• Non ci sono risultati.

LE MORTALITÀ SUBALTERNE (NOTE AI MARGINI) AUTOPSIE IDEOLOGICHE

GLI ANNI ’80 E LE TECNOLOGIE DEL CADAVERE

3.4. LE MORTALITÀ SUBALTERNE (NOTE AI MARGINI) AUTOPSIE IDEOLOGICHE

In American Psycho, Ellis costruisce una complessa mappatura segnica che, in maniera indiretta, ripercorre i dibattiti sullo status del cadavere e sulla sua usabilità all’interno dei sistemi scientifici e legali, condotti dalla scienza medica durante i primi anni ’80. Costruito secondo un meccanismo di rimandatività progressiva dei significanti, il romanzo produce una ricapitalizzazione del ruolo semiotico del cadavere all’in- terno della mimesi dell’intero testo, mettendo radicalmente in discus- sione, in questo modo, l’autorità del soggetto narrante (e significante) e ribaltandola clamorosamente. Non è più il protagonista del romanzo l’artefice dei processi di significazione in gioco nel testo, ma le sue vitti- me, i cui corpi, deprivati della loro capacità di produrre sapere, parte- cipano della complessa economia di dispersione e slittamento dei si- gnificati che costruisce il testo sociale del discorso storico e medico- giuridico dell’epoca, realizzando una frattura al suo interno, cifra apo- retica dell’indecidibilità semiotica del testo stesso.

Per quanto centrale e oggetto di una densa testualizzazione e trasla- zione su un piano narrativo, tuttavia, nell’economia simbolica del ro- manzo il ruolo della morte e del cadavere non è solo quello della pura rifrazione metaforica di una serie di processi sociali e medico-giuridici in atto negli Stati Uniti degli anni ’80. In un ulteriore processo di resa autoreferenziale del testo, infatti, è l’intera modalità linguistica dell’o- pera a replicare, sul piano immanente della sua articolazione retorica, quanto il discorso scientifico stava elaborando sullo status del cadave- re. L’inversione di rotta che proprio in quegli anni si registrava nel di- scorso medico sulla morte e sul cadavere è riprodotta con la modalità semiotica che caratterizzava pure l’operazione di interruzione e arresto

dei processi di significazione, propria di American Psycho in quanto macchina linguistico-retorica.

Risale a soli tre anni prima dell’uscita di American Psycho un testo, “Can the Subaltern Speak?”, nel quale un cadavere viene chiamato ad assolvere una funzione, storica e testuale, assai simile a quella attuata dei corpi del romanzo di Ellis. Gayatri Spivak, la nota studiosa benga- lese trapiantata negli Stati Uniti e autrice della traduzione inglese di De

la Grammatologie di Jacques Derrida, cercava proprio in quegli anni di

realizzare una saldatura tra la prassi del pensiero decostruttivo di ma- trice derridiana e la critica postcoloniale, ricorrendo, nell’articolazione critica dei suoi testi, a una modalità argomentativa (e decostruttiva) che utilizza la rimandatività dei significanti per interrompere il mecca- nismo univoco di significazione della prassi narrativa e retorica della storiografia (se non addirittura dello storicismo) occidentale. Nell’ar- chitettura segnica delle due opere in questione, i cadaveri svolgono un ruolo decisivo sia per l’economia formale e strutturale complessiva dei testi, sia perché, appropriandosi delle pratiche discorsive che la scien- za medica e la prassi giuridica stavano producendo in quegli anni, le ri- codificano come insieme di coordinate semiotiche intimamente legate ai testi stessi. Una medesima congiuntura, insieme storica e testuale, si realizza nel ricorso al cadavere come tropo in grado di racchiudere e di problematizzare pratiche discorsive eterogenee e tuttavia espresse in un momento significativo della storia politica e intellettuale americana.

“Can the Subaltern Speak?”, pubblicato nel 1988 e ormai diventato una pietra miliare degli studi postcoloniali, segna un momento cruciale nella lettura della storia coloniale indiana attraverso un meccanismo re- torico che, muovendo dal concetto gramsciano di subalternità, mette in discussione il principio di autorità logocentrica e politica alla base della storiografia coloniale, insistendo proprio sulla complessità e sull’ingan-

nevolezza dei sistemi di rappresentazione sui quali esso si basa.28Il con-

cetto di subalternità deriva da un meccanismo negativo e differenziale che insiste, in definitiva, sulla consapevolezza della diversità collettiva dei soggetti subalterni rispetto alle altre classi sociali (Spivak 1988, 284), piuttosto che sulla possibilità di definire la subalternità in termini autonomi. “Can the Subaltern Speak?” può essere letto nel suo com- plesso come un tentativo di tracciare le basi teoriche di una ragione po- stcoloniale il cui nucleo essenziale è individuato nella divisione interna- zionale del mercato del lavoro, produttiva di differenza tra il vecchio colonialismo, basato sulla contrapposizione tra occidente europeo e oriente, e il nuovo colonialismo, realizzato dai nuovi processi economi-

ci e basato sulla contrapposizione tra nord e sud del mondo.29

A stravolgere l’univocità significante della storiografia coloniale, mettendo in luce le dinamiche storiche e linguistico-discorsive che con- sentono a Spivak di teorizzare la subalternità e, in questo modo, di tra-

durre la prassi filosofica della decostruzione nella rilettura di un testo storico e sociale, è proprio un cadavere, quello di Bhuaneswari Bhadu- ri, l’ultimo, vero protagonista del saggio. Se, per certi aspetti, American

Psycho funziona come un trattato di decostruzione sui generis, “Can

the Subaltern Speak?”, da parte sua, assume l’aspetto di un grandioso e complesso thriller, abilmente costruito da Spivak attraverso un artico- lato meccanismo di disseminazione di elementi apparentemente non legati tra loro, che insistono sulla natura testuale della documentazione storica e sulla modalità attraverso cui la storiografia costruisce i sogget- ti, conferendo loro l’autorità non solo di mediare la narrazione degli eventi ricostruiti, ma pure di ribaltarne la tessitura retorica in base ai paradigmi ideologici nei quali ogni narrazione viene inscritta. Spivak costruisce un’architettura testuale assai densa ed elaborata, che parte da premesse apparentemente lontanissime (relative ai concetti di pote- re, desiderio e interesse in Foucault e Deleuze), e che si sostanzia in un’articolata rilettura de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Marx. Il merito di Marx va individuato, tra le altre cose, nel rifiuto di racchiude- re la subalternità in un soggetto unitario, preferendogli, al contrario, una narrazione dislocata e frammentata: “both in the economic area (capitalist) and in the political (world-historical agent), Marx is obliged to construct models of a divided and dislocated subject whose parts are not continuous or coherent with each other” (Spivak 1988, 276).

Il concetto di morte e quello di subalternità sembrano incontrarsi, nel testo spivakiano, in maniera puramente tangenziale e contingente, senza che la presenza del suicidio della protagonista costituisca di per sé un punto cruciale dell’argomentazione. Tuttavia la stessa autrice, dovendo riassumere l’argomento di “Can the Subaltern Speak?” in un’intervista rilasciata nel 1990, si è così espressa:

Bhuvaneswari Bhaduri, hanged herself, she decided “OK, I’m hanging myself because I can’t kill the enemy of India, but, on the other hand, when I hang myself, people will think it’s because I’m illicitly pregnant, I’m a woman and I can’t stand for that either. I’ll wait three days, I’ll menstruate, I’ll leave a letter – I don’t want to jeopardize the organiza- tion – I’ll leave a letter for my sister to be opened fifteen years after my death”. (Winant 1990, 89)

La morte di Bhuvaneswari Bhaduri arriva alla fine del saggio, a conclu- sione di quell’esercizio di riscrittura del testo coloniale che rappresen- ta la causa sostanziale e la ragione ultima di “Can the Subaltern Speak?” fin dalle sue prime battute. L’episodio a cui Spivak fa riferi- mento era accaduto a Calcutta nel 1926; la protagonista, una ragazza di sedici anni, apparteneva a un gruppo armato che lottava per l’indipen- denza dell’India. L’operazione testuale spivakiana, elaborata riscrittu-

ra del dato storico a partire dal corpo morto di Bhuaneswari, può esse- re letta come un esempio di ‘autopsia ideologica’, generata dalla neces- sità di rispondere, attraverso la storia personale, all’ideologia dell’im- perialismo e alle sue narrazioni.

Una lunga parte del saggio è però dedicata da Spivak alla discussione del tema della sati, il rituale tradizionale secondo cui la vedova indiana doveva essere bruciata sullo stesso rogo funebre del marito, abolito nel 1829 dalla legislazione coloniale britannica. Spivak prende in esame le pratiche discorsive dell’imperialismo, contrapponendole all’atteggia- mento ‘nativista’, che, senza soffermarsi sulla reale articolazione delle dinamiche storiche, tende a giustificarne la versione più comunemente contrabbandata: da una parte la visione imperialista considera l’aboli- zione della sati un atto attraverso cui “white men [are] saving brown women from brown men” (Spivak 1988, 297); d’altro canto, l’atteggia- mento nativista viene riassunto secondo il principio che “[t]he women actually wanted to die” (Spivak 1988, 305). Spivak condanna entrambe queste affermazioni, sottolineando la loro complicità con la stabilizza- zione del potere imperiale inglese, che se da un lato trovava un suo pun- to di forza nell’esaltazione della missione civilizzatrice dell’occidente, aveva pure bisogno di una descrizione convenzionale e tassonomica della mentalità indiana, invocando in maniera arbitraria una presuppo- sta e fittizia etica della donna indiana. Nella lettura spivakiana, il testo sociale prodotto dal suicidio della vedova indiana viene riscritto nella cronaca del suicidio anti-rituale di Bhuvaneswari. Questo gesto clamo- roso non solo sovverte la mitografia tradizionale della sati così come ci è stata storicamente consegnata, ma anche le letture che ne sono state da- te da fronti opposti, attraverso un’opera di laboriosa rimappatura dei dati sociali e semiotici alla base di ciascuna narrazione. Attraverso un’o- perazione di abilissima, per quanto non immediatamente decifrabile, resa della propria scrittura critica in senso performativo, Spivak fa in modo che il suo stesso testo attui ciò che pone e affronta in termini teo- rici, mettendo in opera un meccanismo di produzione differenziale del- la significazione nell’esposizione delle motivazioni di ordine storico che

hanno favorito la sati nel corso del tempo.30

C’è un altro elemento, tuttavia, che complica il nesso esistente tra il discorso sulla sati e la figura subalterna di Bhuvaneswari Bhaduri, e si tratta di un fatto liminare rispetto alla narrazione. La tradizione della

sati prescriveva che la vedova non potesse salire sulla pira del marito

nel caso in cui fosse mestruata, e dovesse anzi aspettare pubblicamente quattro giorni per un bagno purificatore in seguito al quale poter esse- re immolata. Il gesto di Bhuvaneswari appare così una rilettura della

sati secondo la prospettiva opposta; l’esecuzione dello stesso rituale in

un nuovo contesto di significazione e attraverso codici differenti di- venta, secondo Spivak, un atto di “subaltern rewriting of the social text

of sati-suicide” (Spivak 1988, 308). Il corpo di Bhuvaneswari Bhaduri si configura come artefice e allo stesso tempo icona della riscrittura di un testo storico e sociale, che negozia con le istanze dell’ideologia im- perialista, connotata anche in senso patriarcale, e che di conseguenza deve discutere e ridefinire i propri meccanismi di produzione di senso per non rimanere prigioniero della parola imperialista/patriarcale e dei suoi codici linguistici. È un corpo chiamato a rispondere non solo della produzione di un significato, che è quello storicamente dato dal- l’autorità indiscussa del discorso coloniale, ma pure del suo possibile riutilizzo all’interno di una ambiziosa sfida di carattere epistemologi- co, mirata a rifondare i paradigmi della ragione occidentale attraverso la rivendicazione di una soggettività postcoloniale.

In questo modo, il cadavere di Bhuaneswari Bhaduri, ultima, crucia- le istanza della subalternità, rappresenta allo stesso tempo un luogo simbolico da decostruire, in modo che, interrompendo l’opposizione binaria tra discorso imperialista e discorso nativista, possa a tutti gli ef- fetti riappropriarsi della propria controversa articolazione storica e politica, e il mezzo stesso che produce la decostruzione delle narrazio- ni dell’imperialismo, in un movimento duplice, caratteristico della scrittura spivakiana, che si sintetizza nella frattura, traumatica ma ne- cessaria, della catacresi prodotta dalla rappresentazione metaforica (in questo caso, l’inscenamento del rituale della sati, puro atto performati- vo) una volta che sia stata deprivata della sua controparte reale (la pre- sunta oggettività storica del suicidio rituale della vedova indiana, op- portunamente decostruita da Spivak). D’altronde, la potenzialità insita nel corpo di Bhuaneswari Bhaduri di riconfigurare le categorie della storiografia coloniale si traduce nella necessità retorica dell’autrice di tracciare una complessa eziologia della morte, la cui efficacia discorsi- va, più o meno provabile, è nondimeno rivelatrice di un atteggiamento nei confronti della morte e dell’utilizzabilità dei cadaveri che, in quegli anni, aveva un riscontro tangibile nella pratica medica corrente. È at- traverso un’appropriazione militante della prassi autoptica (sia in sen- so tradizionale, sia secondo la modalità dell’autopsia psicologica che diventava sempre più diffusa in quegli anni) che Spivak riesce a indivi- duare i limiti storicamente marcati tra la possibilità di parlare della su- balterna e la programmatica negazione della sua parola e del suo status di soggetto attuata dalla storiografia e dall’ideologia del colonialismo.

L’appropriazione in termini discorsivi del corpo di Bhuaneswari, e il suo utilizzo post-mortem a fini strategici, vengono pure notati da Raje- swari Sunder Rajan che, in un recente saggio su “Can the Subaltern Speak?”, considera il cadavere di Bhuaneswari alla stregua di un vero e proprio codice, un atto linguistico e testuale che, allo stesso tempo, ri- scrive la storia dell’identità di genere femminile così come era stata concepita dalla narrativa ottocentesca dell’imperialismo britannico, e

si colloca, in maniera aporetica, a metà strada tra due figure discorsive opposte e inconciliabili (la devota vedova indiana e la terrorista), rifiu- tando di essere sussunto da entrambe.

That Bhubaneswari found it insufficient to declare the true cause of her death via a suicide note but sought to convey, in addition, a coded mes- sage via her body, solely in order to remove any misunderstanding about an illicit pregnancy: this is the sign of her gendered subalternity. (Rajan 2010, 125)

In questo senso, il cadavere/testo viene strategicamente e strumental- mente utilizzato per comunicare l’impossibilità che il soggetto subal- terno possa, allo stesso tempo, parlare ed essere compreso. Infatti, la scelta di Bhuaneswari Bhaduri di aspettare le mestruazioni per suici- darsi era finalizzata a esplicitare che la propria morte non fosse l’estre- mo gesto di riparazione di una gravidanza indesiderata; tuttavia, ricor- da Spivak, questa è stata l’interpretazione che si è perpetuata nel corso degli anni, fino a che proprio il testo spivakiano, contrastando tutte le mistificazioni prodotte negli anni, ha chiarito le vere ragioni. L’intera operazione di codifica storica passa attraverso la produzione di signifi- cato insita nel cadavere di Bhuaneswari Bhaduri; questa operazione, di sicuro molto significativa, suona però come una sconfitta. È ancora Rajan che così sintetizza: “the ‘message’ self-inscribed on her body was not read” (Rajan 2010, 119), sostenendo l’opportunità e la necessità dell’intervento dislocato (spazialmente e temporalmente) di Gayatri Spivak a chiarire il senso del processo di produzione e obliterazione del significato che nasce dalla realtà non decifrata del corpo morto di

Bhuaneswari.31

La conclusione brusca del lungo saggio spivakiano (“The subaltern cannot speak. There is no virtue in global laundry lists with ‘ woman ’ as a pious item. Representation has not withered away. The female in- tellectual as intellectual has a circumscribed task which she must not disown with a flourish”, Spivak 1988, 308), decisamente inaspettata dopo quaranta pagine fitte di argomentazione serrata e di letture in- crociate tra testi filosofici occidentali (Deleuze, Foucault, Marx, Nietz- sche) e indiani (Rg-Veda, Dharmasastra), sembra implicitamente tra- sformare la domanda originaria, “can the subaltern speak?”, grazie alla riscrittura del cadavere/testo di Bhuaneswari Bhaduri, in ‘must/should the subaltern speak?’, trovando una risposta nell’impos- sibilità aporetica di sussumere nello stesso spazio politico la concessio- ne del diritto di parlare e l’impossibilità, quasi ontologica oltre che sto- rica, per il soggetto subalterno di rispondere all’invito alla parola senza che questo gesto significhi, irrimediabilmente, finire intrappolato dal sistema epistemico egemone.

La struttura retorica del testo richiede al lettore/ermeneuta un gesto di radicale riconfigurazione della posizione dell’autrice stessa, ricollo- cata negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80, quando il saggio viene

pubblicato.32Il discorso sulla morte e sul cadavere, paratesto rimosso e

silenzioso, assume quindi un ruolo decisivo ai fini della risignificazione del testo stesso, a partire dalla sua stessa struttura e modalità retorica. Le pratiche politiche di ridefinizione del soggetto, oggetto della di- scussione spivakiana nella prima, complessa e quasi martoriata sezione del lungo saggio, passano attraverso il posizionamento del cadavere al- l’interno delle coordinate storiche e dialettiche nelle quali il soggetto stesso si colloca. In una sovrapposizione continua e pluristratificata di narrazioni e riscritture, infatti, il discorso sul cadavere diventa luogo di negoziazione non solo della subalternità (come, in maniera più o meno esplicita, il testo di Spivak dichiara) ma della stessa autorità, ricono- sciuta al cadavere, di farsi portatore della possibilità di produrre il si- gnificato o di negarlo.

La mappatura segnica della cultura della morte negli Stati Uniti degli anni ’80 pare trovare nel luogo significante del cadavere un punto ne- vralgico di sussunzione delle politiche della scienza medica e giuridica, e allo stesso tempo uno strumento funzionale allo slittamento ininter- rotto della sua codifica, così da sfalsare ogni sovrapposizione tra il pia- no del simbolo e quello della referenza, alla luce delle trasformazioni che proprio in quegli anni si verificavano nelle discipline mediche e le- gali e che avevano progressivamente svuotato di senso il cadavere e ri- nunciato alla sua utilizzabilità significante. I testi di Ellis e di Spivak, co- sì lontani pur essendo apparsi a pochi anni di distanza, risemantizzano con meccanismi linguistici autonomi l’epistemologia negata del cadave- re; il loro utilizzo delle categorie dello scarto e della subalternità è alta- mente sintomatico delle pratiche discorsive sulla morte che in quegli anni si attuavano nei contesti scientifici e giuridico-ideologici.

Il saggio spivakiano, quindi, può essere letto come espressione sin- tomatica dei discorsi prodotti in quegli anni sullo status del cadavere. Esso infatti replica le pratiche discorsive della scienza che decretava il passaggio dell’utilizzabilità dei corpi morti dagli scopi pretenziosa- mente epistemici del passato a quelli più pragmaticamente tassonomi- ci del presente, attraverso la chiusura del corpo di Bhuaneswari Bha- duri e la sua trasformazione in un oggetto muto e indecifrabile, puro scarto iconico che risponde con il proprio silenzio e con il rigetto di ogni possibile pratica interpretativa all’insistenza di ogni atteggiamen- to di violenza ermeneutica.

In questo senso, il concetto di catacresi può essere utile alla defini- zione del nuovo status retorico del cadavere, estrema rifunzionalizza- zione tropologica di una configurazione corporea e del suo utilizzo

si, d’altronde, più volte definita ‘metafora morta’, è stata spesso utiliz- zata da Spivak in quanto dispositivo retorico che, innestandosi sull’a- poria decostruttiva, la finalizza a un’apertura della dinamica testuale e a una sua immissione in una pratica discorsiva sempre nuova e sempre altra. È la catacresi a diventare uno strumento assai utile per tracciare la dimensione semiotica del cadavere nei due testi, che, pur nella di- stanza abissale che li separa, compiono un’operazione analoga, ricor- rendo al cadavere come strumento, allo stesso tempo, di emblematica raffigurazione e di ridiscussione del testo storico dal quale prendono le mosse. Si tratta di una ridiscussione che in entrambi i casi rifiuta pro- grammaticamente di raggiungere qualsiasi conclusione, richiudendosi in una muta autoreferenzialità del testo e nella ricerca di una rilettura tautologica, spiraliforme e iterativa del testo stesso come strumento che significa, da un lato, l’impossibilità di una qualsiasi via d’uscita ri- spetto alle pratiche discorsive nelle quali esso si colloca, e dall’altro, il rigetto di ogni sbocco dialettico in grado di sussumerne l’argomenta- zione su un piano più alto e ultimativo di sintesi.

Se la catacresi può così diventare un nuovo nome per la decostruzio- ne, in quanto filosofia che afferma la cedevolezza congenita del pro- prio stesso dire, ma anche, tuttavia, la sua imprescindibile necessità, il cadavere ne rappresenta l’istanza più immediata ed efficace. È attra- verso l’uso catacrestico del cadavere, infatti, che affiorano sul piano della scrittura le trasformazioni che stavano investendo il discorso me- dico-giuridico dell’epoca, ritradotte in prassi retorica e critica mirata a riflettere sul concetto di subalternità. È inoltre il cadavere che, in