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2.2 Il finanziamento pubblico

2.2.1 La storia del bene culturale nella legislatura

Tutto cominciò nel 1939, quando, con la legge sulle Soprintendenze, organi periferici del Ministero per i beni e le attività culturali, si concretizzò il principio dell'intervento pubblico per la tutela giuridica e la salvaguardia dei beni culturali su territorio nazionale. Fu una mossa azzeccata e, nel 1947, si compì un ulteriore passo in avanti con l'articolo 9 della Costituzione.

Nel 1974 venne istituito il Ministero per i Beni e Attività Culturali – MiBAC (oggi anche del Turismo). Inizialmente, si chiamava soltanto Ministero per i beni Culturali e suo scopo era concentrare in un unico ente quelle funzioni e competenze sino ad allora disperse tra il Ministero della Pubblica Istruzione (le Antichità, le Belle Arti, le Accademie e le Biblioteche), il Ministero degli Interni (Archivi di Stato) e la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Discoteca di Stato, Editoria libraria e la Diffusione della cultura). Con esso si consolidò una visione più ampia e rivolta al futuro che, per la prima volta, diede voce inizialmente alla gestione dei beni culturali,

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Centro Ask Bocconi e Intesa San Paolo, op. cit.

42 Tratto da R. Grossi, Una strategia per la Cultura, una strategia per il Paese, in R. Grossi (a cura di), op. cit.

compresi anche quelli inerenti allo spettacolo, e, in seguito, anche alla loro promozione e valorizzazione. La cultura era così entrata a far parte delle politiche del Governo.

All’inizio, tuttavia, quando le Regioni non erano ancora state delineate in termini politico- economici, erano i Comuni ad occuparsi dei servizi culturali rivolti al pubblico, limitandosi a tenere aperti musei, teatri e biblioteche come fossero normali uffici amministrativi e senza preoccuparsi minimamente di espletare una benché minima funzione di promozione.

Il 1990 fu un anno importante: venne promossa la Riforma delle Autonomie Locali (L.142) che inserì la cultura tra le attività di gestione dei servizi pubblici anche in forma autonoma, ovvero esterna agli stessi enti comunali e provinciali, seppure sempre sottoposta al loro controllo. Si affermò, cioè, l'idea che il bene pubblico culturale fosse un vero e proprio servizio da garantire ai cittadini. Sempre più spesso la gestione dei beni di proprietà dei Comuni o dello Stato venne affidata alle c.d. aziende speciali, strumenti degli enti locali, dotati di personalità giuridica, autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvati dal consiglio comunale o provinciale. L'azienda speciale, attraverso la registrazione al libro delle imprese, acquisisce personalità giuridica propria, diventando un ente di diritto pubblico a se stante, diverso e indipendente rispetto al Comune o all'Ente locale che lo ha costituito e al quale deve rispondere di corretta gestione. Formula fino ad allora inesistente, le aziende speciali contribuirono notevolmente a modernizzare l'offerta culturale e ad accrescerne di conseguenza la domanda, riducendo i costi a carico del contribuente. Questo è il caso, ad esempio, del Palazzo delle Esposizioni di Roma.

Il 1998 segnò un'altra svolta significativa: il governo Prodi riuscì ad aggiungere alle competenze del Ministero anche quelle relative alle attività culturali (cioè una ingente parte dell’industria culturale e dello sport), facendo quindi divenire la valorizzazione un dovere primario del dicastero. Fu un passaggio considerevole che trovò ulteriore conferma nella quota di finanziamento destinata al settore. Infatti, sempre nel 1998, anno di crisi economica che vide la ratifica di una manovra anticrisi di 60 miliardi di lire, il governo, su richiesta dell'allora ministro Veltroni, approvò un incremento della spesa culturale, portando il budget del MiBAC da 1.700 miliardi di lire, nel 1995, a 4 mila nel 2000.

Nel 2004 ci fu un altro fatto saliente: l'approvazione del Codice dei beni culturali e paesaggistici, grazie al quale si estese l'obbligo di tutela e salvaguardia anche ai beni ambientali materiali e immateriali, come il paesaggio.

Altra iniziativa rilevante fu, infine, quella che portò il settore pubblico a poter gestire beni di sua proprietà, o sottoposti a sua diretta responsabilità, attraverso strumenti esterni all'apparato burocratico. Nacquero così le società e le fondazioni di partecipazione, istituti di diritto privato e senza scopo di lucro ai quali si può aderire apportando denaro, beni materiali, immateriali, professionalità o servizi.

Questo lungo percorso stravolse completamente la concezione del bene culturale, trasformandola da una visione passiva in una attiva, mettendo finalmente in primo piano il tema della valorizzazione e della promozione del patrimonio.

Ultimamente, però, in Italia quanto nel resto d'Europa, si respira un'aria ostile nei confronti di tutto ciò che è pubblico. Le ragioni sono tra le più disparate, ma tutte si ricollegano ad una concezione di spreco legata al settore, visto come corrotto e incapace. Nella storia italiana la presenza pubblica nell'economia è sempre stata molto forte; tutto nasceva da un'idea ben precisa: gli italiani erano gli azionisti ma anche i primi beneficiari dei servizi offerti dalle aziende pubbliche. Tutto ruotava attorno all'interesse primario della collettività e, di riflesso, del singolo cittadino, e alla salvaguardia del bene comune. Questo termine ha una doppia accezione: soprattutto se usato al singolare, il “bene comune” è un principio immateriale al quale ci si appella per difendere i “beni comuni” (plurale), ovvero cose tangibili come l'acqua, l'aria, la terra, di cui i cittadini rivendicano la proprietà o l'uso. Dunque, il bene comune può identificare sia il principio etico e giuridico che include valori e diritti fondamentali come la salute, l'istruzione, il lavoro, l'uguaglianza e la libertà, sia il bene tangibile che la collettività rivendica come proprio sulla base del principio di cui sopra. Inoltre, i “beni comuni” sono indispensabili per il conseguimento del “bene comune”. La Costituzione ne parla utilizzando il termine “utilità sociale”. In essa, il bene comune è superiore per definizione all'interesse del singolo e i beni comuni devono essere difesi proprio perché garanti del bene comune come valore. Lo Stato deve essere il primo difensore della Costituzione e del bene comune.43

Purtroppo, oggigiorno, si sta assistendo ad un enorme cambiamento e la presenza pubblica non è più sentita come una volta, perché si è macchiata di inettitudine. Basta pensare, ad esempio, al progetto di alienazione del demanio marittimo di cui si sta discutendo proprio in questi giorni e che, comunque, sembra trovare molti oppositori, o alla svendita di numerose società pubbliche ad azionisti stranieri.

Secondo R. Grossi e anche Confindustria, “bisognerebbe ristabilire degli obiettivi strategici e rivedere regole e strumenti per salvare l'azione pubblica per la cultura”.44

I privati, mentre rivestono un ruolo vitale per la gestione del patrimonio culturale, non possono sostituirsi completamente allo Stato per il finanziamento di arte e cultura. Anche se in medio stat

virtus e sempre più spesso si sente parlare di una maggiore cooperazione tra i due settori, bisogna

pur sempre ricordare che l'economia della cultura è molto particolare. Nota per le esternalità positive che genera, ma anche per l'imprevedibilità dei risultati, per i fallimenti di mercato e fenomeni quali il free-riding. Per tutti questi motivi, l'intervento dello Stato rimane imprescindibile.