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3.2 La stagione deLLa monoCuLtura deLL’auto

Un Italiano non passeggia mai se può guidare; per lui è un mistero inspiegabile come il passeggio possa essere piacevole. Un appunto mi è stato mosso frequentemente:

‘Lei è signore e va a piedi?’ (Baedeker 1869, p. XXV) Già nel tentativo di ricostruzione dell’evoluzione storica del sistema ferroviario italiano dal 1839 ad oggi, è apparso chiaro come il treno sia stato protagonista di una parabola discendente, alla quale si è, nel corso del tempo, provato a porre rimedio. La crisi del trasporto ferroviario è stata dettata da un mutamento delle condizioni sociali ed

economiche, sostenute e amplificate da scelte di ordine politico che poco hanno inciso sull’effettivo rilancio dello stesso comparto ferroviario minore.

A partire dagli anni Cinquanta, infatti, l’Italia passò, in poco più di un decennio, dall’essere una nazione fortemente vocata all’agricoltura di tipo tradizionale (nel 1964 viene abolito ad esempio il contatto mezzadrile) ad una delle realtà più industrializzate dell’Occidente (Ginsborg, 1989).

Tra il 1950 e il 1970 si assistette nella Penisola a quello che viene comunemente definito il ‘miracolo economico’, caratterizzato dal raggiungimento di livelli di benessere mai verificati prima.

Tra le diverse conquiste di questo periodo si introdusse anche la produzione in serie, applicata ad un numero sempre crescente di prodotti. Come vedremo, tale innovazione nel modo di produrre ebbe delle forti ripercussioni anche per il settore del trasporto su ferro, in quanto la serialità applicata al mercato automobilistico permise in Italia di avviare la stagione della motorizzazione di massa.

Anche in questo campo è possibile individuare, con buona precisione, una data ed una figura che per certi versi possiamo affermare aprirono il processo di crisi delle ferrovie. É infatti nel 1953, prima del ‘boom economico’, che il mercato dell’automobile italiano sta per essere trasformato dall’allora presidente della FIAT Vittorio Valletta, il quale investì significativi capitali per la realizzazione di una catena di montaggio su larga scala per assemblare un nuovo modello della casa automobilistica torinese. A poco più di due anni da quella scelta industriale, la stessa Torino venne popolata dalle nuove FIAT 600 che annunciarono l’inizio di una nuova stagione della mobilità che poté contare sulla motorizzazione del popolo italiano, il quale negli anni del miracolo economico vedrà oltretutto nell’auto uno dei beni-simbolo con i quali identificare il benessere (Ginsborg, 1989)

A testimoniare il rapporto uomo-automobile, è interessante riproporre quanto osservato da Stefano Maggi quando riporta, all’interno di un suo scritto, le parole di Karl Baedeker, direttore di una rivista di viaggio, che nel 1869 faceva notare come «un Italiano non passeggia mai se può guidare; per lui è un mistero inspiegabile come il passeggio possa essere piacevole. Un appunto mi è stato mosso frequentemente: ‘Lei è signore e va a piedi?’».

L’osservazione fatta da Baedeker sottolinea come una grande importanza venga attribuita al mezzo di locomozione, al fine di identificare l’appartenenza o meno ad una classe sociale, attribuendo di contro al camminare un significato legato alla scarsità di mezzi e pertanto svolto solo da chi costretto.

Tale osservazione sulla mentalità del popolo italiano di metà Ottocento avrà però degli effetti sostanziali se traspostata di circa un secolo quando il consumo di massa, legato al raggiungimento del benessere per ampie fasce della popolazione italiana, creò i presupposti per affrancarsi definitivamente dal camminare attraverso l’acquisto di un’automobile, provocando evidentemente mutamenti significativi nel sistema dei trasporti della Penisola (Maggi, 2003).

significativo indotto economico e sociale nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, tanto che, ad esempio, il settore infrastrutturale, ed in particolare la costruzione del sistema autostradale, ebbe un ruolo decisivo nel realizzare economie esterne in grado di alimentare anche il settore privato (Ginsborg, 1989).

La volontà di privilegiare la progettazione e costruzione di infrastrutture stradali venne supportata e sostenuta anche dalla politica dell’epoca che riconobbe alla mobilità privata un ruolo decisivo per il futuro del Paese, tanto che con la legge del 21 maggio 1955 n. 463 lo «Stato avrebbe erogato [per la costruzione del sistema autostradale] contributi fino al limite del 40% dell’importo dei lavori, su un apposito stanziamento di 100 miliardi di lire in 10 anni, mentre l’ammortamento dei costi residui sarebbe stato basato sull’emissione di obbligazioni e sull’imposizione di un pedaggio» (Maggi, 2003). È infatti sufficiente ricordare come la costruzione dell’autostrada Milano-Napoli, ovvero l’asse portante del nuovo sistema infrastrutturale, venne congiuntamente elaborato dalla stessa FIAT, Pirelli, Agip ed Italcementi che lo cedettero successivamente allo Stato gratuitamente, testimonianza degli importanti tornaconti che si accompagnarono alla realizzazione di quest’opera.

Le ferrovie all’alba del miracolo economico erano però in una situazione di efficienza tutto sommato positiva, se si pensa alle imponenti distruzioni belliche che avevano di fatto quasi annullato la rete. Molti studiosi del settore infatti fanno coincidere con il 1952 la fine della ricostruzione del settore ferroviario in Italia ed attribuiscono a tale data un forte valore periodizzante, in quanto la reputano il limite tra la «ferrovia classica» a servizio di quella che può essere definita la mobilità tradizionale del Paese e l’inizio del declino causata dalla perdita di competitività e l’attribuzione di maggiori interessi politici e finanziari verso il settore dell’automobile19.

In sostanza, con gli anni Cinquanta si apre una nuova stagione per le ferrovie che progressivamente vedono messo in crisi il loro ruolo di mezzo di trasporto egemone, in favore di un’articolazione delle forme di mobilità ed in particolare di quella su gomma. È tuttavia doveroso precisare che nonostante gli investimenti autostradali facciano da padroni nella scena italiana, anche il settore ferroviario è stato investito da significativi interventi che hanno comunque cercato di mantenerlo competitivo.

Sono infatti di questi decenni il perseguimento della definizione di direttrici veloci, affiancate anche da interessanti realizzazioni in ambito metropolitano.

Relativamente alla dimensione regionale delle ferrovie, è però con gli anni Novanta che assistiamo ad una preoccupante riduzione dei servizi sulla rete.

Investita da quello che doveva essere un processo di modernizzazione e automazione, spesso gli interventi proposti sulla rete furono «una soppressione generalizzata di tutti i binari di incrocio e di precedenza non strettamente indispensabili, prima sulle linee secondarie e poi, purtroppo, anche sulle principali20».

In sostanza, si crearono le premesse di quella che oggi è la realtà di numerose linee 19 www.miol.it

regionali le quali sono prive di stazioni, fermate e scambi per realizzare coincidenze (è uso comune sulle ferrovie minore togliere i secondi binari, necessari per le coincidenze in caso di unico binario). Si è così dato vita a quella che viene oggi definita una ‘rete snella’, convinti che essa possa essere gestita più agevolmente di una tradizionale. Ma una rete tradizionale, con tutti i binari, stazioni e organi di controllo può meglio rispondere alle variazioni di servizio proprio grazie alle sue dotazioni, mentre una rete snella è piuttosto – sotto questo punto di vista - una ferrovia ingessata non in grado di dare alternative al servizio in caso di perturbazioni21.

3.3 Le diffiCoLtà di serviZio deLLa ferrovia neL sistema insediativo