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Le CdP come spazio di costruzione dell’identità

3. La Formazione riflessiva

3.4 Le CdP come spazio di costruzione dell’identità

Una comunità non è di per sé una comunità di pratica se non sono presenti alcune caratteristiche: come abbiamo visto, la pratica diventa un elemento, per così dire, “aggregante” della comunità (Alessandrini, 2007). Nell’elaborazione di Wenger, (1991, op. cit.), si possono tracciare tre dimensioni che costituiscono i tratti distintivi e costitutivi di una comunità di pratica e che delineano la pratica come fonte di coerenza di una comunità: 1) “impegno reciproco”; 2) “intrapresa comune”; 3) “repertorio condiviso” (Ivi, pp. 72-73).

1. Impegno reciproco: si tratta di un’interazione all’interno della comunità che si manifesti in discussioni, attività in comune, aiuto reciproco. La condivisione d’interessi, pur fondamentale, non è comunque sufficiente per l’esistenza di una comunità di pratica: sono cruciali l’aspetto interattivo e un impegno condiviso nell’attività comune. Ciò che definisce quindi l'appartenenza ad una comunità è, quindi, un patto di impegno reciproco, supportato da intense relazioni intorno ai compiti da svolgere. La pratica non esiste in astratto e l’impegno reciproco richiede interazioni continue (Lave e Wenger, 1991).

2. Impresa comune: si riferisce ad un’identità che deriva dalla dedizione e lealtà dei suoi aderenti (commitment) nei confronti della comunità; con queste premesse, la comunità acquisisce una competenza collettiva e i suoi membri imparano gli uni dagli altri, nella consapevolezza di partecipare ad un’impresa comune. La responsabilizzazione diventa parte integrante della pratica: il processo è sia “generativo” che “vincolante”. 3. Repertorio condiviso: indica “un set di risorse condivise dalla comunità

per enfatizzarne il carattere sperimentato e la disponibilità per un ulteriore coinvolgimento nella pratica” (ivi, p.83). Il repertorio condiviso è quindi l’insieme, formato nel tempo, di linguaggi, routine d’azione, storie, valori strumenti ed oggetti “specifici” che caratterizzano il gruppo come comunità e “fissano”, rendendo così riconoscibili le conoscenze,

l’esperienza e la storia stessa della comunità.

Le comunità di pratica sono, dunque, “gruppi di persone che condividono un interesse per qualsiasi cosa fanno e che interagiscono con regolarità per imparare a farlo meglio” (Wenger, 2000, p.11-34), gruppi d’individui, cioè, che condividono esperienze e, attraverso questo processo d’interazione, apprendono sia come soggetti sia come parte di gruppi sociali.

La cooperazione costante definisce un certo grado d’intensità e ricorrenza di consuetudini relazionali (scambi negoziati, transazioni e stipulazioni sulle azioni e sul loro significato); questo consente ai partecipanti la possibilità di sentirsi professionisti che comunicano intensamente, costruendo identità e repertori condivisi.

Il tema dell’identità appare strettamente connesso a quello della comunità in quanto parte integrante di una teoria sociale dell'apprendimento.

L'attenzione posta sulla comunità mette in risalto il problema della non partecipazione e partecipazione, dell’esclusione e dell’inclusione degli attori di una comunità (Alessandrini, 2007). Il tema dell’identità può essere connotato e interpretato secondo diversi ambiti disciplinari. Il carattere relazionale e intersoggettivo dell’identità è oggetto di studio delle scienze sociali che, nel tempo, ne hanno approfondito la genesi e lo sviluppo.

L'ambito antropologico si è invece interessato di più all’identità come “costruzione sociale” e prodotto storico, mentre Erikson - sviluppando un’idea freudiana - ha per primo focalizzato il tema dell’identità con sistematicità; lo sviluppo del senso soggettivo di continuità personale dipende dalla possibilità per l’individuo di essere riconosciuto dal gruppo per la propria identità. Correnti diverse come l’interazionismo simbolico, la teoria dei ruoli sociali di Merton (1949), l’approccio “parsoniano” ha fornito altresì importanti contributi allo studio di processi identitari.

Per quanto in modo non esplicito, anche Wenger si ricollega alle ricerche centrate sulla visione dell’identità, intese come risultato dinamico dei processi di mediazione sociale. La costruzione dell’identità consiste nel negoziare i significati del nostro agire in quanto membri di una comunità (Wenger, 2006, ed. or. 1998).

«Tutti noi abbiamo le nostre teorie e i nostri modi di intendere il mondo, e le nostre comunità di pratica sono luoghi in cui li sviluppiamo, li negoziamo e li condividiamo» (Wenger, 2006, op. cit., p. 60).

La comunità di pratica nasce proprio dalla condivisione di quel “fare significativo” che è la pratica. Attraverso il costante significare le cose del mondo, si va a definire e ridefinire continuamente la nostra identità, che può essere vista come una linea lungo la quale si sviluppa in divenire il nostro apprendimento.

“In quanto traiettorie, le nostre identità incorporano il passato e il futuro nel processo di negoziazione del presente, danno significato agli eventi in relazione al tempo inteso come estensione del Sé. Mettono a disposizione un contesto in cui stabilire quali cose, fra tutte quelle potenzialmente significative, si trasformano in apprendimento significativo. La percezione di trovarci su una traiettoria ci permette di stabilire cosa conta e cosa non conta, cosa contribuisce alla nostra identità e cosa rimane marginale”(Wenger, 2006, op. cit. p.180).

Come abbiamo visto ( cfr. 3.3.2), la partecipazione e la reificazione sono i due dispositivi che, secondo il modello euristico di Wenger, generano apprendimento. La partecipazione è alla base dell’apprendimento ed è anche l’origine della comunità, dell’identità, della pratica e della negoziazione del significato. Con il termine “partecipazione” si fa riferimento al divenire parte attiva di una comunità sociale, i cui membri sono accomunati dalla medesima pratica. La partecipazione fa dunque riferimento al fare ma soprattutto all’essere, contribuendo a costruire l’identità della persona in relazione alla comunità di appartenenza: è il nostro modo di essere nel mondo e che dà significato a ciò che facciamo.

Per reificazione, Wenger intende invece il processo tramite il quale i nostri significati vengono proiettati nel mondo, assumendo per noi una realtà loro propria. Se, attraverso la partecipazione, può avvenire il riconoscimento reciproco tra i membri della comunità di pratica, attraverso la reificazione essi proiettano se stessi sul mondo e tale proiezione assume vita propria, indipendente dai nostri significati.

Il prodotto della reificazione assume un ruolo fondamentale nel processo di negoziazione di significato; infatti, nel momento in cui esso (il prodotto della reificazione) appare “materializzato” in un concetto, in una norma, in un simbolo o in una storia, quel significato diviene qualcosa di modificabile, dando la possibilità ai membri della comunità di pratica di negoziare altri significati.

processi analoghi. Si dà forma a una certa idea. Questa forma diviene poi un centro di riferimento per la negoziazione di significato, visto che la gente usa la legge per sostenere una tesi, usa la procedura per sapere cosa fare o impiega lo strumento per fare un lavoro. Intendo dire che il processo di reificazione così costruito è fondamentale per tutte le pratiche. Qualunque comunità di pratica produce astrazioni, strumenti, simboli, storie, termini e concetti che reificano un qualche aspetto di quella pratica in forma consolidata” (Wenger, 2006, op. cit., p.72).

La partecipazione e la reificazione sono strettamente interconnesse. Se da un lato occorre la nostra partecipazione per produrre, interpretare e usare la reificazione, dall’altra, “la nostra partecipazione richiede l’interazione e quindi genera scorciatoie che conducono a significati coordinati, i quali riflettono le nostre iniziative e le nostre visioni del mondo; dunque non c’è partecipazione senza reificazione” (Wenger, 2006, op. cit. p.80).

La nostra identità come individui non può dissociarsi dalla nostra identità come membri di una comunità; in questo senso, se l’identità può essere vista come punto d’incontro tra il sociale e l’individuale, la formazione di una comunità di pratica diviene piuttosto un processo di negoziazione dell’identità.

Le nostre esperienze e le relative interpretazioni sociali si modificano grazie all'identità, quale risultato di un intreccio di esperienze di partecipazione e di proiezioni continuamente elaborato nella pratica. “Sappiamo chi siamo in base a ciò che è familiare, comprensibile, usabile, negoziabile, sappiamo chi non siamo in base a ciò che è estraneo, opaco, disagevole, improduttivo” (Wenger, 2006, op. cit. p. 89).

L’identità è vista come una stratificazione di eventi finalizzati alla partecipazione e alla reificazione: esperienza e relativa interpretazione sociale si “informano” a vicenda (Alessandrini, 2007). Sembra utile approfondire anche il concetto di confine di cui l’identità necessita e che viene ampiamente trattato da Wenger (1998).

Il concetto di confine, anche rispetto all’idea di traiettoria (come percorso che implica movimento e non un percorso predefinito), è strettamente correlato a quello d’identità: le nostre identità sono viste come dimensioni che creano traiettorie sia all’interno che tra le comunità di pratica (Wenger, 1998, op. cit.).

possibili, di diversa tipologia:

- periferiche (esse non portano a una piena partecipazione);

- dirette verso l’interno (identificabili come quelle dei neofiti che, entrando nella comunità, intendono diventare “partecipanti” a pieno titolo);

- interne (tendono a rinegoziare la propria identità);

- di confine (orientate a superare i confini e il collegamento tra le comunità di pratica);

- dirette verso l’esterno (sono processi di spostamento verso nuove relazioni).

L'identità infine è intesa anche come nesso di multiappartenenza: ogni attore sociale è membro e practitioner di più comunità. Ognuno di noi può far parte di diverse comunità di pratica avendo pertanto diverse esperienze dei confini: «la multiappartenenza è l’espressione vivente dei confini» (Wenger, 2006).

Le comunità di pratica organizzano le proprie interconnessioni grazie ad alcuni oggetti di confine che facilitano il compito; si tratta di “artefatti”, documenti, forme di reificazione intorno alle quali le comunità creano le loro interconnessioni. Si possono poi venire a determinare alcuni sostanziali fattori di intermediazione ovvero “connessioni”, messe a disposizione da persone che possono introdurre fattori ed elementi di una pratica in un’altra pratica (Wenger, 2006). Di particolare interesse è il tema sugli oggetti di confine in quanto richiama la progettazione degli artefatti. Un attore sociale che utilizza un artefatto diventa a tutti gli effetti anche un membro di una comunità di pratica.

Ognuno di noi attraversa i confini di diverse comunità, dando il proprio contributo nella negoziazione di significato all’interno delle diverse pratiche. Le pratiche di confine hanno l'importante compito “ di gestire i confini riconciliando le posizioni e trovando soluzioni” (Wenger, 2006, ed. or. 1998). Gli stessi corsi di formazione potrebbero essere identificati come pratiche di confine, in quanto luogo in cui le comunità, che operano in ambiti diversi, comunicano tra di loro, indipendentemente dai confini specifici che caratterizzano il loro ambito di attività.