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Analizzare le modalità di rappresentazione del virus nei media cinesi è essenziale per una migliore comprensione dello stigma sociale che ancora affligge i sieropositivi in Cina. I media hanno il potere di amplificare e sottolineare l’entità morale degli eventi e, di conseguenze, di influenzare l’opinione comune riguardo un certo argomento. Il Governo cinese e il Pcc hanno sempre sfruttato a proprio Joyce, MANDANCY, “Opium trade and opium suppression in late Qing and early republican

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Fujian”, Modern China, 27:4, 2001, pp. 436-483.

Nicoletta, PESARO, “Letteratura cinese moderna e contemporanea”, Guido Samarani e

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Maurizio Scarpari (a cura di), La Cina, vol. III (Verso la Modernità), Torino, Einaudi, 2009, pp. 693-745.

Suisheng, ZHAO, “Chinese intellectuals’ quest for national greatness and nationalistic writing in

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vantaggio questa capacità coercitiva dei mezzi di comunicazione di massa al fine di educare le masse riguardo cosa sia reale e cosa no, cosa sia autentico e cosa sia alieno. Nel caso dell’HIV/AIDS i media cinesi non hanno solo riportato le notizie riguardanti il virus, ma hanno anche contribuito a determinare la problematica dell’AIDS nella società. 107

Il fallimento del discorso dominante cinese nella prevenzione dell’HIV/AIDS sta proprio nella convinzione che non si trattasse di una problematica interna alla Cina. Il riportare notizie sull’epidemia di HIV/AIDS solo ed esclusivamente tra le notizie internazionali e come malattia occidentale, sviluppò la sensazione che in Cina fosse impossibile entrare in contatto con una persona affetta da HIV. Questa errata consapevolezza della popolazione generale venne senza dubbio rinforzata dalle politiche attuate dal Governo cinese tra il 1985 e il 1990. Come detto in precedenza, i primi provvedimenti vennero emanati con l’intenzione di bloccare l’ingresso del virus. Le iniziative del Governo, insieme con l’azione dei media, produssero la nozione di presunta distanza e immunità per il solo fatto dell’essere cinesi. 108

Nella prima fase della storia di diffusione dell’HIV/AIDS, la questione venne posta quasi esclusivamente sul piano ideologico. Il virus divenne la conseguenza di un comportamento deviato e immorale. L’uso di droghe, la prostituzione, l’omosessualità e un comportamento sessuale promiscuo diventarono le uniche cause dell’HIV e gli stranieri omosessuali, i tossicodipendenti e i lavoratori del sesso diedero il volto alla malattia. A causa della monotematica rappresentazione dei media, si vennero a creare una serie di stereotipi legati alla modalità di trasmissione del virus. Il messaggio sottinteso che i media sembravano voler 109

comunicare era la possibilità di controllare l’epidemia rifuggendo dai comportamenti a rischio. Se da una parte questa tecnica può effettivamente aiutare al contenimento dell’epidemia, tuttavia non è sufficiente se non accompagnata da una profonda comprensione delle modalità di trasmissione e da una solida informazione volta a educare piuttosto che reprimere.

Dong, DONG, Tsan Kuo, CHANG, Dan, CHEN, “Reporting AIDS…”, 2008.

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Haiqing, YU, “Governing and representing HIV/AIDS…”, 2012.

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Chunbo, REN, Stacey J.T., HUST, Peng, ZHANG, “Chinese newspapers’ coverage of HIV…”,

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Inoltre, si insinuò la percezione che l’HIV/AIDS fosse la conseguenza di uno stile di vita poco ortodosso. Seguendo la logica secondo la quale ogni individuo detiene la possibilità di scegliere per sé come comportarsi, il fatto di aver compiuto azioni rischiose, immorali e deviate diventa di conseguenza unicamente una sua responsabilità.

Oltre a sottendere, con questa logica, la solitudine alla quale è destinato l’individuo malato, nella narrazione dell’AIDS tra il 1985 e il 1990 non compare nessun segno di pietà o compassione e il virus viene raccontato come il risultato della scelta individuali di seguire un comportamento a rischio. La colpevolezza dei sieropositivi si annidò nell’immaginario collettivo senza tenere conto del contesto sociale, del background familiare, economico e culturale degli individui che vennero raggruppati in masse indistinte e stereotipate. I malati di AIDS divennero i responsabili del loro stesso stigma. Il forte giudizio morale proposto dai discorsi ufficiali fomentò la stereotipizzazione, l’isolamento e la discriminazione dei sieropositivi. L’AIDS divenne la malattia della vergogna, una malattia barbara. 110

La dicotomia we vs. others si focalizzava, dunque, sullo stile di vita: la moralità divideva others dal resto della società e we, la Cina e la popolazione Han, dai gruppi a rischio e dal resto del mondo. Da quanto discusso fino ad ora, risulta chiaro come l’ideologia dominante di quel periodo fosse legata al concetto di othering, la rappresentazione di una problematica attraverso la costruzione e l’immagine dell’altro diverso da sé. L’individuazione di gruppi specifici come rappresentanti 111

dell’HIV/AIDS permise il distanziamento della Cina e della popolazione Han dall’epidemia. Le politiche ufficiali che prevedevano l’isolamento e la quarantena non fecero altro che aumentare questo stigma. Inoltre, i provvedimenti governativi insieme con l’ignoranza circa le modalità di trasmissione del virus diedero alla popolazione generale l’idea che il virus potesse essere contratto anche sono stringendo la mano di un sieropositivo o, addirittura, respirando la stessa aria. Se da una parte il panico identificò l’HIV/AIDS come altamente contagioso e infettivo, la costante rappresentazione del virus come esogeno garantì alla

Guomei, XIA, HIV/AIDS in China, 2004.

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Johanna, HOOD, “Distancing disease in the un-black…”, 2013.

popolazione una presunta tranquillità: l’AIDS non era qualcosa che li riguardava. 112

Un’ulteriore identificazione dell’HIV/AIDS venne data dalla geografia: tra il 1985 e il 1990, la narrazione riguardante il virus viene associata quasi esclusivamente agli stranieri e viene rappresentato unicamente in altri paesi. Di conseguenza, oltre alla distanza morale e ideologica, i cinesi svilupparono la percezione di essere fisicamente e geograficamente lontani dall’HIV/AIDS e quindi risultava impensabile anche solo entrare in contatto con un sieropositivo. In questa fase l’AIDS non viene solo associato a determinate categorie sociali, ma anche a determinati luoghi. La localizzazione del virus caratterizzerà anche la rappresentazione dell’HIV/AIDS negli anni successivi, quando la problematica non potrà più essere considerata esclusivamente come estera. In particolare, verrà fatto riferimento allo Yunnan, luogo del primo focolaio nazionale e successivamente allo Henan e ai così detti “villaggi dell’AIDS” 艾滋村 (aizibing cun), dove l’epidemia colpì i venditori di sangue e di plasma. 113

La mistificazione della realtà, la stereotipizzazione dei sieropositivi e l’isolamento delle categorie a rischio diedero vita a una nuova classe sociale composta dalle persone che avevano contratto il virus a causa di un comportamento socialmente inaccettabile. Questa categoria venne definita con i nomi l’altro 他者 (tazhe), svantaggiati 弱势群体 (ruoshi qunti), sottoclasse 底层 (diceng), popolo dell’AIDS 艾民 (aimin). In aggiunta, attraverso la 114

rappresentazione nei media, i cinesi identificarono queste categorie come il capro espiatorio, un’entità da colpevolizzare per aver portato in Cina, in una società moralmente superiore, una piaga mortale.

Johanna, HOOD, “HIV/AIDS and shifting urban…”, 2012.

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Sandra Teresa, HYDE, Eating Spring Rice, 2007.

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Haiqing, YU, “Governing and representing HIV/AIDS…”, 2012.