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La mediazione penale come paradigma di restorative justice e l‘applicazione

6. La ricerca di legittimità della restorative justice nel panorama costituzionale

6.1 La mediazione penale come paradigma di restorative justice e l‘applicazione

AMBITO MINORILE

Merita attenzione l’istituto della mediazione come espressione di attuazione di paradigmi di giustizia riparativa all’interno della nostra esperienza. L’ implementazione nel nostro ordinamento di tale istituto deve essere salutata con favore, e addirittura sembra che possa essere proposta come uno dei meccanismi utili a contribuire al recupero di credibilità del sistema giudiziario; sia perché il ricorso al paradigma mediativo-riparativo, in certi casi, appare più efficace rispetto alla punizione del reo, sia perché può contribuire a dare una risposta alla vicenda giudiziaria attraverso una soluzione più efficiente, oltre che responsabilizzante.

Al di là dei facili entusiasmi, per obiettività, non possono essere sottaciuti alcuni punti chiaroscurali nel rapporto tra regole mediative e principi del giusto processo.

Il risultato che si ottiene per mezzo della mediazione non è sempre quello di riduzione di costi e tempi del processo, i tempi della mediazione, infatti, sono i tempi della persona 31: il confronto dei diversi punti di vista e l’instaurazione di un dialogo tra protagonisti della vicenda, in sostanza, può provocare un rallentamento del rito e un differimento della decisione giudiziaria. Vi sono, poi, alcuni effetti indiretti connessi all’introduzione di tale paradigma che possono addirittura aumentare il carico giudiziario, quello che viene definito come net widening effect32.

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A. Ciavola, ivi, p. 246.

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Il net widening effect è un termine generalmente usato per indicare l’incremento della domanda di intervento delle istituzioni anche per quei fatti di reato di modesta entità che

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Infine, c’è sempre la possibilità che la composizione del conflitto fallisca e dunque il periodo trascorso e il lavoro svolto, seppur fuori dal processo, si rivelino ex post “sprecati” , dovendo il caso confluire nuovamente nell’alveo della giustizia tradizionale.

Tuttavia, nonostante questi tratti critici, non si può esimere dall’analizzare i contributi che la giustizia riparativa e, in particolare la mediazione, possono offrire affinché la giustizia penale possa trovare soluzione al suo stato attuale di crisi.

Per iniziare l’analisi del paradigma in esame occorre delineare quali sono i tratti principali della sua disciplina nel panorama legislativo italiano. Una fondamentale garanzia che deve essere salvaguardata nel corso della procedura di mediazione è il potere di consultare il difensore. L’ausilio di quest’ultimo rappresenta l’espressione di una garanzia inviolabile e rafforza il valore del consenso.

Il principio che la rinunzia al processo sia espressione di un consenso prestato liberamente e in modo consapevole impone che sia l’autorità giudiziale, attraverso un accertamento scrupoloso, a verificare che il consenso risponda ad un’effettiva volontarietà all’avvio del paradigma mediativo.

Si ravvisa, inoltre, una protezione dell’incontro di mediazione e un’assoluta inibizione della possibilità di divulgare i contenuti di quest’ultimo. Si tratta anche in questo caso di un requisito fondamentale per due ordini di ragione: in primo luogo, tale condizione risulta indispensabile per garantire un’effettiva libertà di scambio tra le parti, essa è la condizione per la fecondità dell’incontro. In secondo luogo, protegge gli interessi delle parti, soddisfacendo, soprattutto, un’esigenza di natura squisitamente processuale, tutela, invero, il principio di nemo tenetur se detegere, o, più in generale, il diritto di difesa dell’accusato.

È bene sottolineare che affinché la mediazione possa essere fattibile e avere un esito positivo occorre una specifica attenzione sia allo spazio che al spesso non sono neanche denunciati perché si ritiene che, comunque, non potrebbero essere concretamente perseguiti dall’autorità giudiziaria.

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tempo della stessa33. Lo spazio fisico va organizzato in modo da riflettere i capisaldi di tale paradigma (neutralità, confidenzialità, protezione, diversità). Ma di non minor importanza è l’attenzione da adoperare per il fattore tempo: bisogna assicurare alle parti un tempo degli incontri sostenibile, cercando di trovare un delicato equilibrio tra celerità, efficienza ed esigenze individuali dei partecipanti34.

Le prime applicazioni del paradigma mediativo-riparativo hanno trovato spazio nel rito minorile, qui il legislatore sembra aver avvertito meno il peso della tradizione e, lontano dalla preoccupante centralità del rito penale ordinario, si sia sentito libero di tentare nuove strade, ogni volta con intenti dichiaratamente sperimentali35.

Nel rito minorile, a dire il vero, l’unico riferimento normativo è in via indiretta, ed è stato interpretato in modo estensivo, per dare spazio ad eventuali tentativi di mediazione; questo si rintraccia nell’ambito della disciplina della sospensione del processo con messa alla prova. Si tratta di un’ipotesi di mediazione “processuale” che si attua quando il processo è già iniziato. L’art 28 D.p.r. 448/88 contiene, infatti, un’esplicita previsione legislativa in ordine alla possibilità, per il giudice, di impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato o a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa.

Ma questo paradigma non è tale da potersi descrivere come espressivo di una giustizia senza spada: anzitutto, la mediazione così disciplinata, più che porsi come un’alternativa al processo si configura come un’alternativa alla pena. Qualche dubbio, inoltre, sussiste in ordine alla effettiva volontarietà a partecipare ad un programma che prevede misure di tipo riparativo- conciliativo, atteso che c’è il pericolo che il minorenne aderisca alla

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A. Ciavola, op. cit., p. 272.

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In particolare l’attività di mediazione dovrebbe essere programmata per andare incontro alla vittima; per la quale una mediazione proposta in un momento troppo vicino al fatto può apparire inopportuna, mentre se proposta a distanza di molto tempo dal fatto viene scarsamente accettata.

35 Di questa tendenza a sperimentare nel rito minorile ne è un esempio l’introduzione, in

via primaria, della mediazione, ma anche istituti ulteriori, sempre espressivi della giustizia riparativa, come la messa alla prova per minori, cfr infra Cap. 2 , che ha costituito l’archetipo per l’introduzione nel 2014 della stessa misura nei confronti degli adulti.

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proposta di mediazione in modo puramente formale e a scopi utilitaristici, allontanandosi, perciò, dagli obiettivi del paradigma stesso, degradando la visione dell’istituto a mera possibilità di sfuggire alla punizione.

Nel corso della messa alla prova, poi, l’attenzione non è tanto rivolta alla riparazione del conflitto, quanto all’evoluzione del reo, scardinando ancora una volta la finalità primaria della giustizia senza spada.

Diverso è il risultato quando la mediazione tra il giovane autore del reato e la vittima viene praticata prima dell’esercizio dell’azione penale. Qui l’adesione al paradigma mediativo, piuttosto che apparire come un modo per sottrarsi alla condanna, si configura come una rinuncia alle garanzie offerte dal processo. Una mediazione collocata già in fase delle indagini è, dunque, da preferire, in quanto meglio risponde alle sollecitazioni in ordine al ricorso a tecniche di diversion nel quadro di una progressiva de- giurisdizionalizzazione della risposta statale alla delinquenza minorile36.

6.2 …E DI FRONTE AL GIUDICE DI PACE

Con il d. lgs. 28 agosto, n. 274 sulla competenza penale del giudice di pace, la mediazione ha avuto il suo primo riconoscimento normativo. Quindi, ciò che nel rito minorile è stato praticato in via sperimentale, davanti al giudice di pace ha trovato chiara legittimazione.

Rimane fermo che si tratta di una forma embrionale di regolamentazione della materia, che sotto più profili appare incompiuta, vi è, tuttavia, un aspetto positivo in questo pur timido approccio, individuabile nell’inserirsi nel contesto di una riforma che ha dato attuazione ad un modello di giustizia diverso da quello ordinario. Un modello che trova molte assonanze con quello di retsorative justice, il quale, si può dire, abbia così trovato una prima consacrazione teorica37.

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A. Ciavola, op. cit., p. 292.

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Alla base della riforma del giudice di pace, infatti, vi è l’idea di ricercare una risposta più efficace, più efficiente e più umana, peraltro questi sono gli stessi obiettivi di cui è espressione la giustizia riparativa.

Ma l’intreccio più significativo con il paradigma mediativo-riparativo va ritenuto nell’idea che occorre rimuovere le conseguenze cagionate dal reato, con ciò si è voluto cercare di creare una situazione in cui il reo fosse chiamato ad attivarsi volontariamente, e ad operarsi all’interno di un ragionevole impegno di segno e di senso opposto a quello, negativo ed offensivo, espresso dal reato.

Il quadro complessivo della riforma varata nel 2000, devolvendo la competenza in materia penale al giudice di pace si inscrive in una logica chiaramente finalizzata a funzioni conciliative per la composizione dei conflitti e alla conseguente rivalutazione del ruolo della persona offesa38. La formalizzazione normativa del paradigma conciliativo si evince già dai principi generali delineati dal decreto, in cui si descrive la conciliazione come l’obiettivo tendenziale, per quanto non esclusivo, del nuovo sistema di tutela integrata.

In particolare all’art. 2, co.2 del decreto in parola, si stabilisce in maniera chiara ed inequivoca che <<nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti>>.

Alla stregua del tenore letterale della norma, il tentativo di conciliazione sembrerebbe porsi come incombente, doveroso e non rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, sennonché quell’inciso <<ove possibile>>, determina l’essenzialità di suddetto tentativo, ma non la sua imprescindibilità, atteso soprattutto che <<lo spazio di praticabilità della soluzione mediativa è sempre comunque subordinato tanto alla natura e alla

38 Si può sicuramente parlare di una riforma che, sia pur con le inevitabili riserve, presenta

un grande interesse di vaste prospettive applicative, perché per la prima volta delinea anche una nuova figura di giudice destinato non solamente ad alleggerire il carico del contenzioso della magistratura ordinaria, ma anche a gestire un nuovo processo, se non addirittura un nuovo tipo di giustizia. Cfr V. Patanè, La mediazione, in Il giudice di pace nella giurisdizione penale, a cura di G. Giostra e G. Illuminati, Giappichelli, 2001, p. 354. Una nuova figura di magistrato, dicevamo, in grado <<di soddisfare il bisogno di giustizia alternativa o comunque di interpretare da più vicino i valori emergenti in seno alla società civile>>. Cfr E. Marzaduri, L’attribuzione di competenze penali al giudice di pace: un primo passo verso un sistema penale della conciliazione?, in Leg. Pen., 2001-I, Utet, p. 42.

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rilevanza degli interessi in gioco, quanto alla disponibilità dell’autore del reato e della vittima alla conciliazione>>39.

Si nota, infatti, che la doverosità per il giudice di pace di favorire la ricomposizione sociale, così come disciplinata ex art. 2, non è circoscritta ad un determinato momento procedimentale o ad una particolare tipologia di illecito. <<Ed invero, una scelta sistematica così impegnativa sembrerebbe spiegarsi solamente se prodromica ad una delimitazione della sfera di operatività delle competenze penali del giudice onorario che neghi l’ingresso a fattispecie astrattamente non inseribili in un percorso conciliativo>>40. Si spiega, così, come mai la riforma ha mantenuto questo nuovo approccio culturale entro confini molto circoscritti, ovvero ricadono nel perimetro applicativo del nuovo sistema penale integrato i reati di natura per lo più bagatellare, e prevalentemente espressione di una micro- conflittualità individuale; ma che sarebbe, in teoria, suscettibile di assumere più ampia diffusione, arrivando così all’attuazione della giustizia conciliativa e al cuore dell’idea riparativa: riconciliare la vittima e il reo attraverso un incontro di reciproca responsabilizzazione.

Se ad un primo impatto, le innovazioni introdotte dalla disciplina del giudice di pace paiono aprire nuovi orizzonti sul futuro della giustizia penale, ad uno sguardo più attento, lascia ancora perplessi il fatto che manca un’esatta consapevolezza circa il ruolo della mediazione nel perseguimento della finalità conciliativa. Il che deve attribuirsi ad una non ancora raggiunta assimilazione della cultura della restorative justice; come confermato dalla disciplina, infatti, anche nel contesto del giudice di pace la mediazione è funzionale non tanto a dare una risposta diversa al fatto costituente reato, quanto a definire anticipatamente la vicenda processuale. Uno strumento, dunque, per lo più tarato su finalità deflattive41.

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V. Patané, op. cit., pp. 358-359.

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E. Marzaduri, op. cit., p. 44.

41 Da notare che: proprio perché la conciliazione diventi effettivamente l’elemento

caratterizzante del rito delineato nel d. lgs. 274/2000, sarà necessario fornire una <<preparazione socio-psicologica di non poco conto, attualmente estranea al bagaglio culturale dell’organo giurisdizionale onorario>>. Cfr E. Marzaduri, ivi, p. 45.

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Per comprendere quanto appena esposto in modo critico occorre disaminare la disciplina dal punto di vista squisitamente processuale.

Se la previsione dell’art. 2 esplicita la vocazione conciliativa dell’intero procedimento dinanzi al giudice di pace, senza però fornire una precisa collocazione temporale al tentativo di mediazione che tale organo è chiamato ad esperire, l’art. 29, co. 4, invece, dispone che <<nel corso dell’udienza di comparizione (…) il giudice promuove la conciliazione tra le parti>>. Si circoscrive, così, il contesto temporale in cui si colloca l’intervento mediativo, proprio prevedendone la praticabilità nel corso dell’udienza di comparizione che diventa, in questo modo, la sede privilegiata per l’esperimento di un’attività conciliativa ed anche la fase processuale in cui il giudice provvede a saggiare la volontà dell’imputato e della vittima42 di ricomporre il conflitto generato dalla commissione del reato.

Proseguendo nella disamina dell’art. 29, co. 4, d. lgsl. 274/2000, si evince come la mediazione sia collegata ai fatti perseguibili a querela ed è vista nell’ottica di facilitare un accordo in ordine alla remissione della querela stessa. Nessuna innovazione, dunque, in termini di politica criminale. Anche la scelta di collegare la mediazione al tentativo di conciliazione esperibile per i reati perseguibili a querela riduce al minimo le potenzialità dell’istituto.

Nonostante le criticità presentate, non possono essere sottaciute, quelle innovazioni normative che sono utili a configurare la mediazione come istituto almeno espressivo dei paradigmi della giustizia senza spada.

Il principio generale, ex art. 2, co 2, del decreto in materia, determina, come già esposto, un ruolo attivo del giudice nel favorire ad ogni modo e nel corso di tutto il procedimento l’accordo delle parti, fin dall’udienza di comparizione. Vieppiù, l’autorità giudiziaria può disporre un rinvio, laddove

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<<Proprio perché si tende ad enfatizzare l’aspetto relazionale del reato, l’intero procedimento di mediazione, fondato com’è sulla bipolarità dell’interazione reo-vittima, è connotato da un elevato coefficiente di consensualità; il che significa che proprio il consenso delle parti dovrebbe assurgere a condizione imprescindibile per dar luogo al tentativo di conciliazione. Si allude, invero, all’assoluta mancanza di coercizione, nel pieno rispetto della libertà di autodeterminazione>>. Cfr., V. Patanè, op. cit., pp. 360-361.

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riscontra un contatto informale tra le parti e ritiene che vi sia una pur larvata possibilità di arrivare alla conciliazione, rinvia, dunque, l’udienza, per un tempo non superiore a due mesi; in ottemperanza al suddetto onere di favorire ad ogni modo una definizione alternativa del processo. Peraltro, ove occorra il giudice può disporre l’intervento di una struttura pubblica o privata presente sul territorio specializzata nella gestione della mediazione43, questo per favorire ancora una soluzione non conflittuale della controversia. Si sancisce anche quel principio di confidenzialità44 ritenuto necessario per far sì che l’accordo sia fecondo, ovvero le dichiarazioni rese dalle parti decorsa l’attività di conciliazione, non possono in alcun modo essere utilizzate ai fini di una deliberazione, in quanto le parti potrebbero rilasciare, in tale sede, dichiarazioni non improntate alla logica della conflittualità, ma alla logica della composizione, quindi non del tutto utili ad una prospettiva difensiva all’interno del processo45

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Il principio appena enunciato è indubbiamente importante a livello teorico, essendo anche in linea con quei Basic priciples in materia, dettati a livello sovranazionale, ma dal punto di vista pratico, appunto, è riscontrabile, ancora, una certa criticità.

Il tentativo di mediazione potrebbe avere esito positivo: in questo caso si ha la redazione di un verbale in cui si attesta l’esito e quindi anche la

43 Forse proprio nella consapevolezza delle difficoltà pratiche che potrebbero derivare al

giudice dall’assolvimento dei compiti connessi alla funzione conciliativa, si è prevista la possibilità che questi si avvalga di tali centri di mediazione cosicché l’esercizio della suddetta funzione risulti più efficace e corretto. Appare evidente, tuttavia, come l’operatività della previsione in parola risulti in primo luogo condizionata dall’effettiva presenza sul territorio di tali strutture, che ad oggi risultano essere ancora troppo poche.

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Cfr., supra, § 1.

45 Si pone, però, da questo punto di vista, un problema di “influenza” dell’autorità

procedente che, ovviamente, non potrà utilizzare le dichiarazioni rese nel momento conciliativo come momento motivazionale della decisione in sede dibattimentale, ma ovviamente tali affermazioni sono entrate nell’area cognitiva del giudice procedente. Alla luce di ciò, si evince una seria frizione con il principio costituzionale di indipendenza e imparzialità del giudice che procede, de iure condendo, infatti, si pondera già da tempo una modifica dell’art. 34 del c.p.p. che disciplina l’incompatibilità del giudice determinata da atti del procedimento. In virtù dell’avvento di nuovi istituti nel nostro ordinamento, come quello in esame, ma anche quello che analizzeremo successivamente, il legislatore dovrebbe seriamente pensare ad una riforma dell’articolo in parola in modo da aggiornarlo in virtù dei nuovi istituti, rendendolo, così, maggiormente compatibile con l’assioma costituzionale della terzietà del giudice.

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remissione della querela o la rinuncia al ricorso immediato, entrambe, peraltro, devono essere accertate dall’imputato e formalizzate nel processo verbale.

Se la conciliazione, invece, ha esito negativo, la vicenda giudiziaria prosegue, secondo le regole che conosciamo per il rito ordinario.