2. I presupposti oggettivi
2.1 Le preclusioni soggettive
Una delle principali difficoltà derivanti dall’operazione di “trapianto” della messa alla prova dal corpo del processo minorile a quello ordinario è legata certamente al dato di fondo per cui <<il primo è per molti versi un “processo della personalità”, mentre quello degli adulti è essenzialmente un “processo del fatto”>>48.
Invero, l’istituto disciplinato dal D.p.r. 448, è fondato sul vaglio della personalità dell’imputato minore, in senso marcatamente soggettivo e in applicazione di una individualizzazione completa della pena.
Il legislatore, dunque, si è trovato di fronte ad una scelta: se introdurre nel processo ordinario un’opzione culturale nuova, ma che avrebbe avuto dei risvolti indubbiamente negativi circa il grado di accettazione da parte dell’opinione pubblica, oppure disegnare i presupposti di attivazione e valutazione del probation in senso tradizionalmente oggettivo, dando rilievo alle modalità del fatto illecito, ai precedenti penali e, in sede di verifica finale, al puntuale rispetto delle prescrizioni del programma svolto. È quest’ultima l’opzione prescelta, come si evince già in relazione alla disciplina che regola la fase di ammissione alla prova.
Come condizione necessaria, quindi, appare all’art. 464- quater, co. 3 c.p.p., che <<… l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati>>, quindi il giudice per concedere l’accesso alla messa alla prova deve formulare un giudizio prognostico favorevole in ordine alla circostanza che lo stesso si asterrà, in futuro, dal commettere ulteriori reati. Gli elementi su cui comunque una condanna, mentre in caso di sospensione ed esito positivo si ha una sentenza di estinzione del reato.
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l’autorità giudiziaria deve fondare questa valutazione prognostica sono ben distinti nei due diversi processi.
Se nel rito minorile la previsione cui è chiamato il giudice si fonda sulla circostanza che il fatto di reato non costituisce indice di una scelta di vita, ma sia manifestazione di un disagio temporaneo dell’adolescente; nella fattispecie per adulti, la prognosi si dovrebbe compiere “allo stato degli atti”. Ne consegue, da un lato, che il giudizio di idoneità è rapportato non tanto alle possibilità di evoluzione in positivo della personalità dell’interessato, quanto ai profili retributivi e riparativi, che, costituiscono presupposti necessari, ma non sufficienti, anche nel procedimento a carico di minori. Dall’altro lato, si ha, così, la sensazione che la prognosi recidivante sia più concentrata sulla necessità di fronteggiare la pericolosità sociale dell’imputato attraverso la prova, che sulla possibilità di concreta realizzazione di un processo rieducativo e risocializzante. In questo modo si perde qualsivoglia prospettiva di effettiva individualizzazione della pena, come richiederebbero a contrario i Basic principles della restorative justice, e già qui si nasconde l’essenza di “cripto condanna” della prova49.
In sostanza, la prognosi alla quale è chiamato il giudice, nel decidere sull’ammissione al rito in parola, deve essere correlata direttamente con la valutazione di idoneità del programma di trattamento presentato, sia quale <<capacità del programma di incidere sulla personalità reale del soggetto, in una prospettiva riparativa, che implica l’assunzione di una responsabilità attiva dell’autore dell’illecito, intesa a ristabilire un duraturo equilibrio non conflittuale con la persona offesa. Sia quale adeguatezza di un esperimento destinato a verificare una prognosi favorevole basata sulle informazioni preventivamente acquisite, atteso che sarebbe inutile ammettere il rito se
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Da taluni è stato sottolineato come questo rischia di annoverare tra i fruitori della misura soltanto i “colletti bianchi”, ovvero quella particolare tipologia di criminali che gode di stabilità di affetti, di relazioni sociali e di risorse professionali tali da rendere più facile per loro prevedere una positiva prognosi di reinserimento, restringendo così notevolmente l’operatività della misura e tradendo le finalità della stessa, almeno a livello di legislazione sovranazionale.
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non risultasse ragionevole la previsione che quantomeno nel corso del trattamento l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati>>50
.
Ritornando al dato normativo, si aggiunga un ulteriore presupposto soggettivo, questa volta regolato dal codice sostanziale, all’art. 168-bis, co. 5 ed è una diretta conseguenza della preclusione appena descritta. Il legislatore, nell’art. in parola, ha ritenuto di dover precisare che la misura non può essere ammessa in determinati casi: se dichiarata abilità presunta dalla legge, ai sensi dell’art. 102 c.p, ovvero quando l’abitualità è ritenuta dal giudice, ex art. 103 c.p., ancora quando vi sia abitualità nelle contravvenzioni ai sensi dell’art. 104 c.p., oppure quando è stata dichiarata abitualità nel reato, ex art. 105 c.p., ed infine quando è sancita la tendenza a delinquere del soggetto, come disciplinato dall’art. 108 c.p..
La preclusione per tali soggetti è una diretta conseguenza, come ovvio, della prognosi di non recidivanza. Difficilmente, il giudice potrà valutare che soggetti con una lunga “carriera” di reati, si asterranno dal compiere nuovi reati.
Mentre, nella disciplina in parola, non si riscontra nessun ostacolo per i soggetti qualificabili come recidivi, ai sensi dell’art. 99, co. 4 c.p.; viceversa una chiara preclusione in tale senso si ha nella disciplina del patteggiamento, ex art. 444 comma 1-bis. Astrattamente anche per questa “categoria” di imputati si potrebbe trarre la medesima conclusione di cui sopra, ovvero per soggetti recidivi appare improbabile per l’autorità giudiziaria ipotizzare un’astensione, nel futuro, di commissione di nuovi reati.
Sarebbe più affine ai paradigmi di giustizia riparativa e alle nuove idee di giustizia penale, nonché più coerente con i principi di ragionevolezza, proporzione, personalizzazione e funzione rieducativa della risposta sanzionatoria, non una valutazione oggettiva e presuntiva, come quella regolata dalla normativa in parola; bensì una scelta del giudice valutando
50 Ed è in questa seconda prospettiva, quella dell’inevitabile margine di rischio connesso
alla natura sperimentale del trattamento. Vedi, A. Nappi, La sospensione del procedimento con messa alla prova un rito affidato all’impegno degli interpreti, in Legislazione penale, 2015, p. 4.
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caso per caso le caratteristiche soggettive e socio-ambientali del soggetto interessato.
Quest’ultimo non dovrebbe essere privato, dunque, del potere di considerare se la ricaduta nel reato costituisca <<indice di particolare disvalore della condotta, di indifferenza dell’autore alla memoria delle precedenti condanne, di specifica inclinazione a delinquere dell’agente ovvero di una mera ed accidentale interruzione del percorso di riabilitazione e di reinserimento sociale totalmente avulsa dal passato criminale>>51. Valutazioni, queste, che se fatte in modo oggettivo e presuntivo rischiano di creare un’omogeneità di applicazione delle pene, caratteristiche che invece si auspica, anche a livello sovranazionale, che il diritto penale perda; inoltre si creerebbe una disparità di trattamento tra soggetti. Si perde, così, peraltro di vista la finalità e la ratio della misura stessa.
È agevole riflettere, infine, sul fatto che proprio i soggetti dichiarati delinquenti abituali, che non possono beneficiare della sospensione condizionale della pena, potrebbero essere i più propensi a richiedere la messa alla prova. Quindi, si disperde, cosi, anche “l’elemento motivazionale” della scelta del reo, che sarà fatta dallo stesso semplicemente per sfuggire ai gangli del procedimento e non già per autentica volontà di rieducazione e reinserimento sociale.
In carenza di un esplicito riferimento normativo a quale sia la proiezione temporale del giudizio prognostico, si deve capire se tale prognosi debba essere fatta con esclusivo riferimento al momento di commissione del fatto, come accade ad esempio per la medesima valutazione esperita in sede cautelare, ovvero se la prognosi possa essere riferita alla personalità dell’imputato quale potenzialmente modificatasi all’esito della prova52
. Appare utile, da questo punto di vista, effettuare una comparazione con la disciplina prevista nel rito minorile: in quella sede il legislatore prevede che <<il giudice sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne
51
L. Pulito, op. cit., p. 87.
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all’esito della prova>...>, mentre al riguardo l’art. 464-quater nulla dice espressamente. Sotto tale profilo, infatti, appare non decisivo nemmeno il dato letterale di cui al comma 3 dell’art. in parola, che si limita ad individuare il momento processuale tipico del giudizio, e cioè la fase in cui il giudice deve provvedere, con ordinanza, in ordine alla richiesta di sospensione con messa alla prova.
Posta tale premessa, appare preferibile ritenere che la legge consenta al giudice, ai fini della prognosi, di valutare ogni elemento utile, anche con riferimento all’evoluzione della personalità dell’imputato all’esito del programma e, complessivamente, della prova. Una diversa interpretazione, d’altronde, porterebbe ad accentuare, una già troppo presente, dimensione sanzionatoria della fattispecie in esame.
A mio avviso, merita un riflessione anche l’applicazione della misura de
qua laddove è contestato un reato permanente. Le mie perplessità, circa
l’operatività dell’istituto, derivano dall’analisi della disciplina dell’art. 35 del d. lgs. che regola la competenza penale del giudice di pace53, nella quale si esclude l’applicabilità della fattispecie estintiva del reato per avvenute condotte riparatorie. La motivazione di tale preclusione risiede nell’incompatibilità della permanenza del reato con i presupposti di idoneità di cui al comma secondo del suddetto articolo (<<Il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al comma 1 solo se ritiene che le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione>>). Nel caso di reato permanente, infatti, si protraggono gli elementi costitutivi dello stesso e, di conseguenza, permane l’offesa; quindi, poiché non cessa il reato, l’eventuale risarcimento del danno non può essere considerato idoneo a soddisfare le esigenze di prevenzione e riprovazione richiamate esplicitamente nella disciplina, né varrebbero ad soddisfare i requisiti di cui al co. 1 dell’art. in parola ( <<l’aver eliminato le conseguenze dannose e pericolose del reato>>)54.
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Cfr., Supra, Cap. 1, § 6.3.
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Lo stesso ragionamento potrebbe essere esteso anche alla disciplina della messa alla prova, in quanto anche in tale fattispecie le condotte riparatorie e l’esigenza di prevenzione e riprovazione del reato assumo ruolo centrale, ai sensi dell’art. 464-bis, lettera b), c.p.p.. Relativamente alla possibile inapplicabilità della causa estintiva alle ipotesi di reato permanente, può essere richiamata anche la giurisprudenza di legittimità intervenuta sulla medesima questione in relazione alle ipotesi di oblazione. Si è ritenuto che la natura del reato permanente è incompatibile con le cause di estinzione del reato che presuppongono una condotta riparatoria, in quanto <<la condotta e l’evento si presentano come un complesso unitario sostenuto dalla volontà di protrarre nel tempo la violazione; pertanto, la cessazione della permanenza deve costituire il presupposto per l’applicazione della causa di estinzione>>55.
La preclusione, in effetti, sarebbe giustificata per il permanere delle conseguenze del reato, logicamente incompatibili con la ratio dell’estinzione, basata sull’eliminazione delle ripercussioni derivanti dall’illecito. A ben vedere, però, proprio con il complesso contenuto della prova, denso di significato e prescrizioni riparatorie-risarcitorie, si potrebbe produrre la cessazione di tali conseguenze dannose o pericolose del reato, recuperando così la validità della misura anche per la tipologia di reati permanenti.
Anche per quanto attiene alle ipotesi di tentativo, la norma non indica alcun parametro interpretativo; utile è quindi il richiamo ad alcune posizioni assunte da parte della dottrina che ha optato per una soluzione positiva riguardo ancora la fattispecie di estinzione del reato per avvenuta condotta riparatoria di fronte al giudice di pace e così affine alla sospensione del processo con messa alla prova. Essendo il tentativo una figura autonoma di reato, idonea a provocare un danno, che si perfeziona nel momento in cui sono posti in essere gli atti idonei e non equivoci di cui all’art. 56 c.p.56
.
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Sul punto, Cass. Pen. , Sez. I, 24 gennaio 2012, n. 7758.
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Relativamente ai reati di pericolo, ancora la disciplina de qua non dà indicazioni precise, ancora pare dirimente il riferimento ai dibattiti circa l’art. 35 d. lgs. 274. Seppure, parte della dottrina abbia ritenuto, in quella sede, astrattamente applicabile a tali illeciti la causa di estinzione in parola, la giurisprudenza si è espressa in termini negativi, ritenendo che la misura non sia applicabile ai reati di pericolo, per i quali le condotte riparatorie appaiono oggettivamente incompatibili, <<non costituendo un actus
contrarius rispetto alla condotta incriminata e non essendo in grado di
realizzare una qualche forma di compensazione nei confronti della persona offesa>>57.
Infine, si nota come la giurisprudenza di merito abbia dedotto dalla disciplina espressa la possibilità di accettare la richiesta di messa alla prova anche laddove si riscontra <<la presenza di una pluralità di reati, quando per ciascuno di essi, singolarmente considerati la richiesta risulti ammissibile, non può di per sé giustificare il rigetto della richiesta di messa alla prova, a prescindere dalla sussistenza o meno del vincolo di continuazione fra gli stessi>>58.