• Non ci sono risultati.

La prospettiva della Psicologia Positiva. Dallo Stress Lavoro Correlato al Benessere Organizzativo: un caso di studio in professioni "High-touch"

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La prospettiva della Psicologia Positiva. Dallo Stress Lavoro Correlato al Benessere Organizzativo: un caso di studio in professioni "High-touch""

Copied!
138
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Scienze Politiche

Corso di Laurea in Sociologia e Politiche Sociali (LM 87)

La prospettiva della Psicologia Positiva.

Dallo Stress Lavoro Correlato al Benessere Organizzativo:

un caso di studio in professioni “High-touch”

Candidata

Relatore

Selina Liperini

Prof. Antonio Aiello

(2)

1

Indice

Introduzione 3

Parte Prima

Capitolo primo

LO STRESS NELLE PROFESSIONI D’AIUTO 7

1.1. Verso una definizione di Stress 7

1.2. Lo Stress Lavoro Correlato 10

1.3. Le Professioni d’aiuto come professioni a rischio psicosociale 16 1.4. Il quadro normativo in materia di Stress Lavoro Correlato 21

1.5. Il burnout come un possibile esito 24

Capitolo secondo

CAUSE ED EFFETTI DELLO STRESS LAVORO CORRELATO 30 2.1. Caratteristiche potenzialmente stressanti del lavoro 30 2.1.1. Rischi Psicosociali legati al Contesto 33 2.1.2. Rischi Psicosociali legati al Contenuto 39 2.2. Conseguenze dello Stress sull’individuo e sull’organizzazione 43

2.2.1. Effetti sull’individuo 43

2.2.2. Effetti sull’organizzazione 47

2.3. La proposta del Modello VARP (2012) 51

Capitolo terzo

STRATEGIE DI PREVENZIONE E PROTEZIONE VERSO UNA

PROSPETTIVA DI STUDIO DEL BENESSERE ORGANIZZATIVO 57 3.1. Fattori protettivi dallo Stress Lavoro Correlato 57

3.1.1. Lavorare in Equipe 58

3.1.2. La Supervisione 63

3.1.3. La Formazione 65

3.2. Verso una Psicologia Positiva 67

3.3. Il Work Engagement 70

(3)

2

Parte Seconda

Capitolo quarto

LA RICERCA EMPIRICA: METODO E PROCEDURE 78

4.1. Gli Obiettivi 78

4.2. Il Questionario: strumenti e costrutti 78

4.3. Il Campione 86

4.4. La Procedura di Somministrazione 91

4.5. Le Ipotesi di Ricerca 91

4.6. La Pianificazione dell’Analisi dei Dati 92

Capitolo quinto

I RISULTATI 95

5.1. Statistiche Descrittive 95

5.2. Correlazioni tra le Variabili 96

5.2.1. Variabili Correlate al Work Engagement 96

5.3. Regressioni Lineari Multiple 99

Capitolo sesto

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI 102

6.1. Discussione 102

6.2. Limiti e prospettive future 110

6.3. Implicazioni pratiche prospettabili 111

6.4. Conclusioni 118

Riferimenti Bibliografici 122

(4)

3

Introduzione

Il presente elaborato dal titolo “La prospettiva della Psicologia Positiva. Dallo Stress Lavoro Correlato al Benessere Organizzativo: un caso di studio in professioni "High-touch"”, ha come obiettivo quello di approfondire la principale tematica del Benessere Organizzativo nelle professioni di aiuto, attraverso una ricerca di natura esplorativa finalizzata a rilevare lo stato di benessere in ambiti lavorativi caratterizzati da sempre più elevati rischi di stress.

Della categoria delle professioni d’aiuto, definita nella letteratura internazionale come “Social Worker”, fanno parte molteplici professionalità, tra cui: assistenti sociali, psicologi, educatori professionali e operatori socio-sanitari; professioni alle quali si è rivolta la ricerca contenuta nel presente elaborato. Tali operatori sono spesso definiti “High-touch” (Maslach, 1992), ad alto contatto, in quanto la loro attività implica numerosi contatti diretti con persone in difficoltà e prevede un coinvolgimento emotivo tale da poter comportare un rischio elevato di stress. Inoltre altri rischi psicosociali rendono questa categoria di professionisti particolarmente incline alla sperimentazione di stress, tra cui il carico di lavoro eccessivo, l’inadeguatezza salariale, le scarse prospettive di carriera, l’esiguità degli organici, il trovarsi a lavorare in strutture amministrative mal gestite, la mancanza di confronto e supporto con superiori e colleghi, l’assenza di opportunità di formazione, aggiornamento, supervisione e supporto psicologico, l’impossibilità talvolta di riuscire a conciliare le risorse a disposizione dell’operatore con le richieste degli utenti e/o dell’organizzazione. Il tutto in tali professionalità è aggravato dal fatto che gli operatori sono spesso caricati da una duplice fonte di stress, quella personale e quella della persona aiutata. La somma di tutti questi fattori può avere ricadute considerevoli che spesso si traducono in conseguenze negative non solo per la salute degli individui, infatti il malessere psicofisico del lavoratore può provocare incrementi dei livelli di assenteismo, turnover anticipato, nonché un indebolimento della performance lavorativa e della qualità complessiva dei servizi offerti da

(5)

4

categorie professionali che assolvono invece una funzione cruciale nel supporto ad un’utenza altamente complessa e richiestiva.

Negli ultimi anni si è definitivamente accreditato lo studio scientifico dello Stress Lavoro Correlato, definito come una “condizione accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative” 1, una condizione che in Europa interessa circa il 22% dei lavoratori2.

Numerosi sono stati negli anni gli studi anche sulla sindrome del burnout nelle professioni di aiuto, tale sindrome, può essere considerata come l’esito di un eccessivo stress, prolungato nel tempo e non mediato.

Con il termine burnout si vuol indicare infatti una specifica sindrome da stress cronico nella quale possono essere distinte tre diverse dimensioni, delineate dall’autrice che per prima ha descritto il fenomeno, Christina Maslach (1982): la prima l’esaurimento emotivo, inteso come risposta adattiva disfunzionale dinnanzi alle eccessive richieste dovute al contatto con la gente; la seconda la depersonalizzazione, caratterizzata da atteggiamenti di rifiuto nei confronti delle persone che si rivolgono all’operatore e la terza la riduzione delle capacità personali, riferita alla ridotta motivazione al successo e ad una diminuzione della propria autostima e della propria capacità di affrontare condizioni di fatica del lavoro.

Il presente lavoro di tesi si pone l’obiettivo di dialogare con i numerosi studi condotti negli anni su stress e burnout, rilevando l’esistenza di una situazione opposta a tale fenomeno, una sorta di stato positivo, che anziché portare ad un distacco dal proprio lavoro, ne promuove al contrario il coinvolgimento. In particolare nel presente elaborato è stato esaminato il concetto di Work Engagement (cfr. Tesi e Aiello, 2016), inteso come uno stato mentale positivo relazionato al lavoro e caratterizzato da vigore (Vigor), dedizione (Dedication) e assorbimento (Absorption) nella propria attività lavorativa (Schaufeli, Salanova, Gonzales-Roma & Bakker 2002). Il Work Engagement è spesso considerato in letteratura come

1 Accordo Europeo sullo stress sul lavoro – Bruxelles, 8 ottobre 2004

(6)

5

l’opposto del burnout; burnout e engagement possono essere concepiti come poli opposti di uno stesso continuum, mentre il work engagement genera nel lavoratore benessere, efficacia ed energie, il burnout al contrario provoca malessere, inefficacia e sfinimento.

L’elaborato cerca di rappresentare dunque una rottura rispetto a tutte quelle ricerche orientate allo studio del malessere organizzativo e del burnout, all’opposto mira a valorizzare gli aspetti positivi del lavoro che promuovono il benessere dell’operatore.

La psicologia sociale del lavoro e delle organizzazioni nello studio del benessere organizzativo è passata infatti da una prospettiva centrata sul “malessere” ad una di tipo “salutogenica”, proponendo un approccio non più solo centrato sull’individuazione dei fattori che concorrono al “malessere organizzativo” (ad esempio fattori di stress lavoro correlato o il burnout), ma spostando il focus sul tentativo di cogliere quelle caratteristiche positive che possono permettere ad individui, comunità e società di crescere e migliorare (Sheldon, Frederickson, Rathunde, Csikszentmihalyi e Haidt, 2000).

In linea con la psicologia positiva, si è cercato di dimostrare come i professionisti dell’aiuto, anche se coinvolti in situazioni particolarmente stressanti, possono far leva sulle loro risorse e sugli aspetti positivi del lavoro, mirando a raggiungere il benessere fisiologico, psicologico e sociale. In particolare facendo riferimento tra gli altri al modello Job Demands-Resources (JD-R) di Bakker e Demerouti (2007), si è preso in considerazione il fatto che in presenza di richieste lavorative elevate, il lavoratore può mantenere un’elevata motivazione, se ha la possibilità di accesso ad un’ampia gamma di risorse.

La ricerca contenuta nel presente elaborato infatti, si è posta come obiettivo quello di individuare possibili variabili che si associano in maniera positiva al Work Engagement dei lavoratori, andando nello specifico a vedere su quali aspetti le aziende possono far leva al fine di incrementare i livelli di coinvolgimento dei propri dipendenti.

(7)

6

Il contributo del presente elaborato di Tesi Magistrale si divide in due parti, la prima di rassegna teorica e la seconda di ricerca empirica.

Nella prima parte vengono analizzate le diverse definizioni di Stress e di Stress Lavoro Correlato, con particolare riguardo alle professioni d’aiuto, viene inoltre trattata in maniera sintetica la sindrome del burnout come possibile esito di stress (capitolo 1); nel secondo capitolo invece vengono ripercorsi i rischi psicosociali presenti nel mondo del lavoro e le conseguenze dello stress sull’individuo e sull’organizzazione. Nel terzo capitolo vengono vagliati i possibili fattori protettivi dello Stress Lavoro Correlato, quali il lavoro d’equipe, la supervisione e la formazione, viene inoltre introdotto il concetto di Work Engagement e viene esposto il già citato Modello Job Demands-Resources di Bakker e Demerouti (2007).

Nella seconda parte, a carattere empirico, vengono descritti gli obiettivi e il campione della ricerca, vengono formulati i risultati attesi e viene inoltre presentato il modello “Work-Related Well-Being” (Tesi e Aiello, 2016), strumento utilizzato nel presente lavoro (capitolo 4). Nel quinto capitolo vengono esposti i risultati ottenuti dalla ricerca, vengono presentate e discusse le statistiche descrittive e le correlazioni tra le principali variabili oggetto di studio. Inoltre è stato applicato ai dati un modello di regressione lineare multipla, al fine di individuare le associazioni esistenti tra le variabili indipendenti considerate e la variabile dipendente del Work Engagement. Nell’ultimo capitolo sono stati discussi i risultati della ricerca, mettendone in luce anche limiti e possibili prospettive future, in funzione anche delle possibili implicazioni pratiche che la ricerca può fornire alle aziende interessate a creare un ambiente lavorativo caratterizzato dalla presenza di benessere organizzativo e di elevati livelli di Work Engagement dei lavoratori.

(8)

7

Parte Prima

Capitolo Primo

LO STRESS NELLE PROFESSIONI D’AIUTO

1.1. Verso una definizione di Stress

Il termine Stress deriva dal latino “strictus”, che significa “stretto, serrato, compresso” nell’immaginario collettivo ha generalmente una connotazione negativa, infatti l’idea che tale termine evoca è quella di qualcosa di fastidioso, di nocivo. Nei Paesi anglosassoni il termine stress viene usato già a partire dal XVII secolo con il significato di “difficoltà”, “avversità”, mentre nel XVIII e XIX secolo, esso ha assunto il significato tecnico di “forza”, nominata appunto stress, che produce tensione e deforma l’oggetto a cui viene applicata (cfr Rivolier 1989, Panchieri 1993, De Felice e Cioccanti 1999) .

Successivamente il termine ha assunto il significato di pressione, che agisce non solo su un oggetto, ma anche su una persona aprendo così la strada ad una interpretazione più inerente ai vissuti umani.

Il fenomeno dello stress è stato ampiamente studiato a partire dalla prima metà del Novecento, tutt’oggi resta ancora difficile darne una definizione univoca, in quanto ogni tentativo di interpretazione non consente di coglierne le molteplici dimensioni che esso implica.

Uno dei contributi più significativi all’interpretazione scientifica del fenomeno dello stress viene dato da Hans Seyle (1956), ricercatore e poi Direttore dell’Istituto di Medicina e Chirurgia sperimentali presso la McGill University di Montreal, che definisce lo stress come la “reazione aspecifica dell’organismo ad ogni

(9)

8

richiesta effettuata su di esso dall’ambiente esterno”, dunque intuisce che lo stress può essere delineato come una risposta dell’organismo alle diverse situazioni, ovvero ai vari stimoli (stressor), al fine di ristabilire il proprio equilibrio interno.

Lo stress dunque potrebbe esser considerato come una sorta di segnale di allarme che scatta nel momento in cui, qualcuno o qualcosa turba il nostro equilibrio psicofisico. Seyle precisa come le risposte che l’individuo mette in atto per salvaguardarsi da agenti stressanti si manifestano, non solo in situazioni in cui la stimolazione viene percepita come pericolo, ma ogni volta che viene richiesta una capacità di adattamento per le alterazioni che si verificano nell’ambiente esterno o interno all’organismo.

Selye dall’originaria sindrome generale di malattia approda alla “Sindrome Generale di Adattamento” (General Adaptation Syndrome) intesa come risposta difensiva e adattiva dell’organismo a stimolazioni esterne. Tale sindrome si sviluppa in tre fasi:

1) Reazione di allarme: in questa fase l’organismo inizia a percepire l’agente stressante e si prepara ad affrontarlo o a fuggire se lo considera troppo pericoloso, dunque inizia ad attivare meccanismi di fronteggiamento sia a livello fisico, quali aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della glicemia, del tono muscolare, del metabolismo e di alcuni neurotrasmettitori, sia a livello psico-emotivo con l'aumento dello stato di allerta e di “tensione emotiva”.

2) Fase di resistenza: è la fase in cui il corpo, continuando ad adoperare le proprie risorse per ristabilire l’equilibrio omeostatico interno, attiva una difesa a lungo termine per far fronte alle condizioni che lo circondano. È la fase in cui la capacità di resistenza aumenta notevolmente.

3) Fase di esaurimento: in tale fase, se l’azione dello stressor non cessa, la resistenza dell’organismo non sarà in grado di fronteggiarlo indefinitamente, poiché potrebbe verificarsi un esaurimento delle energie disponibili e una

(10)

9

perdita del potere di adattamento, fino a giungere alla manifestazione di disturbi di tipo psicosomatico quali l’ulcera, l’attacco cardiaco, l’esaurimento del sistema immunitario o del sistema nervoso. In questa fase le strategie impiegate per difendersi cessano progressivamente di funzionare.

Lo stress secondo Seyle è una reazione fisiologicamente utile, poiché comporta un migliore adattamento, infatti, se esso è contenuto entro certi limiti può esser considerato benefico e perfino necessario all’organismo.

Ogni agente stressante che colpisce un individuo può provocare reazioni diverse, sia positive che negative. Nel primo caso Seyle parla di “eustress” (dal greco eu: buono) con il quale indica un adeguato livello di stress necessario per vivere, un livello tale da promuove la crescita e lo sviluppo positivo dell’individuo tramite esperienze piacevoli anche se stressanti per l’adattamento che richiedono, è grazie a questa risposta che l’individuo riesce ad affrontare i cambiamenti e le difficoltà che si presentano nel corso della vita quotidiana. Nel secondo caso invece Seyle parla di “distress” inteso come quello stress cronico che tende a danneggiare la persona in quanto provoca ansia e insicurezza e di conseguenza incapacità di raggiungere obiettivi ed affrontare le situazioni.

L’interpretazione di stress data da Seyle, nonostante abbia aperto le porte ai successivi studi sul fenomeno, resta vincolata ad una visione dell’organismo come meccanismo autoregolativo, si rivela dunque incompleta poiché tralascia alcune variabili essenziali che concorrono all’insorgenza e allo sviluppo dello stress, quali in particolar modo il livello psicologico e sociale dei soggetti.

Solo successivamente viene colmata tale lacuna, iniziando a considerare, oltre ai fattori interni all’individuo, i fattori psicologici (differenze individuali, esperienze precedenti del soggetto) e i fattori sociali, rilevanti in quanto l’importanza che gli avvenimenti sociali assumono per l’individuo, influenza la sua capacità di adattamento di fronte ad una situazione percepita come stressante. Dunque si inizia a capire che una situazione può essere stressante a seconda della persona che la vive, in base alle sue caratteristiche psicologiche e in base alla sua relazione nel contesto ambientale o sociale. Diviene quindi fondamentale l’interazione tra fattori ambientali

(11)

10

e psicologici nel determinare un caso di stress.

Rilevante all’interno di questo approccio è stato il contributo di R.S. Lazarus, professore di psicologia in California all’università di Berkeley, che focalizza l’attenzione sull’interazione tra i processi cognitivi, emotivi ed ambientali.

Gli studi di Lazarus (1966) hanno messo in evidenza come lo stress non dipende esclusivamente dalla presenza di fattori di stressogeni nell’ambiente, ma da una valutazione soggettiva di tali stressor, in particolare Lazarus individua due livelli di valutazione:

1) Valutazione primaria: il soggetto percepisce l’evento come minaccia e ne valuta la probabilità, l’imminenza e il potenziale danno;

2) Valutazione secondaria: il soggetto fa una stima delle risorse che ha a di-sposizione per difendersi o affrontare l’evento e l’eventuale danno, identificando a sua volta le strategie di “coping”, delineate come strategie di “fronteggiamento” che l’individuo pone in essere per cercare di risolvere i problemi e per superare la situazione stressante.

L’intensità con cui lo stress agisce non è uguale per tutti i soggetti, ma dipende in gran parte dall’interpretazione e dalla valutazione che l’individuo dà ad un determinato evento e quindi alle fonti di tensione.

1.2. Lo Stress Lavoro Correlato

Il lavoro è stato da sempre riconosciuto come una delle attività principali dell’uomo, esso infatti occupa gran parte del suo tempo di vita. Il lavoro rappresenta il mezzo attraverso il quale l’uomo manifesta la propria capacità creativa, innovativa e in cui può esprimere la propria soggettività, esso favorisce l’accrescimento dell’autostima e contribuisce alla propria realizzazione. Allo stesso tempo però il

(12)

11

lavoro può costituire una fonte di sofferenze e di disagio.

Lo stress lavorativo deriva dall’interazione tra fattori organizzativi (ambiente, carichi, orari, responsabilità, relazioni interpersonali e gerarchiche), caratteristiche psico-fisiche del lavoratore (personalità, attitudini, motivazioni, competenze, salute) e socio-demografiche (condizioni economiche, situazione familiare, integrazione sociale). Quando l’interazione tra questi fattori risulta squilibrata può generarsi una condizione di “strain” (Zotti, 2008) (sforzo psicologico o psicofisiologico di un individuo a fronte di un’elevata domanda ambientale o difficoltà adattiva) a seguito della quale il lavoratore può perdere la capacità di svolgere il proprio lavoro in maniera adeguata, con costi e conseguenze sia a livello individuale, che a livello organizzativo. Pertanto possiamo dire che entrano a far parte del concetto di rischio stress lavoro correlato, elementi di natura soggettiva, ovvero relativi a come il soggetto reagisce alle situazioni stressanti; elementi oggettivi relativi cioè alla mansione specifica che il lavoratore svolge ed infine elementi relativi al clima aziendale.

L’Accordo Europeo sullo stress nei luoghi di lavoro, siglato l’8 ottobre 2004, definisce lo Stress Lavoro Correlato (SLC) come una “condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative”3.

L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro (European Agency for Safety and Health at Work) ha adottato una definizione secondo cui “lo stress lavoro correlato viene esperito nel momento in cui le richieste provenienti dall’ambiente lavorativo eccedono le capacità dell’individuo nel fronteggiare tali richieste”4.

3

Accordo Europeo sullo stress sul lavoro (Bruxelles, 8 ottobre 2004) http://www.sicurezzaonline.it/leggi/legmob/legmob20002009doc/legmob20002009acc/acc20041008.p df

4

European Agency for Safety and Health at Work. Factsheet 22: Work-related stress http://osha.europa.eu/en/publications/factsheets/22/view

(13)

12

Il concetto di stress lavoro correlato sta assumendo grande rilevanza in tutta Europa in quanto costituisce una condizione che potrebbe interessare potenzialmente qualunque lavoratore impegnato in qualsiasi luogo di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, dal settore di attività o dalla tipologia di contratto o del rapporto di lavoro.

Lo Stress Lavoro Correlato è inoltre secondo problema di salute legato al lavoro, dopo i disturbi muscolo-scheletrici. Gli studi epidemiologici europei sullo Stress Lavoro Correlato5 dimostrano che circa 4 lavoratori su 10 ritengono che lo

stress non venga gestito adeguatamente nel loro luogo di lavoro e che il 50-60% di tutte le giornate lavorative annue perse è dovuto allo stress lavoro correlato e ai rischi psicosociali. In Italia il quadro non varia molto, studi nazionali rilevano che circa 1 lavoratore su 4 dichiara di soffrire di stress da lavoro.

L’analisi di Cooper (1988) aiuta ad individuare le principali fonti di stress presenti sul posto di lavoro, concepite come fonti di “pressione” dell’ambiente sul soggetto. Più nello specifico Cooper suddivide tali variabili in cinque macro-categorie: le fonti intrinseche al job, il ruolo nell’organizzazione, lo sviluppo di carriera, le relazioni di lavoro, la struttura e il clima organizzativo.

In particolare, con “fonti intrinseche al job” si intende l’insieme dei fattori fi-sici e ambientali che possono incidere negativamente sulla concentrazione e sull’efficienza dei lavoratori (rumorosità, continue vibrazioni, variazioni eccessive di temperatura, di ventilazione e di umidità, illuminazione non adeguata, carenze nell’igiene ambientale) inoltre fanno parte di questa categoria anche altre pressioni quali, pressioni derivanti dal carico di lavoro, sia quantitativo come troppo lavoro da svolgere, che qualitativo quando il lavoratore percepisce la propria occupazione come troppo gravosa rispetto alle sue abilità.

Il “ruolo nell’organizzazione” può essere fonte di stress quando c’è o ambiguità di ruolo, ossia poca chiarezza rispetto ai compiti da svolgere; o conflitto di ruolo, ovvero quando il lavoratore si trova a fronteggiare richieste tra loro

(14)

13

incompatibili.

Lo “sviluppo di carriere” è fonte di stress quando le ambizioni soggettive di emergere e di avanzamento gerarchico nella propria organizzazione vengono deluse, allo stesso modo anche le sovrapromozioni possono essere rischiose se il soggetto sente di essere inadeguato rispetto al ruolo che gli è stato assegnato, causando frustrazioni e caduta di autostima.

Altra fonte di stress secondo Cooper sono le “relazioni di lavoro” (difficoltà a relazionarsi con colleghi, superiori o dipendenti) e la “struttura e il clima organizzativo” , tutte variabili che se non percepite come positive possono essere fonte di stress per il soggetto.

I fattori oggettivi sopra elencati, possono rivelarsi “stressor” a seconda della valutazione soggettiva effettuata dall’individuo nei loro confronti.

Se lo stress lavorativo si protrae nel tempo e non si interviene positivamente su di esso, può portare conseguenze negative per i lavoratori e per le aziende.

Per quanto riguarda gli effetti a livello individuale, questi possono essere di diversa entità, dipendono dal livello di stress al quale sono sottoposti i lavoratori e dalla durata di questa condizione.

Gli effetti più frequenti sono: errori di disattenzione, infortuni, assenteismo, problemi disciplinari, cattiva alimentazione, fumo e abuso di sostanze, squilibri ormonali, indebolimento immunitario, ipertensione, ansia, irritabilità, stanchezza, sintomi di depressione. Va altresì sottolineato che persone diverse posso reagire in maniera diversa a situazioni simili e una stessa persona può, in momenti diversi della propria vita reagire in maniera differente ad una stessa situazione.

Lo stress lavoro correlato comporta inoltre effetti sulle organizzazioni, infatti pensare allo stress lavorativo come a un problema solo del lavoratore è un errore, poiché il calo in termini di salute fisica e mentale dei lavoratori porta inevitabilmente al deterioramento delle prestazioni dell’intera organizzazione. Per esempio, il frequente assenteismo, determina un calo della produttività aziendale, oppure la

(15)

14

disattenzione del lavoratore può portare quest’ultimo a compiere errori più o meno gravi che possono rappresentare un danno per l’organizzazione e dunque uno spreco di costi per rimediarli.

Il riconoscimento –avutosi nel 2004- del disagio psichico – stress lavorativo come malattia professionale ha sollecitato un maggiore impegno da parte delle Istituzioni nella prevenzione verso quelli che sono gli effetti deleteri dello stress lavorativo, ma anche un rinnovato impegno e interesse a livello personale per meglio gestire le proprie risorse.

L’interesse della psicologia verso lo studio dello stress correlato al lavoro ha portato alla nascita di diversi modelli interpretativi che si propongono di spiegare il nesso causale tra le determinanti dello stress lavoro correlato e gli eventuali danni per il soggetto, mediati anche dalla percezione dello stesso e dalle sue capacità di fronteggiare la situazione. Non è possibile offrire in questa sede una panoramica esaustiva di tutti i modelli proposti, tuttavia si ritiene opportuno presentare almeno due prospettive più note e diffuse: la prospettiva interazionale e quella transazionale.

La prospettiva interazionale è centrata sulle caratteristiche strutturali del processo di stress e quindi dell’interazione della persona con l’ambiente lavorativo. Tale prospettiva ha privilegiato nel tempo l’analisi dei fattori legati al contenuto del lavoro, ossia compiti e mansioni. Tra i modelli ascrivibili a questo approccio troviamo in particolare il modello domanda/controllo (demand/control) di Karasek (1979) secondo cui lo stress è determinato dal rapporto tra le richieste lavorative e la capacità di controllo del soggetto, dunque secondo l’autore una richiesta (Job Demands) elevata in termini quantitativi – ma anche qualitativi – impone al soggetto una pressione elevata (strain) che può essere attenuata da un altrettanto elevata possibilità di controllo sul proprio lavoro. La possibilità di controllo e l’autonomia decisionale dunque, anche in presenza di una domanda elevata, permettono di ridurre il grado di stress percepito dal lavoratore.

Il modello di Karasek si contrappone all’impostazione tayloristica basata sull’assegnazione di compiti semplici e ripetitivi per ottenere la massima produttività per unità di tempo, senza nessuna possibilità di controllo sui tempi che vengono

(16)

15

dettati dalla macchina.

Successivamente, Karasek e Theorell (1990) hanno inserito nel modello anche la dimensione del sostegno sociale (modello demand/control/support), in quanto ritengono che il sostegno da parte di superiori e colleghi sia da considerarsi un altro modulatore dello stress, mentre l’isolamento sociale ne favorisce l’aumento.

Le teorie transazionali hanno invece come focus d’attenzione i meccanismi psicologici – emotivi e cognitivi – alla base dell’interazione della persona con il proprio ambiente lavorativo. Secondo tali modelli lo stress è uno stato psicologico che coinvolge aspetti sia cognitivi che affettivo/emozionali, lo stato di stress viene concepito come un fenomeno percettivo derivante dal confronto tra le richieste provenienti dall’ambiente lavorativo e le capacità del soggetto di fronteggiarle. Il modello di Cooper e Marshall (1976) descrive i diversi fattori lavorativi che possono influenzare la persona e provocare effetti a livello individuale e organizzativo. Tali fattori sono molteplici: carico di lavoro, ruolo, relazioni sul lavoro, clima e struttura organizzativa, evoluzione di carriera; a questi viene aggiunta la dimensione del bilanciamento lavoro/vita privata, dimensione che sta diventando sempre più cruciale. Quando i fattori sopracitati sono disfunzionali, possono produrre implicazioni negative sia sul lavoratore che sull’organizzazione stessa.

(17)

16

1.3. Le Professioni d’aiuto come professioni a rischio psicosociale

In passato gli studi hanno sempre focalizzato la loro attenzione solo su rischi fisici o igienico-ambientali, come l’esposizione dei lavoratori a sostanze nocive o a forti rumori, negli ultimi anni gli studiosi hanno iniziato a concentrarsi su fattori di natura più strettamente psicosociale, legati più ai cambiamenti organizzativi e all’insicurezza sul lavoro.

In particolare, l’EU-OSHA (Agenzia Europea per la salute e la sicurezza sul lavoro) ha ricondotto la crescita dei rischi psicosociali all’utilizzo dei contratti precari in un mercato del lavoro instabile, alla maggiore vulnerabilità dei lavoratori nel contesto della globalizzazione, al ricorso a nuove forme contrattuali e all’outsourcing, all’invecchiamento della forza lavoro, agli orari di lavoro troppo lunghi, ai ritmi di lavoro intensi, all’elevato coinvolgimento emotivo sul lavoro e allo scarso equilibrio tra vita e lavoro.6

I rischi psicosociali possono definirsi in termini di interazioni tra contenuto del lavoro, condizioni ambientali e organizzative da un lato e le esigenze e competenze dei lavoratori dipendenti dall’altro7. Tra tutti i rischi cosiddetti

psicosociali troviamo anche lo stress lavoro correlato, un fenomeno diffuso oggi nei contesti più disparati, ma che colpisce soprattutto la categoria delle cosiddette “professioni di aiuto”.

Con l’espressione “professioni d’aiuto” (helping professions) si intendono oggi, tutte quelle professionalità che sostengono le persone in condizioni di difficoltà esistenziali, sociali, psicologiche e che tendono al miglioramento della qualità di vita e della salute mentale e sociale dei singoli e della comunità.

6

Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul lavoro, Le previsioni degli esperti sui rischi

psicosociali emergenti relativi alla sicurezza e alla salute sul lavoro, Facts, 2007, n.74 IT. 7

Psychosocial factors at work. Recognition and control, Report of the Joint ILO/WHO Committee on Occupational Health, Ninth Session, Geneva, 18-24 September 1984, Occupational safety

(18)

17

All’interno di questa categoria sono presenti molteplici professioni quali: medici, infermieri, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, insegnanti, educatori, poliziotti, vigili del fuoco, sacerdoti, religiosi.

Sono tutte professioni che contengono implicitamente nel loro mandato una finalità di aiuto, basata sul contatto interumano e hanno al centro del loro agire la relazione, in esse non si utilizzano solo competenze tecnico professionali, ma anche capacità personali, abilità sociali ed energie psichiche per soddisfare i bisogni degli utenti (Gabassi e Mazzon, 1995).

Una delle caratteristiche peculiari di tali professioni, sta proprio nel contatto diretto con le persone, con le loro difficoltà, sofferenze e richieste e sono proprio le continue richieste da parte delle persone, a far si che questi professionisti siano continuamente sotto pressione, perché il loro aiuto non solo è necessario, ma in molti casi anche urgente ed impone risposte immediate e puntuali ai bisogni dell’utenza (Baiocco, Crea, Laghi, Provengano 2004). Si tratta di persone che nell’esercizio della loro professione mettono in conto il rischio di farsi assorbire dalle necessità della gente, per essere a disposizione delle loro molteplici richieste.

Maslach definisce queste professioni “high-touch” (alto contatto), poiché implicano numerosi contatti diretti con persone in difficoltà ed esigono un coinvolgimento emotivo, tale da poter comportare un rischio elevato di stress. La particolarità di queste professioni sta nel fatto di avere responsabilità per le persone piuttosto che per le cose.

Una capacità centrale in tutte le professioni d’aiuto è la comunicazione empatica tra operatore e utente, l’empatia viene definita da Carl Roger (2000) come: “sentire il mondo più intimo dei valori personali del cliente come se fosse proprio, senza però mai perdere la qualità del come se”. In altre parole, l’empatia può esser intesa come la “capacità di mettersi nei panni dell’altro”, sentire cosa l’altro sente senza però confondersi mai con l’altro, è sempre necessaria la differenzazione tra operatore e utente.

(19)

18

Che cosa spinge tali persone ad aiutare? Generalmente si ritiene che ciò che spinge una persona ad aiutare sia il comportamento prosociale: quel comportamento che un individuo mette in atto volontariamente per aiutare l’altro, si parla di comportamento altruistico quando l’aiuto viene prestato con l’esclusiva intenzione di recare beneficio all’altro senza aspettarsi ricompense per quello che si è fatto. Non è però sempre facile, indagare sulla presenza o meno di benefici per chi aiuta, dunque il confine tra comportamento altruistico e quello interessato non è sempre così netto. Talvolta anche alcune forme di aiuto che sembrano del tutto altruistiche, guardandole più da vicino è possibile riscontrare l’esistenza di ricompense quali l’aumento di stima in se stessi, l’ammirazione degli altri, la risoluzione dei sensi di colpa, la gratitudine della persona aiutata.

Sono diversi i fattori che entrano in gioco nel comportamento prosociale, essi riguardano le caratteristiche di colui che aiuta, le sue risorse, il suo stato d’animo, la competenza che egli possiede e l’efficacia prevista. Inoltre altre variabili possono influenzare il comportamento prosociale quali: la percezione della condizione di bisogno della persona in difficoltà, la similarità della vittima con il potenziale soccorritore, il pensare di poter ottenere benefici (non solo economici ma anche emotivi) così come si può essere scoraggiati dai costi e dai rischi in cui si pensa di incorrere (Sandrin, 2004).

Per quanto riguarda le professioni d’aiuto, queste sono caratterizzate da una elevata motivazione soggettiva al lavoro di dedizione agli altri. Chi sceglie una professione d’aiuto lo fa perché motivato, anche se, a volte, accanto alle motivazioni coscienti, spesso dettate da propensioni altruistiche, ci possono essere anche delle ragioni non definibili come tali, finalizzate piuttosto alla soddisfazione di bisogni personali (bisogno di approvazione, bisogno di espiare i propri sensi di colpa, bisogno di rafforzare la propria autostima).

Di fatto, una caratteristica di queste professioni è proprio quella di avere un’elevata motivazione, un forte bisogno di dare, spesso chi sceglie questa pro-fessione si sente un “salvatore”, un “guaritore onnipotente”, un “invincibile guerriero” e talvolta il sentirsi sconfitto, il cercare di attivare infinite risorse senza

(20)

19

poi giungere a una soluzione del problema oppure il veder distrutto ogni tentativo riabilitativo, terapeutico o di reinserimento sociale, possono portare un elevato livello di stress e un elevata sofferenza.

Nell’aiutare gli altri infatti si deve evitare, quella che C. Berry chiama “la trappola del messia”, ovvero amare e aiutare gli altri dimenticando di amare e aiutare sé stessi. Spesso in queste professioni vi è l’idea che “se non lo farò io nessuno lo farà” e questo inevitabilmente genera ansia e stress e porta a considerare le necessità degli altri prioritarie rispetto alle proprie (Berry, 1993).

Dunque se da una parte, chi svolge una professione d’aiuto prende spunto dalle proprie motivazioni al lavoro di dedizione, dall’altra questa stessa predisposizione potrebbe essere occasione di disadattamento in quanto non tiene sufficientemente conto dei limiti anche a livello psicofisiologico che egli può avere.

Si tratta di categorie lavorative altamente motivate ad aiutare gli altri, che in mancanza di gratitudine o di apprezzamento da parte dell’utenza, finiscono per cadere in uno stato di stress, depressione, insoddisfazione lavorativa e ansietà.

Le professioni d’aiuto, sono definite professioni ad elevato rischio di stress, poiché sono figure caricate da una duplice fonte di stress, ovvero quello personale e quello della persona aiutata, inoltre lo stare in rapporto diretto con l’utenza e il continuo contatto con le richieste d’aiuto, a lungo andare può diventare motivo di logoramento e stress. Spesso le mansioni affidate al lavoratore dell’aiuto contengono elementi fortemente dequalificanti, stressanti e sovente lontani dalle aspettative.

Ulteriori motivi possono essere quelli di lavorare in strutture amministrative mal gestite, ove vengono per esempio scoraggiati la creatività, l’entusiasmo e il coinvolgimento; il non avere la possibilità di pianificare, programmare, organizzare la propria attività confrontandosi in modo costruttivo con superiori e colleghi; non avere all’interno della struttura, la possibilità di partecipare a corsi di aggiornamento, a programmi di supervisione e di supporto psicologico.8

(21)

20

I professionisti possono trovare difficoltà a lavorare secondo le regole, specialmente quando queste sembrano ostacolare l’intuizione individuale e impedire l’esercizio libero e spontaneo della propria attività, imponendo comportamenti standardizzati che spesso appaiono lontani dai problemi da risolvere (Scortegagna et al. 1991).

Altri fattori di stress lavorativo possono esser considerati: sovraccarico di lavoro, paga a livelli minimi, straordinari non retribuiti, lavoro precario, scarse prospettive di carriera, esiguità degli organici, mancata conciliazione tra risorse a disposizione dell’operatore e richieste da parte delle persone e dell’organizzazione, un’organizzazione sempre più orientata verso mete di produttività che trascurano la dimensione umana del servizio.

Sono inoltre professioni che nella grande maggioranza dei casi, svolgono un lavoro emozionalmente impegnativo, trattare con persone malate, sofferenti, traumatizzate o psichicamente fragili non è sicuramente facile, implica una grande spesa di energie personali, inoltre quello che genera maggiore ansia e stress è il fatto che il contatto con queste realtà ci ricorda l’esistenza del dolore, della fragilità, della morte, che ci rimanda come in uno specchio, l’immagine di quello che noi potremmo, in qualunque momento diventare.

Il contatto diviene particolarmente stressante quando la relazione si fa intima e coinvolgente, quando si creano identificazioni e fusioni e le difese vengono messe in crisi e tendono a saltare (Sandrin, 2004).

È importante dunque per tutti questi motivi un particolare supporto a tali professionisti che avviene mediante riunioni periodiche per lo scambio di informazioni, per la rielaborazione teorica delle proprie esperienze, per il confronto e la condivisione di responsabilità.

(22)

21

1.4. Il quadro normativo in materia di Stress Lavoro Correlato

I grandi cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro, a partire dall’introduzione delle nuove tecnologie fino alla diffusione delle nuove forme contrattuali, oltre a portare un profondo mutamento dell’organizzazione stessa del lavoro, hanno introdotto anche nuovi rischi occupazionali, influenzando di conseguenza il quadro normativo internazionale, comunitario e nazionale.

La Direttiva del Consiglio della Comunità Europea del 12 giugno 1989 (89/391/CE) finalizzata all’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori, rappresenta uno dei più importanti atti legislativi europei in materia. Questa direttiva è stata recepita in Italia con il D.lgs. 626/1994, che ha introdotto importanti novità in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nel nostro Paese, tale decreto – con le successive modifiche – oltre ad individuare le cosiddette “Figure della prevenzione”: Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (RSPP), Medico Competente (MC), Rappresentante dei Lavoratori Sicurezza (RLS), ha sottolineato anche il ruolo chiave del lavoratore nella gestione della tutela della sicurezza e della salute negli ambienti di lavoro (Aiello, Deitinger, Nardella 2012). La modifica al D.lgs 626/1994, operata dalla L.39/2002, richiama la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori”, ivi compreso quello dello stress lavoro correlato, ma per un esplicito riconoscimento delle determinanti psicologico-sociali relative alla prevenzione della salute e della sicurezza sul lavoro si è dovuto aspettare l’Accordo quadro europeo sullo stress lavoro correlato, siglato a Bruxelles l’8 ottobre 2004 e recepito in Italia con il D.lgs 81/2008. Lo scopo dell’Accordo europeo è quello di migliorare la consapevolezza e la comprensione dello stress da lavoro da parte dei datori di lavoro, dei lavoratori e dei loro rappresentanti e attirare la loro attenzione sui segnali che potrebbero denotare problemi di stress lavoro-correlato, offrendo anche ad essi un modello che consenta di individuare, prevenire o gestire problemi di stress da lavoro. Nel testo si afferma che “potenzialmente lo stress può riguardare ogni luogo di lavoro e ogni lavoratore, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, dal

(23)

22

settore di attività o dalla tipologia del contratto o dal rapporto di lavoro (art. 1, comma 2).

Lo stress viene inquadrato in una prospettiva psicologica multidimensionale, infatti viene definito come una condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale. In tale Accordo si evidenzia come lo stress lavoro correlato può esser causato da fattori diversi come il contenuto del lavoro, l’inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro, carenze della comunicazione e altro ancora.

L’individuazione di un eventuale problema di stress lavoro-correlato può implicare un’analisi su fattori quali l’eventuale inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione e dei processi di lavoro (disciplina dell’orario di lavoro, grado di autonomia, corrispondenza tra le competenze dei lavoratori ed i requisiti professionali richiesti, carichi di lavoro, etc.), condizioni di lavoro e ambientali (esposizione a comportamenti illeciti, rumore, calore, sostanze pericolose, etc.), comunicazione (incertezza in ordine alle prestazioni richieste, alle prospettive di impiego o ai possibili cambiamenti, etc.) e fattori soggettivi (tensioni emotive e sociali, sensazione di non poter far fronte alla situazione, percezione di mancanza di attenzione nei propri confronti, etc.).

Si intuisce come nella valutazione dei rischi si è costretti a prendere in considerazione una molteplicità di fattori sia oggettivi che soggettivi, utilizzando non soltanto i normali criteri usati per considerare i rischi tecnici (rumore, rischio clinico, biologico ecc..), ma integrando anche conoscenze e metodi delle scienze comportamentali o psicosociali.

Il D.lgs 81/2008 appare ad oggi il passo più significativo compiuto in Italia in materia di stress lavoro correlato. In tale decreto viene attribuito un ruolo fondamentale al concetto di “salute”, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o di infermità”(Oms, 1948).

(24)

23

Nel presente Decreto riveste particolare importanza la valutazione dei rischi, per la quale si intende come sottolineato all’art. 28 “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'accordo europeo dell' 8 ottobre 2004”. Nel D.lgs 81/2008 viene attribuito un ruolo fondamentale alla formazione, vista come un vero e proprio strumento di prevenzione, come misura generale di tutela per i lavoratori e i loro rappresentanti, per i dirigenti e i preposti. Per quanto riguarda le figure cosiddette “della prevenzione” viene ribadito che la formazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione deve riguardare anche i rischi “di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato”. All’art 6 il Decreto istituisce la Commissione Consultiva Permanete sulla salute e sicurezza sul lavoro, con carattere consultivo.

Il successivo D.lgs. 106/2009 attribuisce alla suddetta commissione il compito di elaborare le indicazioni necessarie alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato, tale Commissione ha delineato un percorso metodologico della valutazione articolato in due fasi sequenziali: una fase “necessaria” ed una “eventuale”.

La fase “necessaria” prevede una valutazione preliminare finalizzata alla rilevazione di indicatori di rischio da stress lavoro correlato oggettivi e verificabili. Tali indicatori vengono classificati in tre distinte famiglie: gli “eventi sentinella” (infortuni, assenteismo, turnover, procedimenti disciplinari, segnalazioni del medico competente, lamentele formalizzate dei lavoratori), i fattori di contenuto del lavoro e i fattori di contesto del lavoro.

La fase “eventuale” invece prevede una valutazione approfondita e viene messa in atto nel caso in cui nella prima fase “necessaria” siano state individuate criticità o siano stati messi in atto interventi correttivi non efficaci. La fase di valutazione approfondita è finalizzata a rilevare la percezione soggettiva dei lavoratori sulle tre categorie di indicatori, attraverso una serie di strumenti quali questionari, focus group e interviste semi-strutturate.

(25)

24 1.5. Il burnout come un possibile esito

La sindrome del burnout può essere considerata come possibile esito di un eccessivo stress, prolungato nel tempo e non mediato. Dall’analisi della letteratura è emerso come non esiste ancora oggi una definizione universalmente condivisa del concetto di burnout, tutte le definizioni, seppur in maniera diversa, evidenziano l’esaurimento psicofisico dell’operatore, che poco per volta, perde la capacità di adattamento nel quotidiano confronto con la propria attività lavorativa.

Il termine deriva dal verbo inglese “to burn out” che significa “estinguersi”, “bruciarsi”, “fondersi”, “consumarsi”, in italiano può esser tradotto come “bruciato”, “scoppiato”, “esaurito”.

La parola burnout è emersa negli anni trenta del secolo scorso in lingua inglese nel gergo dell’atletica professionale e di altri sport, per indicare l’atleta che, dopo una serie di successi, non era più in grado di fornire prestazioni agonistiche migliorative o, quanto meno, di mantenere i risultati acquisiti, dunque un atleta promettente che si esauriva e finiva per dare prestazioni al di sotto delle aspettative (Santinello, 1990).

Il termine burnout deriva anche dal gergo della droga e indica la condizione di chi abusa di stupefacenti e si sente bruciato dal loro consumo.

Il primo autore che ha ricondotto questo fenomeno allo stress lavorativo è stato Freudenberger che nel 1974 ha indicato con il termine burnout un determinato quadro sintomatologico individuato in operatori di servizi comunitari particolarmente esposti agli stress di un rapporto diretto e continuativo con un’utenza particolare e fortemente disagiata.

Freudenberger definisce il burnout come “lo stato di esaurimento determinato dall’avere a che fare con altri in situazioni impegnative dal punto di vista emotivo” afferma che il burnout è come “fallire, logorarsi, o essere esaurito dal porre eccessive richieste alle proprie energie, forze o risorse” (Freudenberger, 1980).

(26)

25

Questo termine indica secondo l’autore uno stato di affaticamento o frustrazione nato dalla devozione ad una causa, un modo di vita o una relazione che hanno mancato di produrre la ricompensa attesa.

Pines e Aronson hanno arricchito il quadro sintomatologico della sindrome, sottolineando che, oltre a suscitare sentimenti di impotenza e di vuoto emotivo, il burnout facilita lo sviluppo di un concetto di sé negativo e di atteggiamenti egualmente negativi nei confronti del lavoro, della vita e degli altri (Pines, Aronson 1988).

Cherniss (1983) definisce il burnout come un singolare tipo di risposta ad una situazione lavorativa non positiva che induce l’individuo a comportamenti peggiorativi, non volti a migliorare la situazione di disagio. Rappresenta cioè “una risposta ad una situazione di lavoro intollerabile”, “una ritirata psicologica dal lavoro in risposta ad un eccessivo stress o insoddisfazione”. Il ritiro dell’operatore dal suo lavoro viene visto da Cherniss come una sorta di forma di difesa dinanzi alle condizioni di rischio. Le ricerche sul burnout registrano una significativa spinta grazie ai contributi sperimentali di Christina Maslach, una tra i primi psicologi ad affrontare, in modo sistematico ed approfondito, lo studio del burnout.

Nel 1977 conia il termine “Burnout Syndrome” per riferirsi ad una complessa condizione che aveva osservato con frequenza sempre maggiore nelle helping profession dove, a seguito di un periodo più o meno lungo di impegno elevato gli operatori manifestano apatia, indifferenza, impotenza, nervosismo, irrequietezza e cinismo nei confronti del loro lavoro.

Maslach (1997) definisce il burnout come “una sindrome di esaurimento emozionale, di depersonalizzazione e di riduzione delle capacità personali che può presentarsi in soggetti i quali, per professione, si occupano della gente”. Più specificamente, la Maslach scompone il concetto di burnout in tre fasi:

1) l’esaurimento emotivo, inteso come risposta adattiva disfunzionale dinnanzi alle eccessive richieste dovute al contatto con la gente,

(27)

26

2) la depersonalizzazione, caratterizzata da atteggiamenti di rifiuto nei confronti delle persone che si rivolgono all’operatore,

3) la riduzione delle capacità personali, riferita alla ridotta motivazione al successo e ad una diminuzione della propria autostima e della capacità di affrontare condizioni di fatica del lavoro.

Il primo incisivo contributo al fenomeno del burnout in Italia è stato dato da Contessa (1981) il quale ha definito l’operatore in burnout come “cortocircuitato”, “fuso”, “cotto”, indicando con questo termine quell’operatore che alla domanda se sarebbe disposto ad essere tra dieci anni allo stesso posto a fare lo stesso lavoro, risponde: “preferirei essere morto”.

Secondo Del Rio (1989), il burnout è “una sindrome che coinvolge aspetti psicologici, somatici e comportamentali, presente soprattutto in coloro che svolgono una professione socio-sanitaria o educativa lavorando a diretto contatto con l’utenza in condizioni stressanti e affettivamente coinvolgenti, per tempi prolungati e in modo inadeguatamente protetto e supportato”.

In linea generale tutti questi diversi autori sottolineano come il burnout sia un processo nel quale, un operatore precedentemente dedito alla propria professione d’aiuto, si disimpegna dal proprio lavoro in risposta allo stress derivante dal rapporto con le continue richieste dell’utenza.

Il burnout è infatti una patologia che colpisce prevalentemente i cosiddetti professionisti delll’aiuto, che ad un certo punto possono sentirsi esausti (bruciati) per il continuo contributo emotivo dato e le scarse soddisfazioni che ricavano dal proprio lavoro.

Il termine burnout esprime con una efficace metafora il bruciarsi dell’operatore, il suo cedimento psico-fisico e l’esaurimento delle sue risorse nel tentativo di adattarsi alle difficoltà del confronto quotidiano con la propria attività lavorativa, esprime il malumore, l’irritazione, lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori e in particolare quelli che lavorano a contatto diretto

(28)

27

con l’utenza.

Dunque potremo dire che l’operatore in burnout è il medico che lavora continuamente con gente malata, turbata, arrabbiata e spaventata dalla malattia o dalle sue implicazioni; è l’infermiere che è coinvolto in situazioni emotivamente “brucianti”, sommerso dalle continue richieste pressanti dei pazienti; è l’assistente sociale che vede i suoi utenti ripetere continuamente gli errori contro i quali esso lavora; è l’operatore di un centro antidroga sovraccaricato di casi, sotto pagato, che sente la tentazioni di “evadere” come i suoi utenti; è l’amministratore dei servizi sociali a cui le leggi impediscono di far bene il proprio dovere; è l’assistente spirituale che deve esser fonte di supporto per chiunque in qualsiasi momento gli chieda aiuto; e come queste tante altre professioni che si trovano quotidianamente a contatto con persone bisognose.

I fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza del problema sono in parte legati a caratteristiche individuali e in parte connessi a fattori ambientali, la Maslach dimostra come questa patologia, nonostante colpisca l’individuo, non sia un problema strettamente individuale, ma del contesto sociale con cui l’individuo si rapporta, infatti se l’organizzazione non rispetta, non valorizza, non riconosce la persona, la probabilità che si presenti il burnout cresce. Allo stesso tempo però occorre sottolineare che ogni persona reagisce in maniera diversa alle situazioni stressanti, dunque è importante prendere in considerazione da un lato i fattori individuali; dall’altro i fattori organizzativi.

Per fattori individuali possono esser intese tutte quelle caratteristiche personali che influenzano la vulnerabilità allo stress, come per esempio variabili socio-demografiche quali il genere, l’età o lo stato civile. Per quanto riguarda il genere, le ricerche hanno dimostrato che tra uomini e donne non ci sono significative differenze per l’insorgere del burnout, anche se le donne tendono a sperimentare maggiormente l’esaurimento emotivo a causa del loro più intenso coinvolgimento con le situazioni emotive delle persone con cui lavorano. Per quanto riguarda invece l’età, non c’è accordo tra i vari studiosi, infatti, alcuni ritengono che l’incidenza del burnout sia maggiore nei primi anni di lavoro per la minor esperienza lavorativa e

(29)

28

per una visione più idealistica del lavoro d’aiuto; altri invece dimostrano che la possibilità di sperimentare tale sindrome sia maggiore con il passare degli anni, perché aumentano le energie investite nell’attività sino al loro esaurimento. Altre variabili che possono influire sono lo stato civile e il contesto relazionale di appartenenza, infatti ricerche dimostrano come i celibi e i divorziati sono maggiormente esposti al rischio burnout, rispetto alle persone sposate, questo probabilmente perché la famiglia consente una compensazione affettiva, una sorta di risorsa emozionale di sostegno che aiuta le persone a fronteggiare lo stress lavorativo (Contessa, 1987).

Incidono poi variabili di personalità, le persone più a rischio sono solitamente quelle più deboli, non assertive, sottomesse nei rapporti con gli altri, spesso anche ansiose e timorose, incapaci di controllare la situazione, facilmente soggette a rabbia e frustrazione di fronte agli ostacoli (Maslach, 1987). Altra variabile significativa può esser considerata l’atteggiamento verso il lavoro, soprattutto all’inizio di una carriera quando in genere prevalgono l’entusiasmo, l’idealizzazione, il senso di onnipotenza sulla realtà e la sensazione di poter cambiare il mondo, ma quando ci si rende conto che non è possibile aiutare tutti la motivazione iniziale cede il posto all’insoddisfazione e alla perdita dell’entusiasmo. Anche l’eccessivo coinvolgimento professionale può esser considerato come una possibile causa del burnout.

Come già sottolineato, il burnout non è dovuto solo a fattori individuali e alla presenza di utenti e pazienti difficili, ma anche da tutta una serie di fattori organizzativi, tra cui possiamo citare sovraccarico di lavoro, mancanza di controllo da parte dell’organizzazione, gratificazione insufficiente, assenza di equità e valori contrastanti tra organizzazione e dipendenti.

Allo stadio conclamato la sindrome del burnout si manifesta attraverso tre categorie di sintomi: fisici, psicologici e comportamentali che possono variare sensibilmente da persona a persona.

Tra i sintomi fisici ricordiamo senso di stanchezza e di fatica, disfunzioni gastrointestinali (gastrite, ulcera, colite, stitichezza, diarrea), disfunzioni a carico del sistema nervoso centrale (astenia, cefalea, emicrania), disfunzioni sessuali

(30)

29

(impotenza, frigidità, calo del desiderio), malattie della pelle (dermatite, eczema, acne, afte, orzaiolo), allergie e asma, insonnia e altri disturbi del sonno, disturbi dell'appetito, componenti psicosomatiche di artrite, cardiopatia, diabete (Bernstein, Halaszyn 1999).

L’operatore in burnout si sente stanco, esausto, non riesce ad alzarsi al mattino e affrontare una nuova giornata lavorativa. I sintomi psichici sono quelli principali, investono sia la sfera cognitiva, sia quella emotiva, essi possono essere sintetizzati in depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia e risentimento, indifferenza, negativismo, isolamento, rigidità di pensiero, resistenza al cambiamento, scarsa empatia e capacità d’ascolto, irritabilità e alterazione dell’umore.

I sintomi comportamentali possono invece esser considerati come reazioni negative verso sé stessi, verso il lavoro e verso la vita in generale. Alcuni esempi possono essere alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, assenteismo, ritardi continui, tendenza a rimandare o evitare i contatti con gli utenti e i colleghi, distacco emotivo e talvolta cinismo nei confronti del proprio lavoro e dell’utente a carico, incapacità di concentrarsi e di ascoltare, perdita dell’autocontrollo, reazioni emotive violente e impulsive verso utenti e/o colleghi, tabagismo e assunzione di sostanze psicoattive (alcool, psicofarmaci, stupefacenti).

Maslach e Leiter affermano che “il burnout può avere conseguenze deleterie che vanno ben oltre alla sua azione corrosiva dell’anima. Può essere nocivo per la nostra salute, per la nostra capacità di affrontare gli eventi e per il nostro stile di vita personale. Può inoltre condurre ad un vero e proprio deterioramento nella nostra prestazione lavorativa. Tutti questi costi non coinvolgono noi soltanto, ma vengono pagati da chiunque sia in qualche modo legato a noi, sul lavoro e a casa (Maslach, Leiter 2000).

Per concludere è bene precisare che stress e burnout sono due concetti che se anche all’apparenza potrebbero esser confusi in realtà sono ben diversi tra loro, lo stress contribuisce a determinare l’insorgere del burnout, ma non coincide con esso, piuttosto il burnout ne costituisce un possibile esito in presenza di determinate condizioni (Del Rio, 1990).

(31)

30

Capitolo Secondo

CAUSE ED EFFETTI DELLO STRESS LAVORO CORRELATO

2.1. Caratteristiche potenzialmente stressanti del lavoro

Fino a qualche anno fa le patologie collegate al lavoro sono state considerate principalmente di natura monofattoriale, in particolare si ritiene che esse fossero causate prevalentemente dall’esposizione a rischi fisici quali per esempio: polveri, gas, fumi, rumori.

In tempi più recenti si è arrivati a comprendere che le patologie legate al lavoro possono avere una genesi multifattoriale, è aumentato dunque notevolmente il ventaglio dei rischi connessi al lavoro, non si tratta più solo di pericoli fisici, ma di rischi anche di altra natura. Da qui la necessità di ampliare il campo di interesse introducendo inevitabilmente una valutazione dei rischi psicosociali correlati al lavoro.

In letteratura i rischi psicosociali sono stati definiti come “quegli aspetti di progettazione del lavoro e di organizzazione e gestione del lavoro, nonché i rispettivi contesti ambientali e sociali che potenzialmente possono arrecare danni fisici o psicologici” (Cox e Griffiths, 1995).

La maggior parte dei rischi fisici è misurabile in modo oggettivo con un buon grado di affidabilità e validità, dunque essi possono considerarsi di più facile valutazione e gestione rispetto ai rischi psicosociali. Gli aspetti psicologici legati al lavoro sono stati oggetto di ricerca fin dagli anni’50 del secolo scorso, ma inizialmente l’attenzione degli psicologi si è concentrata principalmente sulle difficoltà di adattamento dell’uomo al lavoro, solo a partire dagli anni ’60, con l'affermarsi delle ricerche psicosociali sull’ambiente di lavoro e della psicologia del lavoro, l’interesse si è progressivamente spostato verso l’analisi delle caratteristiche

(32)

31

degli ambienti lavorativi potenzialmente dannosi per l’uomo.

Le determinanti dello Stress Lavoro Correlato sono state ampiamente trattate in maniera diversa a seconda della prospettiva teorica di riferimento. Punto di partenza comune è la convinzione secondo la quale per analizzare tali determinanti occorre sempre partire dalla relazione tra individuo e organizzazione, in quanto, come afferma Avallone (2011) “lo stress non risiede né nella persona né nell’ambiente, ma nella relazione tra i due”.

Esiste attualmente una vasta gamma di caratteristiche del lavoro definite come “stressogene”, dunque potenzialmente dannose per l’individuo.

In letteratura esistono diverse classificazioni dei fattori di rischio psicosociali, nella presente trattazione si fa, più nello specifico, riferimento alla classificazione proposta dall’European Agency for Safety and Health at Work (2000) (Tavola 1), essa riporta al suo interno caratteristiche sia relative al contesto che ai contenuti specifici del lavoro, dunque vengono analizzati sia aspetti di natura più meramente tecnico-strutturale come “l’ambiente di lavoro e le attrezzature”, sia aspetti relativi alla gestione delle risorse umane come lo “sviluppo di carriera e il ruolo nell’organizzazione”, sia aspetti di carattere relazionale come “relazioni interpersonali sul lavoro”.

(33)

32

Tavola 1: Caratteristiche stressanti del lavoro

RISCHI LEGATI AL CONTESTO DEL LAVORO

CATEGORIA Condizioni di definizione del rischio

Cultura organizzativa

Scarsa comunicazione, livelli bassi di appoggio per la risoluzione dei problemi e per

lo sviluppo personale Ruolo nell'ambito

dell'organizzazione

Ambiguità e conflitto di ruolo

Evoluzione della Carriera Promozioni eccessive o insufficienti, retribuzione bassa, insicurezza dell'impiego Autonomia decisionale e

controllo

Partecipazione ridotta al processo decisionale, mancanza di controllo sul lavoro Rapporti interpersonali sul

lavoro

Isolamento fisico o sociale, rapporti limitati con i superiori, conflitto interpersonale Interfaccia Casa-Lavoro Richieste contrastanti tra casa e lavoro, scarso

sostegno in ambito domestico RISCHI LEGATI AL CONTENUTO DEL LAVORO

CATEGORIA Condizioni di definizione del rischio Ambiente di lavoro e

attrezzature

Indisponibilità, inaffidabilità e scarsa manutenzione di strutture e strumenti di

lavoro

Pianificazione dei compiti

Monotonia, ripetitività, cicli di lavoro brevi, lavoro frammentato o inutile, sottoutilizzo

delle capacità

Carico e ritmo di lavoro

Carico di lavoro eccessivo o ridotto, mancanza di controllo su ritmo, livelli elevati

di pressione in relazione al tempo

Orario di lavoro

Lavoro a turni, orari non flessibili, imprevedibili o lunghi, mancanza di controllo

sugli orari di lavoro Fonte: European Agency for Safety and Health at Work, 2000

(34)

33 2.1.1. Rischi Psicosociali legati al Contesto

Cultura organizzativa

La cultura organizzativa è un costrutto che definisce la personalità dell’organizzazione e influisce sulla percezione che il lavoratore ha della stessa e nella determinazione del suo senso di appartenenza ad essa. Funzione e cultura organizzativa generalmente vengono veicolate e trasmesse dallo stile della leadership e dal comportamento adottato dai dirigenti. La mancanza di una codificazione delle procedure di lavoro, l’assenza di un definito organigramma aziendale, una scarsa comunicazione interna, la mancanza di definizione delle mansioni e degli obiettivi organizzativi, bassi livelli di possibilità di sviluppo personale e scarso appoggio per la risoluzione dei problemi possono essere considerati come elementi del clima aziendale che favoriscono lo stress dei lavoratori.

Ruolo nell’organizzazione

Il ruolo può esser inteso come l’insieme delle aspettative che le persone hanno su un individuo e sulla posizione che ricopre all’interno dell’organizzazione, esso specifica il livello, i compiti e le mansioni lavorative del soggetto.

Il ruolo nell’organizzazione può costituire un fattore di rischio psicosociale quando c’è: “ambiguità” o “conflitto” di ruolo.

L’”ambiguità di ruolo” si verifica tutte le volte in cui all’interno di un’azienda vi è assenza di chiarezza sui compiti e le mansioni che ciascun membro, dall’operatore al dirigente, è chiamato a svolgere. Un errore spesso commesso in questo senso è quello di credere che un ruolo nell’organizzazione “si delinea da se”, purtroppo questo spesso non accade, neanche nelle realtà più piccole. C’è dunque bisogno di definire in maniera chiara e formalizzata i ruoli nelle organizzazioni al

Riferimenti

Documenti correlati

La metodologia Inail, seguendo le indicazioni della Commissione consultiva permanente consente di effettuare la valutazione del rischio stress lavoro-correlato per gruppi omogenei

La campagna Ambienti di lavoro sani e sicuri è organizzata dall'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) in collaborazione con gli

- grazie alla validazione su oltre 26.000 lavoratori nel Regno Unito e oltre 6.300 in Italia, permette al datore di lavoro ed al “gruppo di gestione della valutazione”, attraverso

[r]

La Lista di controllo proposta nella metodologia Inail per la fase di valutazione prelimi- nare è frutto di una revisione critica della proposta del network nazionale per la

L’oggetto della valutazione dello stress lavoro correlato è l’organizzazione del lavoro: gli elementi che possono costituire fattori di stress e la loro percezione da

Dal 1° gennaio 2011 i datori di lavoro pubblici e privati hanno l’obbligo di esaminare le fonti di rischio da stress e di inserirle nella valutazione del rischio aziendale

Il prodotto così come realizzato ed illustrato nella presente pubblicazione, pertanto, oltre a fornire al datore di lavoro le modalità per effettuare la valutazione, e la