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Le principali teorie degli investimenti diretti ester

Fino alla fine degli anni sessanta il fenomeno degli IDE veniva interpretato facendo riferimento a concetti macroeconomici nell’ambito della teoria

neoclassica.8 Secondo questa teoria gli IDE traevano la loro ragion d’essere nei

differenziali dei tassi di redditività del capitale nei diversi paesi. A sua volta i movimenti del capitale tendevano a riportare i tassi di redditività del capitale all’equilibrio ed erano dunque diretti principalmente verso i “paesi del terzo mondo”.

Questo approccio era vincolato agli assetti internazionali tipici del periodo precedente alla seconda guerra mondiale, dove gli investimenti prevalentemente provenivano da paesi industrializzati ed erano destinati verso i paesi in via di sviluppo(PVS). Già a partire dai primi anni cinquanta il flusso di IDE si è pero concentrato da e per i paesi industrializzati e l’approccio neoclassico ha ben presto mostrato limiti interpretativi.

Le prime teorie non neoclassiche del fenomeno della internazionalizzazione e quindi degli IDE provengono dalle teorie oligopolistiche dei mercati9, anche

perché molti settori oligopolistici, come ad esempio informatica, auto, pneumatici, chimica di base e petrolchimica sono fortemente caratterizzati dalla presenza di imprese multinazionali. Il concetto base della teoria oligopolistica è che le imprese che crescono all’estero godono di qualche tipo di vantaggio monopolistico che consente a loro di esercitare un potere di mercato e dunque di conseguire extra-profitti. Tale vantaggio monopolistico può derivare dal possesso esclusivo di risorse, tecnologie di processo, prodotti, marchi…; esso può risultare duraturo nel tempo o esaurirsi dopo un certo periodo, dopo aver comunque

8 Per maggiori approfondimenti fare riferimento a “L’internazionalizzazione dell’impresa: le principali teorie degli

investimenti diritti esteri”- Introduzione

9 Per maggiori approfondimenti fare riferimento a “L’internazionalizzazione dell’impresa: le principali teorie degli

consentito all’impresa multinazionale il vantaggio della prima mossa.

Tra i diversi teorici di questo filone analizzeremo innanzitutto i modelli di Vernon e Hymer, che risalgono alla seconda metà degli anni sessanta, seguito da quello più recente, sviluppato a partire dagli ultimi anni ’70 da Graham.

1.1 Il modello di Vernon10

Vernon imposta la propria teoria sul noto concetto del “ciclo di vita del prodotto”. L’idea di fondo è che esista una stretta relazione tra ciclo di vita del prodotto, caratteristiche dei paesi e l’espansione internazionale delle imprese ovvero gli investimenti diretti esteri.

Vernon parte dal presupposto che gli Stati Uniti si trovano in una situazione particolare rispetto al resto del mondo. Le imprese statunitensi oltre che avere più facile accesso alle più prestigiose università del mondo e quindi ad essere maggiormente in grado di percepire le opportunità aperte dagli sviluppi della fisica, della chimica e delle scienze biologiche, sono anche a diretto contatto con il mercato interno più avanzato del mondo. Le imprese USA sono quindi in grado di capire l’opportunità di trasformare le nuove conoscenze in nuovi prodotti commerciabili, prima delle imprese di altri paesi. L’ipotesi di base del modello è che i produttori USA sono probabilmente i primi ad accorgersi dell’opportunità ad introdurre nuovi prodotti destinati a consumatori ad alto reddito e a sostituire lavoro.

Il modello propone una dinamica localizzativa articolata su quattro fasi.

Nella prima fase(introduzione del prodotto sul mercato) il prodotto introdotto nel paese dal mercato più avanzato, è nuovo e non standardizzato. Il suo disegno è ancora incerto, le tecniche di produzione sono in uno stato fluido e

incertezza sulle dimensioni finali del mercato, sugli sforzi che faranno i rivali per conquistarselo. E’ più importante per l’impresa la capacità di essere flessibile, di sperimentare vari modelli e materie prime e di apprendere che non di ottimizzare. L’elasticità del prezzo del prodotto è bassa e le differenze di costo contano ancora poco.

Nella seconda fase si afferma uno standard di base, anche se ciò non implica uniformità in quanto si possono moltiplicare le tipologie e le varianti di prodotto. La domanda cresce rapidamente e diminuisce il bisogno di flessibilità. Si ricercano e si affermano economie di scala anche perché diventa significativo il problema dei costi. Comincia a manifestarsi una domanda del prodotto anche il altri paesi, quelli a più alto reddito e più simili agli Stati Uniti anche in termini di alto costo del lavoro. Si comincia quindi ad esportare, in teoria fino a quando le capacità produttive non siano pienamente utilizzate per l’offerta domestica, la somma dei costi di trasporto più costi marginali di produzione sono inferiori al costo medio di produzione nei mercati ove si esporta. Quando diventano superiori, diventa conveniente investire all’estero. Se le capacità produttive domestiche sono pienamente occupate, il confronto è tra costi medi più costi di trasporto per la produzione interna e costi medi per la produzione estera, anche perché nel paese d’origine per esportare sarebbe necessario costruire un nuovo impianto. Infine anche la forza della protezione brevettale per il first comer entra in gioco.

Nella terza fase(maturità) le vendite sul mercato interno si stabilizzano, mentre le dimensioni dei mercati esteri continuano a crescere fino a permettere produzioni in loco efficienti, sfruttando le economie di scala. I costi diventano di primaria importanza. Nel complesso crescono in modo significativo gli incentivi e le ragioni per investire all’estero. L’impresa innovatrice, per mantenere la propria quota di mercato e difendersi dai potenziali entranti, investirà a valle della filiera(commercializzazione, assistenza e manutenzione) e sostituirà le esportazioni con la produzione nei mercati esteri, trasferendovi le proprie tecnologie di processo.

Infine, nella quarta ed ultima fase(declino), la domanda del prodotto ha esaurito la crescita, ed è ovunque stabile o in calo; i processi imitativi sono ormai completi, sia nel paese d’origine che nei paesi esteri, e la tecnologia è del tutto matura e standardizzata e perfettamente accessibile agli imitatori locali. In questa fase le imprese decentreranno la produzione nei paesi ove i fattori produttivi hanno costo inferiore. Questo significa che se nelle prime tre fasi il target è rappresentato da pesi caratterizzati da modelli di consumo analoghi a quelli del paese di origine dell’impresa multinazionale, ora l’IDE si rivolge prevalentemente verso paesi poco sviluppati o in via di sviluppo,

La teoria del ciclo di vita del prodotto è stato per lungo tempo il modello interpretativo degli IDE più noto e generalmente accettato ed in effetti ha notevolmente contribuito alla comprensione dei processi di crescita internazionale delle imprese statunitensi, almeno tutto il corso degli anni sessanta, quando gli USA rappresentavano di gran lunga la principale sorgente a livello mondiale del processo innovativo e degli IDE, che assumevano prevalentemente la forma dell’investimento greenfiel(costruzione di nuove strutture produttive).

La capacità esplicativa del modello di Vernon è tuttavia venuta meno quando la diffusione internazionale degli IDE si è ampliata in nuove direzioni ed ha coinvolto nuovi soggetti, evidenziando una crescente interdipendenza dei diversi processi di internazionalizzazione, sia nel tempo che nello spazio.

1.2 Il modello di Hymer 11

A differenza del modello di Vernon, il modello di Hymer pone al centro dell’attenzione l’impresa e non il singolo prodotto. Hymer parte dal presupposto

reciproci tra i paesi avanzati; egli ricerca quindi nelle caratteristiche dell’impresa le determinanti del processo di internazionalizzazione. In una prima fase, l’impresa cresce a livello nazionale attraverso un processo di concentrazione che le consente di ottenere profitti sempre maggiori. A un certo punto però il processo di concentrazione a livello locale non può più essere spinto oltre e l’elevato profitto derivante dal grado di monopolio raggiunto è utilizzabile per investimenti all’estero, aventi come obiettivo quello di estendere il processo di crescita anche oltre frontiera.

Hymer elenca una serie di potenziali vantaggi dell’imprese multinazionali, tra i quali l’innovatività del prodotto di Vernon, il possesso di un marchio, la capacità di raccogliere capitali, le economie di scala… L’impresa dovrà scegliere se conviene esportare o produrre in luogo a seconda delle condizioni del mercato in cui essi si trova ad operare. Se la scelta cade sulla produzione in luogo nei confronti delle esportazioni, l’impresa multinazionale dovrà decidere se intervenire direttamente tramite IDE oppure cedendo licenze a produttori locali. IDE risulterà favorito quanto più i vantaggi competitivi dell’impresa multinazionale consistono nel possesso di know how specialistico e di altri intangible assets, che difficilmente posso essere giustamente valorizzati tramite la cessione di licenze.

1.3 L’approccio strategico di Graham12 e il modello basato sulla teoria dei giochi

Graham sostiene che “nelle fasi di maturità e declino del prodotto il settore può essere caratterizzato dalla presenza di un forte oligopolio internazionale con fenomeni di rincorsa attraverso IDE tesi a creare minacce e deterrenti contro eventuali aggressioni sui mercati locali, più che a sfruttare un elemento di

12

Per maggiori approfondimenti fare riferimento a “Transatlantic Investment by Multinational Firms: a Rivalistic Phenomenon?” di Graham E.M. 1978

opportunità”. L’entrata di un’impresa su un mercato estero ha infatti un effetto di disturbo sulla situazione esistente su tale mercato, poiché la nuova entrante tende a sottrarre quote di mercato alle imprese locali. Il disturbo nei confronti dell’oligopolio esistente sarà tanto maggior quanto più l’impresa estera è efficiente. L’ingresso sul mercato dell’impresa estera indurrà le imprese locali a contromosse ostili, sia nel proprio mercato sia nel mercato di provenienza dell’impresa estera. Nel mercato locale questo comportamento si esprimerà tramite fusioni intrasettoriali, riduzioni di prezzo o politiche di differenziazione del prodotto. La rivalità potrà essere estesa anche al mercato estero se le imprese locali sono a loro volta in grado di sviluppare intangible assets rispetto alle imprese operanti sul mercato estero.

Secondo l’approccio della teoria dei giochi, la condotta delle imprese dipende in parte dalla consapevolezza delle conseguenze che ogni mossa strategica avrà sul comportamento dei rivali. La migliore risposta ad una nuova entrata in un mercato da parte di un concorrente estero può essere infatti la controentrata da parte delle imprese locali nel mercato estero. Infatti negli anni più recenti si è verificato un considerevole aumento dell’attività multinazionale dei diversi paesi, sia in entrata che in uscita, con la parziale eccezione del Giappone che è rimasto assai poco permeabile agli IDE, il che non può essere spiegato unicamente in termini di fattori quali l’esistenza o meno di barriere tariffarie o di altra natura. 2. Gli investimenti diretti esteri dei paesi industrializzati nel 2000

Nel 2000 gli IDE verso i paesi industrializzati sono aumentati del 21% superando di poco un 1 trilione di dollari, grazie allo straordinario risultato della Germania, secondo quanto afferma il Rapporto sugli investimenti nel mondo 2001(Worl Investment Report 2001), pubblicato dalla Conferenza della Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo(UNCTAD).

con 281 miliardi), grazie all’acquisizione della Mannesmann da parte di Vodafone Air Touch, che è stata la più grossa acquisizione di una società estera della storia come illustrato dalla figura 1.

Gli altri principali destinatari degli IDE l’anno precedente(1999) sono stati il Canada e il Regno Unito. Se i flussi verso il Regno Unito sono aumentati del 57%, raggiungendo i 130 miliardi di dollari, quelli verso il Canada sono aumentati di due volte e mezzo, per un totale di 63 miliardi di dollari. Il Canada ha registrato livelli di IDE in entrata e in uscita senza precedenti, che riflettono le molte importanti operazioni di F&A(fusioni e acquisizioni) effettuate soprattutto con partner europei e statunitensi.

Gli investimenti esteri diretti sono stai sostenuti anche in Irlanda.

Il Regno Unito ha mantenuto la sua posizione di primo paese al mondo fonte di IDE per il secondo anno consecutivo come illustrato dalla figura seguente.

Benché gli Stati Uniti rimangono il primo paese destinatario del mondo, i flussi di IDE diretti verso gli USA rispetto all’anno precedente sono diminuiti del 5%, assestandosi a 281 miliardi di dollari; anche i flussi in uscita($139 miliardi) hanno subito un lieve contrazione del 2%. Nel 2000, i flussi di investimenti in uscita dalla Francia sono stati estremamente elevati, persino superiori, per la

prima volta, a quelli dagli Stati Uniti. L’aumento è dovuto a numerose grandi acquisizioni, in particolare all’acquisto di Orange da parte di France Telecom. Nel 2000 il Giappone ha assistito ad una riduzione del 36% dei propri flussi in entrata, che si sono assestati a 8 miliardi di dollari. Tale fenomeno è dovuto in parte al prolungato rallentamento della crescita economica del paese, ma forse è anche indicativo del fatto che, sebbene il Giappone adotti delle politiche che favoriscono gli IDE, altri fattori scoraggiano i flussi di investimenti in entrata. Invece, i flussi in uscita sono aumentati fino a 33 miliardi di dollari, il livello più alto mai raggiunto negli ultimi 10 anni.

I paesi industrializzati continuano ad essere i principali destinatari degli IDE in entrata e in uscita; essi raccolgono più di tre quarti dei flussi in entrata globali. Nel 2000 la Triade – Unione europea (UE), Stati Uniti e Giappone – ha assorbito il 71% dei flussi mondiali in entrata e l’82% dei flussi in uscita. Alla fine degli anni 90 la Triade era la sede di quasi 50.000 società transnazionali (STN)3 ed ospitava circa 100.000 affiliate estere. All’interno della Triade, l’UE ha migliorato la propria posizione sia come destinatario che come fonte di IDE. Gli afflussi record di investimenti (617 miliardi di dollari) sono stati incentivati da ulteriori progressi compiuti nell’integrazione regionale; altri paesi dell’Europa occidentale (in particolare la Svizzera) e gli Stati Uniti rimangono i suoi principali partners al di fuori dell’Unione.

La struttura degli IDE è mutata all’interno della Triade. Il Giappone è diventato in un certo senso più importante come luogo di destinazione e meno importante come fonte di IDE, benché il suo peso in qualità di investitore esterno rimanga molto più elevato di quello di destinatario degli IDE. Il ruolo di principale investitore esterno della Triade, prima detenuto dagli Stati Uniti, è stato ora assunto dall’UE che, come gruppo, rimane il più importante investitore e destinatario. Di conseguenza, il capitale azionario intra-Triade riunisce la

terzo nel 1985. Tra il 1985 e il 1999, il numero di paesi ospitanti in cui la Triade predomina è aumentato per il Giappone e l’UE, ma è diminuito per gli Stati Uniti.13

3. Investimenti diretti Italiani in Cina

Lo scenario degli investimenti diretti esteri internazionali è in continua trasformazione. Tra i principali elementi di novità vi è il coinvolgimento di paesi rimasti fino a pochi anni fa ai margini del circuito mondiale degli IDE.

La Cina rappresenta ormai l’avamposto di queste trasformazioni, attraendo, da un lato, investimenti diretti sia labour che skill-intensive, e avendo, dall’altro intrapreso il sentiero multinazionale con i suoi maggiori gruppi industriali.

Un gran numero di multinazionali sta investendo in Cina attratte da un basso costo della forza lavoro e da un mercato interno di elevata dimensione. Uno degli obiettivi del governo è proprio quello di attirare investitori stranieri, consapevole del fatto che solo ricevendo tecnologia e capitali sarà possibile una crescita veloce nel processo di modernizzazione industriale.

In base ai dati forniti dal Ministero del commercio cinese gli investimenti diretti esteri italiani nel 2005 sono stati pari a 322 milioni di dollari relativi a 481 nuovi progetti, e l’ammontare cumulato degli investimenti diretti esteri(IDE) in Cina è arrivato nel 2005 a 2.546,6 milioni di USD. Nello stesso anno l’Italia ha confermato la quinta posizione tra gli investitori europei, dopo Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e Francia.

Oggi le aziende italiane operanti in Cina con una presenza diretta (escludendo Hong Kong) sono circa 1500, e operano attraverso varie forme: ufficio di rappresenta, ufficio acquisti, show room, ufficio vendite, centro servizi con partner locale, Wholly Foreign Owned Enterprise WFOE, produzione in loco,

13 Per maggiori approfondimenti fare riferimento a “ Gli IDE dei paesi industrializzati aumentano del 21%”

ecc..)

La maggior parte delle aziende italiane hanno scelto la formula dell’Ufficio di rappresentanza, mentre per quanto riguarda la scelta tra joint ventures e progetti a totale partecipazione straniera si registra una certa prevalenza della prima categoria, all’interno della quale risultano preponderanti i progetti a maggioranza di capitale cinese (54%), seguiti da quelli nei quali la quota di controllo è italiana (27%) e da quelli paritetici (il restante 19%).

Tabella 20

Fonte: Approvvigionamenti in Cina di Guido Nassimbeni e Marco Sactor

Per quanto riguarda la dimensione il 75% degli investimenti italiani sono riconducibili alle aziende di grandi dimensioni e soltanto il 10% riguardano le piccole e medie imprese.

Dal punto di vista settoriale, gli investimenti italiani sono abbastanza diversificati, con quote però più significative per l’auto, la meccanica, la chimica e il tessile. E’ in forte sviluppo la presenza di banche, società di spedizione, studi legali e di consulenza.

Joint ventures

54% 27%

19%

delle 31 province del Paese, situate nella fascia costiera: Shanghai, Jiangsu, Shandong, Hebei e Tianjin. Le aziende italiane sono comunque presenti in 25 province.14

4. Investimenti diretti esteri (IDE)

4.1 Premessa: La Cina non è un mercato per tutti

E’ molto importante che un impresa prima di investire in Cina, analizzi bene tutte le problematiche che tale scelta comporta in relazione alla peculiarità di quel paese. Tali peculiarità riguardano: le condizioni di mercato, l’ambiente operativo, la cultura e le caratteristiche istituzionali.

Le condizioni di mercato e l’ambiente operativo possono rendere la Cina un mercato non adatto alle imprese italiane ma saranno sopratutto la cultura cinese e il contesto istituzionale che richiederanno una certa riflessione: la diversità della Cina richiede risorse e energie di cui non tutte le imprese dispongono.

Un impresa italiana prima di fare questo grande passo dovrebbe farsi due domande:

1. La Cina è pronta per noi? 2. Noi siamo pronti per la Cina?

Per rispondere alla prima domanda dovremmo capire se il mercato cinese è pronto per noi, ovvero analizzare il mercato cinese, che presenta caratteristiche uniche.

Prima di tutto il mercato cinese è molto frammentato: il nord nei confronti del sud, le realtà urbane rispetto a quelle rurali, la costa nei confronti dell’interno. Nonostante la Cina sia una nazione, per le sue dimensioni essa presenta le caratteristiche di un continente e quindi è normalissimo trovare differenze

14 Per maggiori approfondimenti fare riferimento a “L’economia della Cina nel 2006” pubblicato da Italian Trade

attitudinali e di comportamento all’interno della nazione.

La scarsità delle infrastrutture adeguate e l’assenza di mobilità hanno polverizzato il mercato cinese rendendolo un mosaico di mercati regionali.

Il mercato, inoltre, è molto competitivo, infatti le sue potenzialità e di conseguenza la sua importanza strategica hanno attirato la maggior parte delle grandi imprese internazionali. A sua volta quest’ultime entrano in concorrenza con molte delle imprese locali. Molte aziende straniere lottano per una posizione di rilievo sul mercato e grazie a quanto hanno guadagnato altrove, possono permettersi di essere molto aggressive in Cina. I locali a loro volta ossessionati dalle “dimensioni”, inseguono quote di mercato ad ogni costo.

In terzo luogo, il mercato cinese è molto dinamico. Ad esempio nel settore dei beni di consumo confezionati non si è ancora manifestata una fedeltà da parte dei consumatori. La presenza di una enorme varietà di marche e nuove offerte sul mercato danno la possibilità ai clienti di fare esperimenti. Spesso i consumatori cinesi ritengono che la presenza di una forte varietà costituisca la vera natura di un’economia di mercato.

Per capire se noi siamo pronti per la Cina, dobbiamo chiederci se siamo pronti per accettare la cultura e i rituali del comportamento cinese. Ci sono tre concetti di rilevante importanza: la rispettabilità, il guanxi, e la pazienza.

La rispettabilità non fa riferimento solo al prestigio sociale ma anche al riconoscimento pubblico dell’integrità morale dove prevale la dignità. Un comportamento adeguato determina il rispetto che a sua volta permette le relazioni sociali.

Infine quando arriviamo in Cina una cosa che dobbiamo accettare subito è la pazienza, questo non significa che le cose vadano necessariamente con lentezza. Il problema, infatti, è nel continuo cambiamento di velocità dell’orologio: alcune volte più veloce alcune volte più lento a seconda della necessità. E non è come

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