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La specificità delle formule decisorie minorili nell’ordinamento

nell’ordinamento italiano

___________________________________________________________ Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, c’è da dire che il modello di processo penale minorile ideato dal d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 è un modello che “ha comunque raggiunto un buon grado di efficienza ed è considerato un sistema originale e così attento ai diritti dei minori da essere

284 COSI, La responsabilità del giurista. Etica e professione legale, Torino, Giappichelli, 1998, pag. 395.

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studiato e ripreso dagli Stati stranieri che si stanno dotando di un moderno ordinamento giudiziario minorile”285.

Infatti, il procedimento penale a carico di imputati minorenni contiene sia riti alternativi disciplinati dal codice di procedura penale – giudizio abbreviato, giudizio direttissimo e giudizio immediato – sia riti propri, congegnati per questo particolare settore della giustizia penale e rispondenti alle sue specifiche esigenze.

Se l’obiettivo dei riti speciali è tipicamente il risparmio di tempo e risorse, di regola mediante l’elisione di un segmento della sequenza tipica (udienza preliminare o dibattimento), quelli dell’area minorile si fondano su ragioni più ricche e complesse della semplice economia processuale286: la

contrazione dei tempi del rito e l’alleggerimento della sua struttura in ambito minorile non hanno solo a che vedere con la razionalizzazione della spesa e il potenziamento della ragionevole durata del procedimento, ma si colorano anche dell’esigenza di proteggere il minore imputato dall’impatto negativo che la vicenda giudiziaria potrebbe arrecare al suo equilibrio psicofisico ed esistenziale. Si tratta, insomma, di attuare il principio di minima offensività, allo scopo di lasciare spazio, ogni volta che ci sono le condizioni, a soluzioni di riassorbimento dell’episodio deviante o a strategie di risocializzazione immediatamente attivabili ad opera di personale specializzato e nell’ambiente di vita del minore. Di conseguenza, questo tipo di impostazione va certamente di pari passo con le ragioni dell’economia processuale, visto che gli interventi risocializzanti sono, di regola, tanto più efficaci quanto prima vengono posti in essere; tuttavia, c’è da dire che i due profili non si implicano necessariamente, dal momento che il processo – ove comporti l’accantonamento delle proprie logiche per lasciare spazio a un progetto di risocializzazione – potrebbe anche dover aspettare che questo progetto si concluda e, quindi, di fatto, durare di più.

285 Cfr. SPINA, Il sistema penale minorile tra esigenze di rieducazione e certezza

della pena: riflessioni del giudice, in Cassazione Penale, 2006, n. 12, p. 4226,

che riporta anche in nota la relazione del Procuratore Generale della Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2005 ove afferma che “nel complesso, il procedimento minorile appare adeguato, salvo alcuni miglioramenti specifici da apportare; positivi gli aspetti dell’introduzione degli istituti della messa alla prova (che si conclude nella maggior parte dei casi con esiti positivo) e della declaratoria di irrilevanza del fatto”. Relazione consultabile sul sito

www.minoriefamiglia.it.

286 CESARI, Le alternative, Parte II. Le strategie di diversion, in BARGIS (a cura di), Procedura penale minorile, Torino, Giappichelli, 2016, pag. 176.

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In tal caso, le ragioni dell’economia potrebbero cedere il passo a quelle dell’intervento rieducativo, che ha invece cadenze più lunghe.

Dunque, nel rito minorile le strategie alternative di gestione del procedimento penale sono legate a numerosi obiettivi, in un’articolazione complessa in cui compare sì la ragionevole durata del processo, ma nella quale sono, in realtà, dominanti il principio di minima offensività e una certa tensione rieducativa che vuole che nel procedimento penale si possano sfruttare al meglio e quanto prima possibile le risorse personali, familiari e sociali del minore imputato, per attivare precocemente occasioni di recupero che potrebbero altrimenti andare perdute. Di qui, l’impiego massiccio di tecniche di diversion che consentano un dirottamento del caso fuori dal binario della trattazione giudiziaria per gestirlo con uno strumentario differente da quello processuale e punitivo. Ciò detto, si rende necessaria una premessa: tradizionalmente gli istituti di diversione in distinguono in diversion semplice (anche detta incondizionata) e diversion con intervento; la prima consiste nell’interruzione delle indagini preliminari o del processo penale prima della condanna, mentre nella seconda il meccanismo interruttivo si accompagna a misure non penali di risoluzione del conflitto, quali, ad esempio, provvedimenti di natura riabilitativa, terapeutica o educativa, ovvero misure risarcitorie o restitutorie287. Tuttavia, per quanto riguarda

l’ordinamento italiano, non sembra possano trovare spazi operativi quelle tecniche di diversione precoce imperniate sulla completa discrezionalità dell’organo di accusa nel decidere tout court di non dar corso all’azione penale. Infatti, come già sottolineato, in linea generale si ritiene che negli ordinamenti in cui vige l’obbligatorietà dell’azione penale – come, appunto, quello italiano – tale impostazione in un certo qual modo ostacoli l’applicazione degli istituti di diversion nella forma di radicale alternativa al processo. Tuttavia, secondo Patanè288 occorre individuare l’esatto significato da attribuire al principio di obbligatorietà sancito dall’art. 112 Cost.: tale principio non indica un obbligo di attivazione dell’organo di

287 Risoluzioni del XIII Congresso Internazionale di diritto penale, pag. 533-534. Secondo le definizioni elaborate, la diversion comprende: le attività svolte dagli organi pubblici cui sono attribuite funzioni di controllo sociale, al di fuori del sistema penale; l’esercizio, da parte della polizia e degli organi dell’accusa, di poteri volti ad evitare il promovimento dell’azione penale; le procedure alternative all’esercizio dell’azione penale.

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accusa in relazione ad ogni notizia di reato per l’instaurazione del processo. L’art. 112 Cost., infatti, non dispone che il P.M. ha l’obbligo di esercitare sempre l’azione penale – come se obbligatorietà dell’azione equivalesse ad automaticità del suo esercizio – bensì che il pubblico ministero ha l’obbligo (e non la facoltà) di esercitare l’azione penale, purché ne ricorrano i presupposti. In tal senso, l’art. 50 c.p.p. individua un limite negativo all’insorgenza dell’obbligo di esercitare l’azione penale nella presenza di situazioni che impongono la richiesta di un provvedimento di archiviazione, sulla quale il giudice è poi chiamato a pronunciarsi con funzione di controllo delle valutazioni addotte dall’accusa a fondamento della sua richiesta di esenzione dall’obbligo suddetto. I presupposti per l’archiviazione devono essere legalmente predeterminati e specularmente simmetrici rispetto a quelli d’azione. Sussiste, pertanto, all’interno dell’ordinamento italiano, la possibilità di un’azione selettiva dell’accusa, entro limiti però assai ristretti e predeterminati ex lege: sicché qualsiasi meccanismo di diversione precoce, nell’accezione più radicale di alternativa alla stessa perseguibilità, deve necessariamente collocarsi all’interno di spazi normativi che consacrino “ufficialmente” la decisione di non procedere.

Alla luce di queste considerazioni, possiamo ora analizzare gli istituti più significativi che identificano i meccanismi di diversione o che, pur non potendo essere ricondotti, a rigore, entro le coordinate logiche di questa tecnica processuale, tuttavia obbediscono alla medesima ratio sul piano delle motivazioni politico-legislative. In ogni caso, invece di fare un’analisi sistematica e puntuale di ogni singolo istituto che più o meno risponde alle esigenze menzionate, mi limito a indicare quelle che sono le logiche e le motivazioni di fondo di tali istituti.

Le forme di risoluzione anticipata o alternativa al processo si fondano sulla valutazione degli effetti connessi allo svolgimento del normale iter processuale, valutando le concrete caratteristiche del fatto e della personalità dell’imputato. Tuttavia, è ovvio che gli istituti che consentono una rapida fuoriuscita del minore dal circuito processuale presuppongono, a monte, risolta la questione della responsabilità del minore imputato per il reato ascrittogli.

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Infatti, nella sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto ex art. 27 d.p.r. 448/1988289, si impedisce la punibilità del reo pur esistendo

ontologicamente il reato (per questo l’espressione “irrilevanza” può essere fuorviante, forse avallando erroneamente l’idea di una intrinseca liceità del fatto). Si rende comunque necessaria una precisazione: è chiaro che se tale sentenza viene emessa nel corso delle indagini preliminari, gli elementi di conoscenza acquisiti fino a quel momento non sono certamente comparabili con un accertamento pieno di responsabilità basato su una valutazione probatoria analoga a quella svolta nel dibattimento. In ogni caso, anche se con i limiti del materiale cognitivo disponibile nella fase in cui viene adottata, la decisione del giudice postula già risolto, a monte, il quesito sulla responsabilità290.

Un discorso analogo può essere fatto per la mediazione: presupposto irrinunciabile per addivenire all’accordo è che l’indagato / imputato minorenne riconosca la propria responsabilità in ordine al fatto

289 L’istituto della irrilevanza del fatto costituisce, come la sospensione del processo con messa alla prova, una disciplina del tutto originale del rito minorile che ha trovato una sede di sperimentazione dal 1988, prima di essere esportata nell’ordinamento processuale penale per adulti, inizialmente nella forma della improcedibilità per particolare tenuità del fatto nel rito penale di pace (art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274), ed infine con l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) introdotta dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, come ulteriore ipotesi di archiviazione del procedimento ordinario ex art. 411 c.p.

L’irrilevanza del fatto si pone come un’ipotesi diversion semplice: ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 448/1988 si può ottenere un’immediata definizione del procedimento attraverso una pronuncia preliminare di merito in presenza di un fatto tenue, di un comportamento occasionale e sulla scorta della considerazione che l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minore.

290 La precisazione si rende necessaria perché con la sentenza 22 ottobre 1997, n. 311, la Corte Costituzionale ha mostrato un orientamento di segno opposto, con particolare riferimento all’ipotesi in cui la pronuncia di irrilevanza sia emessa durante le indagini preliminari: infatti, secondo la Corte le valutazioni che il giudice per le indagini preliminari è chiamato a svolgere ai fini di una pronuncia di irrilevanza prescindono da qualsiasi verifica in concreto dell’ipotesi

accusatoria, assunta, per l’appunto, “come mera ipotesi e non dopo aver accertato in concreto che il fatto è stato effettivamente commesso e che l’imputato ne porta la responsabilità”. Tuttavia, risulta più coerente con la ratio dell’istituto l’accertamento della responsabilità, come sembra confermare anche la legittimazione del minore ad appellare la sentenza di irrilevanza ai sensi del comma 3 dell’art. 27 d.p.r. 448/1988, legittimazione, questa, giustificabile solo con l’interesse del minore a far accertare l’inesistenza di tale responsabilità. Cfr. PATANÈ, CIAVOLA, op. cit., pag. 150.

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contestatogli. Di fatto, non si può accedere ad alcun tentativo di mediazione ove il soggetto neghi le proprie responsabilità, in quanto non solo l’attività mediativa sarebbe votata ad un sicuro fallimento, ma verrebbe ad assumere una natura marcatamente sanzionatoria ad essa estranea. Indipendentemente dalla consistenza degli elementi raccolti a sostegno dell’ipotesi accusatoria, se non proprio un esplicito riconoscimento di responsabilità, per lo meno l’ammissione dei fatti posti alla base dell’imputazione o, al limite, la mancata contestazione degli stessi, dovrebbe rappresentare la codicio sine qua non per la praticabilità dell’ipotesi mediativa291.

Un altro istituto che consente al minore la fuoriuscita anticipata dal circuito processuale è il perdono giudiziale292: previsto già nel codice penale del

1930 – poi in parte modificato con il regio decreto 20 luglio 1934, n. 1404 – il perdono giudiziale viene concesso quando il reato è stato commesso da un minorenne, ma il giudice ritiene che il soggetto si asterrà dal commettere ulteriori reati in futuro. Anche in questa ipotesi, premessa logico-giuridica indispensabile è l’accertamento della responsabilità dell’imputato e, ancora più a monte, della sua imputabilità. Il perdono, infatti, come risulta dal dato letterale dell’art. 169 c.p., è rivolto al “colpevole”, in quanto è funzionale a sottrarre il minorenne ad una pena che presenta tutti i presupposti per essere applicata. D’altronde, è la stessa idea di perdono a implicare quella di colpevolezza: si perdona un colpevole, non un innocente. In sostanza, quindi, il fatto-reato meriterebbe

291 PATANÈ, CIAVOLA, op. cit., pag. 164.

292 Nella formula originaria dell’art. 169 c.p. “Se, per il reato commesso dal

minore degli anni diciotto, la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a diecimila lire, anche se congiunta a detta pena, il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio”. Il regio decreto del

1934 ne ha poi esteso l’ambito di applicabilità: a tal scopo, l’art. 19 stabilisce che il giudice non deve più far riferimento alla pena prevista dalla legge, ma a quella applicabile in concreto. In questo modo il perdono può essere concesso anche agli autori di reati di una certa gravità, tenuto conto del fatto che il giudice può applicare una pena al limite edittale minimo anziché al limite edittale massimo, e che nel calcolo della pena può tenere conto delle circostanze attenuanti, prima tra tutte l’attenuante della minore età. Il risultato è che il beneficio diviene

applicabile alla maggior parte dei reati, compresi quelli che più frequentemente si manifestano in età adolescenziale, quali il furto e le lesioni. Va comunque ricordato che l’ammontare della pena pecuniaria è attualmente determinato in 1.549,37 euro.

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la condanna, ma lo Stato si astiene dall’esercitare la propria pretesa punitiva.

Infine, anche nella sospensione del processo con messa alla prova vi è una sorta di “patto” tra lo Stato e il minore: lo Stato rinuncia alla punizione e alla stessa prosecuzione del rito, ma chiede in cambio al ragazzo non solo un mero comportamento in negativo – cioè l’astenersi dal compiere altri reati – bensì un impegno in positivo, quale l’adesione ad un progetto, secondo un itinerario di crescita ed evoluzione. Ovvio che, anche in questa ipotesi, requisito implicito è l’accertamento della sussistenza del fatto di reato e della colpevolezza dell’imputato: poiché, infatti, la messa alla prova è una misura che impegna il minorenne in un percorso di risocializzazione, e può comportare anche limitazioni della libertà personale, deve prima verificarsi se vi siano elementi di prova che ne attestino la responsabilità293.

Sotto questo profilo assume certamente rilievo la fase in cui la decisione sulla messa alla prova è assunta, cioè all’udienza preliminare o al dibattimento294. Mentre in quest’ultimo caso la misura acquista i caratteri

di una vera e propria alternativa alla condanna, quando la messa alla prova è disposta all’udienza preliminare non pare fuori luogo ritenere che il giudice non sia tenuto ad osservare un obbligo motivazionale avente oggetto la sussistenza della colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”, potendosi limitare ad indicare le ragioni da cui si desume la non meritevolezza della punizione e la possibilità di deviare il corso del

293 In quest’ottica, l’accertamento di responsabilità è stato definito dalla Corte Costituzionale un presupposto logico essenziale del provvedimento dispositivo della messa alla prova (cfr. sentenza Corte Cost. 14 aprile 1995, n. 125). Anche la Corte di Cassazione, nella sentenza 12 aprile 2013, n. 23355, ha ritenuto che non si può prescindere dall’accertamento di un’ipotesi di reato colpevolmente commessa da persona minore d’età, da reputarsi capace di intendere e di volere ai sensi dell’art. 98 c.p., in relazione al fatto specifico contestatogli. La capacità di intendere e di volere costituisce, quindi, un presupposto implicito per la concessione della misura: pertanto, se il soggetto, all’epoca dei fatti, non

possedeva quella maturità necessaria per essere considerato imputabile, e dunque punibile, non può neanche essere sottoposto alla messa alla prova.

294 La messa alla prova non può essere disposta nella fase delle indagini preliminari, per cui è necessario che l’azione penale sia stata esercitata. Questa scelta è coerente con la complessità della misura: è naturale, quindi, che essa richieda un momento in cui le indagini si presumono complete, il contraddittorio abbia spazi istituzionali di espressione, il giudice abbia poteri di integrazione probatoria e una struttura collegiale che offra competenze specialistiche essenziali per il giudizio sul minore.

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processo in mancanza di elementi che attestino l’infondatezza dell’accusa

ex art. 425 c.p.p.295

Posto che in queste forme alternative all’iter processuale classico il minore ha comunque tenuto una condotta contraria alle disposizioni di legge, appare del tutto logico chiedersi perché l’ordinamento decida di rinunciare al suo potere-dovere di punire il soggetto per l’illecito commesso. Possiamo tranquillamente affermare che tale rinuncia non è determinata, in via prioritaria, dalla valutazione oggettiva della gravità del reato commesso dall’imputato minorenne, in quanto, se è vero che alcune forme di diversione dal processo richiedono, tra i presupposti, un fatto ascrivibile alla categoria dei reati bagatellari – come nel caso della irrilevanza del fatto e del perdono giudiziale – ci sono altre forme, in particolare la sospensione del processo con messa alla prova, che possono essere predisposte indipendentemente dal tipo di reato296 commesso dal minore.

Allora, il punto centrale attorno al quale si ancorano le tecniche di

diversion non è solo il fatto-reato, quanto piuttosto l’autore del fatto, e in

particolare la personalità del minorenne: infatti, nel capitolo primo abbiamo visto che con il d.p.r. 448/1988 si è realizzato un processo minorile dotato del più elevato coefficiente di personalizzazione; è logico che per poter predisporre una misura adeguata allo specifico soggetto imputato nel processo penale, si richiede come condizione primaria la valutazione della personalità dell’imputato minorenne, la quale, non avendo ancora raggiunto una struttura definitiva, è suscettibile di essere supportata al fine della definizione della stessa in modo tale che il minore possa, in futuro, condividere i valori della società. È proprio questo elemento che costituisce il punto centrale delle tecniche di diversion nel processo penale minorile, che trovano la loro giustificazione nella tensione

295 Concordano con tale tesi anche le indicazioni provenienti dai documenti internazionali – come, ad esempio, la Raccomandazione R (87) 18 del Consiglio d’Europa – che, a proposito della diversion con intervento, richiedono

l’individuazione di elementi “sufficienti” di colpevolezza.

296 Infatti, in passato la sospensione poteva essere predisposta anche per un reato punito con l’ergastolo che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 28 aprile 1994, n. 168, non è più applicabile ai minorenni. La gravità del reato incide solo sulla durata della sospensione, che per i reati più gravi può estendersi fino a tre anni, mentre per quelli meno gravi fino a un anno.

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rieducativa del minore autore del reato, perseguendo l’obiettivo ultimo della risocializzazione dell’imputato.

Guardando agli istituti che, nell’ordinamento italiano, consentono una rapida uscita del minore dal circuito penale, riusciamo a cogliere la logica rieducativa di fondo: per esempio, l’opzione decisoria contemplata dall’art. 27 d.p.r. 448/1988, lungi dal proporsi, almeno in linea di principio, come mera espressione di una volontà indulgenziale nei confronti del minore che delinque, si ricollega all’esigenza di modulare la risposta penale non solo sulla reale dimensione del fatto commesso, ma anche e soprattutto sulle caratteristiche personali del suo autore. Proprio per questo si rileva la capacità di questa tecnica di colmare la contraddizione interna ad un comportamento che sarebbe reato secondo la fattispecie astratta descritta dal codice, ma che al tempo stesso non è reato secondo la percezione del minore e della collettività. Di fatto, l’istituto prende le mosse dalla considerazione che alcuni comportamenti, pur essendo formalmente riconducibili a fattispecie incriminatrici anche gravi, corrispondono, nella realtà, a condotte di ridotta lesività che, nel caso degli adolescenti, sono spesso legate a occasionali e transitorie situazioni di disagio o di disordine comportamentale, destinate allo spontaneo riassorbimento con il maturare del minore e il consolidarsi fisiologico della sua personalità. In simili evenienze, l’ordinamento ammette che la rinuncia all’intervento punitivo e la chiusura anticipata dello stesso percorso processuale siano la risposta più giusta, visto che il trattamento giudiziario della vicenda potrebbe amplificarne il significato e favorire lo strutturarsi del minore su valori negativi e su una distorta percezione di sé. Per fatti di questo tipo, il non intervento costituisce dunque un’opzione da preferire, giacché non solo consente all’ordinamento di risparmiare risorse e tempo, destinandoli a casi più gravi, ma riduce anche l’impatto sfavorevole del processo sulla vita del minore, facilitando lo spontaneo superamento dell’episodio deviante297.

297 CESARI, Le alternative, op. cit., pag. 185. Tuttavia, come sottolinea Patanè, nonostante l’implicita valenza deflativa, il ricorso alla declaratoria di irrilevanza