e di ricerche che le sono state dedicate, soprattutto a partire dal Ventesimo secolo, con l’affermarsi della psicologia e della antropologia. Il retaggio culturale di quello che è stato definito “l’archetipo della madre” perpetua l’immagine di una donna ideale che, estremamente dedita al marito e ai figli, rinuncia a una propria indipendente esistenza emotiva, professionale o intellettuale, eclissata in ragione del suo doversi considerare costantemente pronta a sopperire ai bisogni del nucleo famigliare. Questo tipo di concezione stereotipica implica il sacrificio come attributo preminente della figura materna. Nel contesto ebraico, all’immagine della yiddiše mame sono associate oltre a queste aspettative anche altre caratteristiche tra cui, in particolare, un atteggiamento invadente e assillante, che priva i figli di ogni spazio personale11. Nonostante la distruzione della cultura yiddiš sopravvenuta durante il dominio nazista, questa immagine ha continuato a influenzare il pensiero della nuova comunità secolare in ’Ereṣ Yiśra’el12.

La Madre israeliana rappresenta un ulteriore sviluppo di questo paradigma della madre presente nella cultura ebraica. Formatasi sotto condizioni di permanente stato militare e tensione esistenziale, questa figura cerca di combinare due aspetti contraddittori: da un lato la

Individualism, and the Problem of Mothering; Valerie FILDES, Women as Mothers in Pre-Industrial

England; Nakano GLENN, Grace CHANG, e Linda FORCEY, Mothering: Ideology, Experience, and Agency;

Claudia NELSON e Sumner HOLMES, Maternal Instincts; Katherine ARNUP, Andree LEVESQUE, e Ruth

PIERSON, Delivering Motherhood: Maternal Ideologies and Practices in the 19th and 20th Centuries.

9

Ruth GINSBURG, The Jewish Mother turned Monster, p. 633.

10 Sul significato della presenza delle figure delle matriarche nella tradizione ebraica si veda

ZATELLI, Lea e

Rachele, dall’esegesi scritturale all’interpretazione simbolica; ZATELLI, Rachel’a Lament in the Targum and Other Ancient Jewish Interpretation; per una panoramica sullo sviluppo della figura materna si veda il

monumentale testo di Rachel Herweg, disponibile in traduzione italiana, La yidishe mame. Storia di un

matriarcato occulto ma non troppo da Isacco a Philiph Roth.

11

Rachel HERWEG, La yidishe mame. Storia di un matriarcato occulto ma non troppo da Isacco a Philiph

Roth, p. 30.

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madre ebrea, premurosamente dedita ai figli e alla loro educazione, e dall’altro la madre impegnata nello sforzo nazionale auspicato dal pensiero sionista, che come in ogni movimento nazionalista del periodo celebrava la funzione procreatrice ed educatrice di nuovi sostenitori della lotta13. Negli ultimi anni, tuttavia, quest’immagine ha subito un ulteriore sviluppo con l’emersione dei movimenti di pace e il rifiuto del sacrificio che lo sforzo militare richiede alle nuove generazioni e alle loro madri, come è stato brevemente delineato nel primo capito14. La revisione femminista della storia del movimento sionista in ’Ereṣ Yiśra’el, aprendo il dibattito su quello che come si è visto viene definito “the equality bluff”, ha certamente contribuito a scuotere le fondamenta di questo mito del sacrificio. I genitori israeliani, e le madri in particolare, si trovano quindi in una posizione estremamente contraddittoria, al convergere della sfera privata con quella pubblica, e di quella personale con quella politica15.

La portata della discussione scaturita dalla pubblicazione di Doli siṭi si spiega innanzitutto con il fatto che la figura di Dolly, come madre, sovverte questo tipo di immagine ideale della maternità, dal momento che l’ansia di protezione della protagonista si accompagna a scoppi di violenza e di cattiveria che, seppure caratteristiche del comportamento umano, sono percepite come aspetti inconciliabili con l’immagine materna. La possibilità dell’esistenza di una figura materna coinvolta in dinamiche aggressive, quali la violenza o una sessualità attiva, è stata per lungo tempo rimossa e soppressa in psichiatria e soprattutto in letteratura dove è stata per lo più confinata alla figura della “matrigna16”.

13

Ruth GINSBURG, The Jewish Mother Turned Monster, p. 633.

14

Primo capitolo di questo volume, pp. 8-14.

15

Con questo problema si confrontano anche opere di mano maschile, in particolare il bellissimo romanzo di David Grossman ’Iša Boraḥat Mi-beśora (Una donna che fugge la notizia, 2010; tradotto in italiano come A

un cerbiatto somiglia il mio amore).

16

Persino Sigmund Freud nella sua opera ha evitato di teorizzare questa possibilità preferendo concentrarsi nella sua analisi della figura materna in fase pre-edipica sulla figura della madre passiva e dedita ai figli. Per una panoramica sullo sviluppo di questo tema in ambito letterario si rimanda a The Spectral Mother di

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Marianne Hirsch ha sottolineato come anche nei romanzi di scrittrici del Ottocento e del Novecento non sia soltanto l’aspetto dell’aggressività e dell’attività sessuale a essere ignorato nel delineare figure materne, ma anche quello della violenza e dell’abuso17

. La prosa ebraica di mano femminile si inserisce nella traiettoria dei generi e degli stili europei di cui conserva anche questa modalità di rappresentazione del materno, perpetuandone le contrapposizioni, quali quella tra tendenza al sacrificio e possibili manifestazioni di aggressività. Anche se con un ritardo di molte decadi rispetto a altre tradizioni europee, in particolare quella inglese e francese, le autrici del canone ebraico moderno e contemporaneo hanno cercato di introdurre figure materne, ripercorrendo le dinamiche delle loro controparti europee: da assenza a presenza, da silenzio a voce18. Con il passaggio da assenza a presenza ci si riferisce in particolare alla comparsa di alcune figure materne in relazione alla voce narrante, nonostante la condizione materna non giunga a coinvolgere l’eroina, come per esempio in Ve-Hu Ha-’Or (Ed è la luce, 1946) di Lea Goldberg. In questo romanzo, la madre della protagonista assume un ruolo molto significativo, anche se l’immagine conserva qualità elegiache quali nobiltà e modestia, accanto a una determinazione a proteggere la propria sorte di fronte all’insania del marito19. La narrazione è strutturata dal punto di vista della figlia che concede alla figura materna un ampio spazio senza presentare, però, l’esperienza materna in prima persona20

. Esistono altri esempi di questa modalità descrittiva del materno, sia nella letteratura di mano maschile che di mano femminile. Doli siṭi di Orly Castel-Bloom, per la prima volta nella

Madelon Spengneher e al già citato The Mother-Daughter Plot, Narrative, Psychoanalysis, Feminism di Marianne Hirsch.

17

HIRSCH, The Mother-Daughter Plot, Narrative, Psychoanalysis, Feminism, p. 32.

18

Pnina SHIRAV, Zhwt nšyt w-byṭwyyh h-tymṭyym w-h-tbnytyym b-prwzh šl msprwt yśr’lywt m-šnwt h-50 w‘d

šnwt h-80 (L’identità femminile e le sue espressioni tematiche e strutturali nella proza delle scrittrici israeliane dagli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta), pp. 20-32.

19

GINSBURG, The Jewish Mother Turned Monster, pp. 635-636.

20

È stato sottolineato come le madri della poesia e della prosa ebraica moderna, come altre figure chiave del femminismo modernista europeo, non siano passate attraverso l’esperienza della maternità: Lea Goldberg, Raḥel, Devora Baron.

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letteratura israeliana, dà invece voce in prima persona a una madre, costruendo un discorso che celebra gli aspetti aggressivi della maternità, senza pudore e senza esitazioni verbali. Anche se, come si vedrà in seguito, dovrebbe essere l’ironia scorticante e il suo peculiare uso della lingua della scrittrice a rappresentare le dominanti interpretative del romanzo e non la violenza che crea letterariamente, le reazioni che questa opera ha suscitato, dalla condanna morale della scrittrice al tentativo di sottrarle i due figli, dimostra come luoghi comuni e tradizioni culturali che sembrano superati nel secolo contemporaneo continuino a influenzare la percezione del femminile. Effettivamente, la donna emancipata contemporanea continua, come la teoria femminista, a confrontarsi con due problemi fondamentali che minano la nuova condizione del soggetto femminile, ovvero l’amore e la maternità. Mentre la sovversione della trama romantica tipica del romanzo ottocentesco non suscita particolari questioni morali, il tema della maternità continua a essere associato con la percezione ideale che la nostra cultura ne ha sviluppato e quindi a causare accesi dibattiti. Nel mondo di Castel-Bloom l’amore è un’illusione al pari di tanti altri “grand récits”, come si evince da tutti i suoi romanzi, esclusa forse la relazione tra ’Adir e Ṭazaro in Ḥalakim ʼenošiyim 21. La maternità pone invece una questione più problematica da risolvere e, con Doli siṭi, Orly Castel-Bloom ha voluto dedicarsi a questo tema, dopo aver sperimentato la frustrazione di non riuscire ad affrontare la questione all’interno della sua opera22

. Il prossimo paragrafo si concentra sul tema della maternità, così come è stato analizzato dalla critica, ovvero come la relazione che emerge tra Dolly e Ben23, tra madre e figlio. Esiste tuttavia anche un altro aspetto, ignorato dalla critica, ovvero la

21

Si vedano le pagine 132-133 di questo volume.

22

Intervista con Eilat Negev contenuta nel volume Eilat NEGEV, Close Encounters with 20 Israeli Writers, p.

163.

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Nella versione originaria Dolly chiama il bambino “ben” che può essere interpretato in ebraico come un nome proprio, ma anche semplicemente come “figlio”, dal momento che le lettere maiuscole non sono graficamente differenziate. Il testo gioca molto su questa ambivalenza, costituendo un altro esempio fondamentale dell’atteggiamento tipicamente post-moderno dell’autrice nei confronti della lingua come sistema convenzionale.

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relazione tra Dolly e la madre che non solo fornisce un importante elemento di lettura per la figura di Dolly come madre, ma cambia il significato dell’ultimo romanzo di Orly Castel- Bloom. Ṭeqsṭil presenta, infatti, al lettore tre generazioni di donne, analizzandone i rapporti e introducendo temi decisamente vicini a quelli presenti in Doli siṭi. La differenza tra le forme testuali adottate per trasmettere contenuti simili e, quindi, la maggiore familiaretà della struttura usata in Ṭeqsṭil è da rintracciarsi come la principale causa del minore interesse sollevato dal romanzo, dal momento che, come si vedrà, esso introduce questioni non meno problematiche e “scandalose” di quelle presenti in Doli siṭi.

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