Parte essenziale del processo penale minorile è che il soggetto sul quale grava l’ipotesi di reato sia minore di età. L’imputato minorenne è la persona che, con riferimento al momento della commissione del reato, ha un’età inferiore ai diciotto anni e superiore ai quattordici, ai sensi degli artt. 97 e 98 c.p.; il che segna la competenza del Tribunale per i minorenni, quale organo specializzato in materia di reati posti in essere dai soggetti appena indicati.
Il riferimento espresso a questo presupposto soggettivo si ha ancora nell’art 28 del D.p.r. 448, si parla del minorenne come unico destinatario del beneficio in parola. La lettera della norma, nei primi anni di applicazione, ha suscitato qualche dubbio interpretativo in ordine alla possibilità di estendere la misura anche ai neomaggiorenni, vale a dire a coloro, i quali, pur avendo commesso il reato da minorenni, nelle more del processo avessero raggiunto la maggiore età.
Sulla questione si registra un’evoluzione giurisprudenziale: a fronte di un primo orientamento più rigido, teso a circoscrivere l’applicazione dell’istituto esclusivamente ai soggetti minori di età, si è ormai consolidata una posizione che predilige l’estensione della messa alla prova, indistintamente, a tutti gli imputati del processo penale minorile, dunque anche a coloro che sono diventati maggiorenni nel corso del processo12. In
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tema la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto doveroso elaborare alcune precisazioni di tipo pratico-applicative illustrando una necessaria cautela nell’utilizzo della misura nei confronti dei soggetti che hanno superato gli anni diciotto, si legge infatti che <<nel processo penale minorile l’istituto della messa in prova ex art 28 del D.p.r. n. 448/88, pur essendo applicabile anche a favore dell’imputato divenuto maggiorenne nel corso del giudizio, presuppone una situazione soggettiva di tipo psico-evolutivo, suscettibile di recupero sociale, propria della fase adolescenziale, di tal ché esso è inapplicabile in presenza di una struttura psicologica di personalità ormai definitivamente orientata>>. In altre parole la Cassazione vuole dire che è da accogliere sicuramente con favore un orientamento estensivo in tal senso, ma non si può giammai prescindere da una prognosi positiva circa l’eventuale recupero sociale dell’imputato.
L’estensione della probation anche ai soggetti minorenni è quasi imposto, ulteriormente, dal punto di vista dei principi costituzionali, infatti se così non fosse si andrebbe a vulnerare il principio di uguaglianza e razionalità, dato che a causa dei ritardi processuali il minore non avrebbe la possibilità di accedere alle stesse risposte da parte dell’ordinamento, e ciò si rivelerebbe in netto contrasto anche con il principio costituzionale che sancisce l’uguaglianza, ecco che si propende per un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art 28 del D.p.r..
Pacifico, invece, risulta il presupposto applicativo costituito dalla capacità di intendere e di volere richiesta al minorenne affinché possa essere sottoposto alla prova, si precisa, altresì, che tale capacità deve essere presente al momento della commissione del fatto, ma essa deve permanere anche nel momento in cui si sperimenta la messa alla prova in considerazione della qualità dell’impegno richiesto al minore sulla strada del cambiamento13
. Quest’ultimo è considerato un presupposto essenziale, la ragione è presto comprensibile, infatti per far sì che l’istituto sia coerente con i suoi obiettivi bisogna che il minore contribuisca alla buona riuscita della prova tramite un impegno costante e attivo; si necessità dunque che l’imputato sia in grado di
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fornire con coscienza e volontà il suo consenso alla misura, in generale, e al progetto, in modo particolare.
L’altra condizione, logicamente conseguente a quella appena descritta, richiesta per poter validamente applicare un provvedimento di messa alla prova è costituita dal consenso del giovane all’adozione della misura. Detto requisito assume anzitutto una funzione responsabilizzante e va ritenuto indispensabile, sia nel momento della richiesta di applicazione della misura, ma ancora più pregnante nel momento in cui, attraverso l’elaborazione del progetto di messa alla prova, si richiede allo stesso di accettare e partecipare attivamente agli impegni specifici messi a punto per favorire un processo di cambiamento della personalità del giovane.
Spostando, poi, l’attenzione sul terreno dei principi, si nota come l’assenza del consenso da parte del soggetto interessato all’applicazione della messa alla prova risulterebbe in contrasto con l’articolo 24 della costituzione, in questo modo il giudice andrebbe a mortificare, con un atto di autorità, la legittima pretesa dell’imputato di aspirare ad un proscioglimento nel merito anziché alla dichiarazione di estinzione del reato.
Quanto alla forma: non è richiesta una forma particolare di espressione del consenso. La volontà del minorenne deve essere di chiara ed espressa adesione alla misura che si intende applicare in suo favore e compete al giudice accertare la presenza della sua volontà, scevra da pressioni e condizionamenti14.
In tema, altro interessante quesito riguarda l’influenza sulla decisione del giudice circa la messa alla prova di due profili afferenti la sfera soggettiva del minore, quali i precedenti penali o giudiziari e la pericolosità sociale; elementi, questi, che normalmente sono in grado di incidere sulla concedibilità di benefici penali o sulla quantificazione della sanzione penale, ma per quanto riguarda la probation non possono essere considerati necessariamente ostativi all’applicazione.
Si ritiene che essendo la valutazione del giudice incentrata sulla personalità del minore, e sulla possibilità di un’evoluzione in positivo, i precedenti non
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possano costituire vincoli per la decisione di mettere alla prova, in primis perché i fatti pregressi non hanno nessuna relazione diretta con l’oggetto dell’analisi, che è costituito dall’individuo e dalla sua attitudine al cambiamento.
In particolare, malgrado manchi, ancora una volta, una norma espressa che consenta il ricorso alla prova pur in presenza di precedenti penali e giudiziari del giovane, tale soluzione può essere ricavata, innanzitutto, dai principi generali del sistema minorile ed è deducibile, altresì, da alcune prudenti decisioni della giurisprudenza, in cui è stata disposta la misura addirittura quando il minore, dopo la commissione del fatto, avesse tenuto dei comportamenti devianti15. Questa interpretazione estensiva è coerente, peraltro, anche e soprattutto alla variabilità della situazione minorile, in fieri e quindi non suscettibile di essere valutata sulla base di fattori pregressi, né casualmente né funzionalmente collegabili allo status quo. Ovvio però che seppur i precedenti penali dell’imputato minore non sono considerati elementi ostativi per l’applicazione della misura, nemmeno possono essere ignorati, ma saranno presi in considerazione dal giudice come elementi utili alla ricostruzione del quadro della personalità del soggetto.
Diversamente, sembra preclusivo lo status di soggetto socialmente pericoloso, in quanto evidentemente inconciliabile non solo con le finalità ma anche con l’operatività dell’istituto.
Sembra essere paradigmatico, in tema di recidiva e pericolosità sociale del soggetto minore, un caso eclatante che ha segnato un punto di svolta, dopo un lungo e complesso percorso giudiziario, nella pratica applicativa della
probation.
Si tratta di un episodio che imprime all’istituto veramente la facoltà di essere <<per tutti su misura di ciascuno>> 16 valutando il rapporto tra messa alla prova e criminalità organizzata, o meglio l’applicazione della stessa a minori che sono nati e cresciuti in un ambiente ad alta densità criminale, e hanno visto per lungo tempo rifiutarsi l’applicazione di tale
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E. Lanza, op.cit., pp. 60-61.
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C. Scivoletto, Messa alla prova e criminalità organizzata, p. 239, in Minori e Giustizia, 2007-I.
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possibilità processuale. La Corte d’Appello di Caltanissetta, nella sezione per i minorenni, con ordinanza del 30 settembre 2005, promuove una pronuncia nettamente contrastante con la giurisprudenza in materia, sinora piuttosto cauta nell’applicazione della messa alla prova per ragazzi coinvolti in ambienti legati alla criminalità mafiosa e organizzata17.
Evidentemente la Corte nello scegliere la strada della messa alla prova non ha sottovalutato né il crimine commesso né l’esistenza di un vincolo associativo particolarmente forte, e nemmeno le peculiarità “culturali” che contrassegnano un nucleo familiare di stampo mafioso e che accompagnano i giovani di mafia fin dalla prima infanzia, ma ha ritenuto ben più efficace questa strada, motivando tale scelta con enfasi e persuasività. Si legge infatti tra le righe della motivazione che <<nonostante l’ambiente familiare sia tale da non essere stato in grado di educare il minore verso uno stile di vita improntato ai valori di solidarietà e di rispetto della persona umana, si ritiene ben più efficacie il dover privilegiare un’opzione evidentemente finalizzata ad assicurare il definitivo affrancamento dell’imputato dai pesanti condizionamenti che gli derivano dalla ingombrante appartenenza ad un nucleo familiare profondamente inserito nel contesto criminale mafioso, offrendogli una opportunità di riscatto che altrimenti potrebbe essere non più praticabile>>.
Come è evidente, si tratta di un’esperienza paradigmatica, per molti aspetti. In essa, infatti, ritroviamo la traccia tangibile della possibilità di un utilizzo dell’istituto adeguato al singolo caso, mai stereotipata, quindi interpretata come un momento di crescita personale, a prescindere dai precedenti, dalle particolari condizioni ambientali, e forse anche da una pericolosità intrinseca del minore abituato a vivere in un ambiente violento e criminogeno quale quello della criminalità organizzata.
La sezione d’appello siciliana ha quindi capovolto un cliché consueto, per cui il “ragazzo di mafia” debba, quasi necessariamente, “andare in carcere”. Il carattere innovativo della pronuncia in esame non si ferma qua. Si tratta, in effetti, di una messa alla prova che nasce dal carcere, di cui solitamente si
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afferma la capacità di consolidare, anziché di distruggere, le identità criminali; qui, invece, si rileva che la scelta è nata sulla base di interventi trattamentali inframurari, attivati durante la detenzione, dunque anche da questo punto di vista si evince la grande portata innovativa di tale pronuncia, ovvero di una rinnovata fiducia che si intende dare, anche, alla fase esecutiva.
Ci si domanda, ulteriormente, se sia possibile applicare la misura nei confronti di un soggetto che abbia già beneficiato della stessa con riferimento ad un diverso procedimento; non sembra che sussistano motivi ostativi ad un’applicazione plurima del provvedimento, specie se la misura precedente ha sortito effetti positivi che potrebbero essere inficiati da una risposta diversa del sistema giustizia. Quello che rileva, caso mai, è una necessaria cautela nel valutare i pur ripetuti episodi criminosi, che per rimanere coerenti con l’essenza dell’istituto in esame, devono essere ricondotti ad una fase di sbandamento circoscritta da cui, evidentemente, il minorenne si dissocerà definitivamente, proprio grazie ad un’ulteriore opportunità e fiducia da parte dell’ordinamento, concedendoli ancora una volta l’applicazione della prova.
Un’altra condizione necessaria, ma è anche logico che lo sia, è che il giudice, con i mezzi a sua disposizione, in particolare tramite quei contatti con l’imputato minore di età, sia in grado di formulare un giudizio prognostico favorevole, nel senso cioè che si deve convincere che nonostante la scelta deviante effettuata dal reo, quello risulti un momento di debolezza, dovuto a fattori esterni, o come, più volte, definito dalla giurisprudenza, <<un episodio isolato, che possa essere completamente cancellato dalla coscienza del soggetto tramite il percorso rieducativo>>18; in poche parole vi deve essere un convincimento nel giudice tale che lo porti a ritenere che il giovane si asterrà dal compiere nuovi reati, ma anche che, tramite la sottoposizione del soggetto al progetto di intervento, si presenti una particolare probabilità di cambiamento, un completo recupero, ed una risocializzazione del giovane.
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4. L’ELABORAZIONE DEL PROGETTO DI INTERVENTO: