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STRATEGIE DI PREVENZIONE E PROTEZIONE VERSO UNA PROSPETTIVA DI STUDIO DEL BENESSERE

3.1. Fattori protettivi dallo Stress Lavoro Correlato

3.1.1. Lavorare in Equipe

Un fattore che influisce in maniera determinante sulla salute e sul benessere delle persone e le rende anche capaci di resistere ad alcuni eventi stressanti della vita, è il sostegno sociale, inteso come “l’informazione, trasmessa dagli altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimato ed apprezzato e di far parte di una rete di comunicazioni e di obblighi reciproci” (Cobb, 1976).

Il sostegno può essere fornito dalla cerchia familiare, dagli amici o dalle persone che appartengono alle varie realtà sociali della comunità, come le associazioni o i gruppi di aggregazione sia formali che informali. Le relazioni sociali rappresentano dunque un fattore protettivo verso le esperienze stressanti.

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Cherniss (1980) focalizza l’attenzione soprattutto sul sostegno ottenibile dai colleghi, l’autore sostiene che discutere dei problemi di lavoro con i colleghi può essere un’esperienza catartica che riduce la tensione emotiva ed aiuta l’operatore ad acquisire una migliore visione e comprensione di ciò che accade. I colleghi costituiscono un’inestimabile fonte di informazione tecnica e di consigli pratici, inoltre questi ultimi possono fornire un punto di riferimento e un feedback attraverso il quale la persona può valutare l’impatto e la qualità del suo lavoro.

Maslach (1997) ha osservato come il personale dei servizi socio-sanitari che ha la possibilità di incontrarsi regolarmente con gli altri in un gruppo di sostegno ha meno probabilità di essere colpito della sindrome burnout, poiché il gruppo di discussione aiuta gli operatori a capire che i loro problemi e le loro reazioni non sono unici. Ci sono però degli importanti limiti e ostacoli al social support system, Cherniss (1980) individua alcuni elementi che possono impedire in ambito lavorativo l’istituirsi di un buon sistema di supporto sociale come la presenza di differenti orientamenti teorici che in un gruppo di lavoro o in un servizio possono generare conflitti; l’esistenza di differenze rispetto a risorse, status e potere (per esempio la competizione tra anziani e giovani o tra uomini e donne, conflitti per l’ufficio più grande o l’approvazione del superiore); ostacoli che possono rendere difficile trovare momenti di incontro (per esempio il sovraccarico di lavoro, la dislocazione sul territorio); i motivi di interesse esterni al lavoro (ad esempio: motivi familiari, hobbies ecc) che lasciano poco tempo da investire negli aspetti sociali del lavoro; l’esistenza di regole informali che limitano l’interazione nell’organizzazione; gli alti tassi di turnover che impediscono l’instaurarsi di una buona coesione di gruppo. Tuttavia possiamo affermare che la possibilità di confrontarsi con i colleghi sia un importante strumento di prevenzione e protezione dallo stress.

L’essere umano per sua natura tende a radunarsi in gruppi, in quanto sente il bisogno di confrontarsi e di essere ascoltato e sostenuto. Un gruppo può esser definito come un insieme di due o più individui che interagiscono e dipendono gli uni dagli altri per il raggiungimento di un obiettivo comune (Di Nubilia, 2008).

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Una delle definizioni più conosciute di gruppo è quella proposta da K. Lewin (1948) che definisce il gruppo come “qualcosa di più, o per meglio dire di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi”. Secondo Lewin quel che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza o la differenza tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza.

Il gruppo non nasce come tale, ma si realizza attraverso un processo continuo di collaborazione reciproca, di coinvolgimento e di cooperazione tra soggetti, che porta ciascun singolo membro a mettere da parte le proprie convinzioni e pretese, non per eliminarle, ma per meglio finalizzarle e porle al servizio degli altri (Fraueenfeuder,1976). Riconoscersi come parte di un tutto e condividere la motivazione che spinge al raggiungimento del medesimo obiettivo, sono le fondamentali condizioni che consentono ad un gruppo di strutturarsi come tale. Come sottolinea De Grada (1999), deve esistere nel gruppo il “we feeling”, ossia il sentimento del noi, attraverso il quale le persone si percepiscono come membri di uno stesso gruppo, differenziandosi da coloro che non appartengono ad esso e nutrendo sentimenti positivi verso i membri del gruppo medesimo.

In particolar modo l’opportunità di operare all’interno di gruppi di lavoro offre al singolo uno spazio di appartenenza, supporto e controllo. Il gruppo di lavoro può esser definito come un insieme di persone con stessa professionalità o con professionalità diverse, talvolta anche appartenenti ad enti diversi, che si riuniscono e agiscono insieme in maniera coordinata per affrontare e risolvere un problema che non sarebbe risolvibile singolarmente da ciascun componente (Agosti, 2006).

Per lavorare in maniera efficace all’interno di un’équipe bisogna, non solo possedere le conoscenze e le capacità richieste dall’attività specifica del gruppo, ma ciascun membro deve possedere una serie di competenze comunicativo-relazionali che rendano possibile un’interazione proficua e costruttiva con gli altri membri.

In particolare ciascun membro dell’equipe deve riconoscere e rispettare il valore dell’altro, tenendo presente che le diverse competenze o esperienze rappresentano un valore aggiunto al servizio offerto all’utenza, piuttosto che un ostacolo da superare.

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Nelle équipe multidisciplinari, ogni figura professionale pur integrandosi con le altre mantiene il proprio ruolo e la propria specificità dei compiti, ma è fondamentale che riconosca all’altro pari dignità. L’integrazione tra le diverse figure professionali infatti, può avvenire solo se si mantiene una comunicazione rispettosa del proprio e altrui ruolo. Risulta prioritario dunque nel lavoro di équipe la creazione di un clima favorevole alla comunicazione, che promuova il confronto produttivo a discapito dello scontro improduttivo tra idee e visioni diverse dello stesso problema e dello stesso fine da raggiungere. E’ importante inoltre evitare che all’interno del gruppo di lavoro si creino dinamiche in cui ognuno rimane fermo nella propria posizione, non accogliendo il parere delle altre figure professionali e non considerandolo come completamento del proprio.

Specialmente nelle professioni di aiuto, professioni ad alto contatto che si trovano quotidianamente ad avere a che fare con un’utenza difficile e quasi sempre multiproblematica, il lavoro di équipe spesso rappresenta una delle possibilità per rispondere in maniera integrata alle problematiche psico-sociali e sanitarie ad elevata complessità.

L’operatore sociale che lavora all’interno dei servizi non può affrontare da solo le molteplici situazioni problematiche che incontra nel territorio, in quanto membro di un’equipe deve essere affiancato e sostenuto dagli altri membri.

In particolare l’équipe multidisciplinare, essendo costituita da diverse figure professionali, permette di cogliere e di valutare le diverse dimensioni del problema dell’utente e di disporre delle competenze professionali specifiche per intervenire su ciascuna di esse. Solo in questo modo può esser data all’utenza una risposta integrata, che riesca dunque a favorire una presa in carico globale della persona (Mazza, 2013). In altre parole dunque, lavorare in équipe significa che non una sola figura professionale si occupa dell’utente, né che più professionisti si fanno carico della persona ognuna indipendentemente dall’altra in maniera separata, ma lavorare in equipe indica che la presa in carico della persona viene affidata ad un gruppo integrato di operatori che lavorano in modo armonico e coordinato tra di loro, attraverso confronti, suggerimenti e pareri. E’ importante dunque che nei vari ambiti

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di lavoro vi siano equipe “complete”, cioè costituite da tutte le professionalità necessarie per l’ambito in cui si sta operando, con ruoli che devono essere sempre chiari e ben definiti. Per esempio, nell’equipe multiprofessionale che opera nei servizi di integrazione sociosanitaria, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, educatori professionali lavorano di concerto al fine di dare una risposta integrata all’utente, in quanto una persona difficilmente presenta un problema solo ed esclusivamente sanitario o soltanto di natura sociale, in molti casi gli individui sono portatori di entrambe le problematiche spesso connesse tra loro e dunque c’è bisogno di una risposta sia sociale che sanitaria, che può esser data solo attraverso l’integrazione delle diverse professionalità.

L’esistenza dunque di un’equipe permette potenzialmente di migliorare lo stato di benessere dell’utenza presa in carico, ma non solo, il lavoro di equipe rappresenta un metodo efficace per favorire il raggiungimento degli obiettivi professionali e per tutelare gli operatori da eventuali rischi di isolamento, esso dunque ha una importante funzione di prevenzione del rischio di stress e burnout, in particolare nei contesti socio-assistenziali. In quest’ottica l’equipe rappresenta allora uno spazio privilegiato in cui si prova ad alleviare il disagio dell’utenza, ma nello stesso tempo si cerca di discutere e prevenire quello eventualmente percepito dagli stessi professionisti.

Il lavoro di equipe rappresenta un’importante occasione di confronto psicologico in cui affrontare gli aspetti negativi che il contatto costante con le problematiche sociali e sanitarie può generare, gli altri professionisti dovrebbero dunque rappresentare un’importante fonte di sostegno per ogni operatore che percepisce di non avere abbastanza risorse da poter affrontare da solo le diverse situazioni. All’interno dell’equipe è dunque importante far emergere le difficoltà riscontrate durante il lavoro, per poter affrontarle con altri professionisti aventi competenze, esperienze e percezioni diverse rispetto al problema, con l’obiettivo di mantenere sempre elevata in ognuno la motivazione e la fiducia in se stessi e nel proprio operato. Quanto esposto risulta esser possibile a patto che l’equipe funzioni, se il gruppo di lavoro è attraversato da processi disfunzionali o da dinamiche patologiche esso può al contrario favorire l’insorgenza di stress, per alcuni operatori

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infatti la mancanza di un confronto produttivo all’interno dell’equipe può rivelarsi fonte di disagio.

3.1.2. La Supervisione

Un altro aspetto rilevante in termini di prevenzione e protezione dai rischi derivanti da Stress Lavoro Correlato è la supervisione, essa serve a fornire un sostegno agli operatori e a favorire lo sviluppo professionale di questi ultimi.

Il lavoro di equipe, come si è visto, può costituire un’importante risorsa per l’operatore e rappresenta un luogo di confronto, di crescita e di condivisione delle emozioni; affinché l’esperienza gruppale sia davvero concepita come un’occasione positiva occorre che il gruppo sia sostenuto da una figura in grado di riconoscere e valorizzare ciascun singolo membro. In particolare, un momento importante di riflessione per il gruppo di lavoro è costituito dalla supervisione.

La supervisione rappresenta una pratica operativa che trova applicazione in molteplici ambiti; nel contesto delle professioni di aiuto il termine supervisione è stato usato per indicare il processo di riflessione, apprendimento, verifica e valutazione che si sviluppa attraverso la relazione tra un professionista esperto e uno o più operatori del settore nel corso dell’attività professionale (Casartelli, 2012).

In particolare nelle professioni di aiuto, costantemente in contatto con un’utenza sofferente e problematica, è estremamente necessario trovare spazi in cui poter pensare e rielaborare l’esperienza professionale. La supervisione, intesa come strumento di lavoro, si presta a favorire una riflessione sia in merito alla relazione instaurata con l’utente, sia sugli effetti connessi agli interventi messi in atto, sia sugli aspetti metodologici di cui tener conto (Braidi e Cavicchioli, 2006).

Le ragioni che spingono gli operatori a richiedere la supervisione sono molteplici, esse possono essere distinguibili in:

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- Ragioni organizzative/generali: servizi sovraccaricati di lavoro, richieste degli utenti sempre più complesse, risorse insufficienti per poter far fronte in maniera adeguata alle domande, mancanza di un tempo e di uno spazio adeguato per poter riflettere su ciò che viene fatto, sensazione di isolamento e di solitudine professionale;

- Ragioni metodologiche: necessità di aver a disposizione uno spazio in cui poter riflettere sulle scelte metodologiche compiute, poter fruire di un aiuto per la connessione tra le conoscenze teoriche, i criteri che orientano l’agire professionale e le proprie scelte operative, il bisogno di individuare strumenti professionali adeguati, l’esigenza di confrontarsi con i propri colleghi e con un soggetto esperto.

L’intero staff si rivolge al supervisore per ricevere appoggio, consigli, insegnamenti e per la crescita professionale. Il supervisore è colui che può facilitare l’identificazione di misure di intervento utili al fine di ridurre il rischio di stress, per esempio una redistribuzione dei carichi di lavoro o una rotazione dei compiti, è la figura che dovrebbe esser capace di cogliere i sintomi di disagio tra gli operatori e di mostrare empatia verso i lavoratori offrendo comprensione per i loro problemi. In altre parole il supervisore dovrebbe costituire una fonte primaria di sostegno e di supporto sia tecnico che affettivo (Pines, Aronson, Kafry, 1981).

Esistono diversi tipi di sostegno che il supervisore può offrire al personale tra cui: assistenza tecnica consistente in suggerimenti sul modo migliore di affrontare problemi particolarmente insiti di difficoltà; ascolto empatico dell’operatore; fornire supporto attraverso l’informazione, l’esempio e il feedback per rendere meno ambiguo e incerto il lavoro; appoggiare gli operatori in qualità di difensori e sostenitori, è importante infatti per questi ultimi avere la consapevolezza che i loro supervisori comprendono e appoggiano i loro interessi (Cherniss, 1980).

La supervisione di gruppo permette di: - Confrontarsi e analizzare casi;

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- Elaborare le dinamiche emozionali connesse allo svolgimento dell’attività professionale;

- Elaborare situazioni di empasse;

- Riconoscere lo stress, comprendere come agisce e scoprire le risorse per affrontarlo.

Il gruppo di supervisione e sostegno è in grado di fornire supporto sia alle difficoltà personali che a quelle relazionali (rapporto con gli utenti, con i colleghi, con chi riveste ruoli superiori all’interno della stessa organizzazione).

Lo scopo è quello di migliorare la gestione dello stress attraverso una rinnovata fiducia nelle proprie risorse ed il potenziamento delle proprie capacità comunicative e strategie di coping (Braidi, 2001) . Essere impegnati in un’attività con i colleghi, permette di utilizzare il proprio gruppo come risorsa al fine di consentire una condivisione tra persone che lavorano insieme e migliorare i legami. È bene sottolineare che gli operatori, da una parte desiderano ricevere aiuto, ma dall’altra vogliono mantenere autonomia nel loro lavoro e continuare ad affrontare i problemi con le proprie forze, dunque i supervisori dovrebbero limitarsi a dare aiuto semplicemente ponendo domande, esprimendo il proprio parere e ascoltando, lasciando dunque sempre intatto il senso di autonomia degli operatori. Il rapporto con il supervisore può dunque costituire un momento di crescita e di sostegno, ma il suo intervento inadeguato può contribuire al contrario a favorire processi disfunzionali o dinamiche patologiche. Malgrado i possibili inconvenienti, generalmente questa figura è vista come una risorsa per fronteggiare lo stress da lavoro nelle organizzazioni.

3.1.3. La Formazione

Un altro intervento che può avere un importante valore preventivo è quello formativo, sarebbe auspicabile infatti che l’organizzazione mettesse in atto corsi di

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formazione sulla gestione dello stress finalizzati in particolar modo a sensibilizzare le persone e le imprese sull’esistenza, per di più diffusa, dello Stress Lavoro Correlato e aiutarle a trovare strategie per poterlo fronteggiare.

I corsi di formazione dovrebbero essere quindi orientati a trasmettere informazioni sullo stress e su stili di vita salutari, fornendo strumenti utili alla gestione dello stress come: le tecniche di rilassamento, di respirazione, metodi e strumenti per il controllo delle emozioni, per la gestione efficace del tempo etc, in modo che le persone possano aumentare la propria capacità di far fronte allo stress sul lavoro (Borgogni e Consiglio, 2005).

Santinello e Furlotti (1992) ritengono che sia importante per le organizzazioni progettare appositi corsi di formazione sulla prevenzione dello stress e del bunrout ai quali gli individui avrebbero la responsabilità di aderire.

Non sempre però le organizzazioni sono disposte ad investire risorse nella formazione, spesso perché sottovalutano la sua reale efficacia. La formazione è un tipo di investimento intangibile, che dà valore alle persone, con strumenti e supporto tecnico e personale per trovare le giuste soluzioni per l’azienda, apparentemente quindi, la formazione non fornisce qualcosa di tangibile, ma ha la capacità di lavorare sulle persone in maniera tale da renderle autonome, fiduciose dei propri mezzi e risorse, proattive e padrone del proprio cammino professionale, una persona formata e cioè preparata, è quanto di meglio un’organizzazione possa avere, solo le persone preparate sanno trovare le soluzioni adeguate e sanno affrontare le situazioni con tranquillità e determinazione.

La formazione è importante per tutte le professioni, ma si rivela particolarmente utile soprattutto nelle professioni d’aiuto, nelle quali essa si ritiene che debba comprendere, oltre che adeguate conoscenze teoriche e tecnico- metodologiche, anche una conoscenza di sé, ossia della propria personalità e delle proprie modalità di rapportarsi alla realtà e all’altro. Spesso la formazione non prepara ad affrontare gli stress che la professione comporta, nella maggior parte dei casi viene fornito adeguato materiale teorico, ma raramente gli operatori sono preparati allo stress che il lavoro d’aiuto può comportare.

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La riforma degli ordinamenti professionali ha introdotto importanti novità sul tema della formazione, in particolare l’articolo 7 del DPR 137 del 07/08/2012 sancisce che ogni professionista ha l'obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale, con la precisazione che la violazione di tale obbligo costituisce illecito disciplinare. Questo significa che le professioni cosiddette regolamentate, ossia quelle il cui esercizio è consentito solo a seguito d'iscrizione in ordini o collegi, subordinatamente al possesso di qualifiche professionali o all'accertamento delle specifiche professionalità, devono continuare a formarsi nell’ambito della propria attività professionale e questo per tutelare i “consumatori”, in sostanza gli utenti del professionista che dovrebbero così trovare un certo livello qualitativo nella prestazione professionale richiesta. Sarebbe importante che tali professionisti vivessero questo approccio alla formazione continua, non tanto come un obbligo, ma come una necessità ed una opportunità, la formazione infatti permette di dare valore alla propria identità lavorativa, per poter disporre di strumenti di autodifesa volti a salvaguardare il proprio benessere psico- emotivo, per migliorare la propria prestazione e la propria efficacia ed efficienza lavorativa (De Carlo, Falco, Capozza, 2013).

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