• Non ci sono risultati.

IL DRAMMA DEI PROFUGHI: DUE REALTÀ A CONFRONTO

2. Vita da esiliat

2.1 Le profughe e le loro nuove responsabilità

L’esperienza del profugato aiutò le donne a rendersi conto delle proprie capacità, anche senza la guida di un uomo erano capaci di gestire la propria famiglia. In mancanza del padre e se i genitori erano troppo anziani, era infatti la madre che, una volta arrivati a destinazione, doveva cercarsi un

112 Patrizia Gabrieli, La Taula del Carso. A ricordo di chi ha vissuto la Grande Guerra, in «El Pais. Notiziario di

Laste», numero unico, dicembre 2015, p. 4.

Traduzione: I lastesani ci riempiono perfino il Sagrato! (luogo adibito ad accogliere le salme dei defunti. Il termine “Mosse” è un usato come soprannome per i lastesani dal resto dei comunisti di Rocca, poiché solo a Laste si usa “mosse” per dire “devo”, nel resto del comune si usa “me tocia” o “cogne”.

113 Patrizia Gabrieli, La Taula del Carso. A ricordo di chi ha vissuto la Grande Guerra, op. cit., p. 5. 114 Ibidem.

115 Ibidem.

62 lavoro, come fece la mamma di Emma Angiol. Purtroppo, nel suo caso, la donna trovò lavoro in una fabbrica, per cui il rumore delle macchine le faceva sentire ancor più la mancanza di casa e del silenzio dei boschi, ma la donna resistette comunque per tutta la durata della guerra, poiché quello era l’unico modo per sfamare i suoi figli117.

Furono molte le donne che cercarono un lavoro nei paesi di accoglienza, si impegnavano molto e se non lo trovavano o se non avevano più di che sfamare i propri figli, cercavano di scambiare quel poco che era rimasto loro o le poche corone del sussidio con patate e altri viveri118. Se nemmeno

questo bastava, l’elemosina restava l’ultima risorsa e in questa furono coinvolti anche i bambini, mandati di casa in casa a chiedere un pugno di farina o altri generi di prima necessità119.

Si può anche ipotizzare che il segreto della sopravvivenza delle donne in condizioni tanto precarie, lontane dalla loro patria, e del loro adattamento a tale vita fu proprio il desiderio di combattere per i propri figli120. Questo desiderio si tradusse, in effetti, non solo nell’accettare lavori umili o nel chiedere la carità, ma anche nel protestare animatamente con le associazioni e i governi ospitanti per le condizioni in cui li stavano costringendo a vivere121.

Il profugato le portò a volte anche a scelte difficili, quando non potevano in alcun modo mantenere i propri figli e quando questi non potevano lavorare, se ne dovevano separare, mandandoli a stare con altre famiglie o, nel peggiore dei casi, abbandonandoli122. Tuttavia, non li abbandonarono sempre di loro spontanea volontà, se venivano arrestate o internate, l’allontanamento non dipendeva da loro. Questo fu quello che accadde a Maria Piaz Dezulian, internata a Katzenau e poi messa al confino fino alla primavera del 1917 a St. Johann in Pongau nel Salisburghese, perché aveva aiutato alcuni disertori a passare in Italia nel novembre del 1914123. Nelle varie lettere scritte ai figli leggiamo la sofferenza procuratale dalla loro lontananza e dal fatto che le scrivevano solo raramente o che le lettere non le arrivavano, ma vi troviamo anche il senso di colpa per averli abbandonati in un momento tanto difficile e pericoloso. La sofferenza era tale da spingerla ad affermare che avrebbe preferito morire, piuttosto che continuare a stare così male, anche perché ad un certo punto perse la speranza di poterli rivedere124.

117 Testimonianza di Emma Angiol, raccolta dal maestro Franco Deltedesco il 29 aprile 2009. 118 Roja de Dorich, op. cit., p. 4.

119 Stefano Crepaz, Soffrire la fame, testimonianza raccolta per il progetto «Il nonno racconta», curato dal maestro

Franco Deltedesco.

120 Luciana Palla, Scritture di donne. La memoria delle profughe trentine nella prima guerra mondiale, op. cit., p. 48. 121 Ivi, p. 50.

122 Ivi, p. 46.

123 Luciana Palla, a cura di, Corrispondenza da Katzenau (1916-1917), in «DEP – Deportate, esuli, profughe», luglio

2007, n.7, p. 124.

63 Proprio la scrittura è una delle pratiche in cui si cimentarono in molte durante la guerra. Scrivere era spesso l’unico modo per esprimere tutto quello che stava accadendo loro, ma era utile anche per mantenere i rapporti con il resto della famiglia. Ci sono stati lasciati in effetti moltissimi scritti, fra i quali vi sono soprattutto diari e lettere. Nei diari, queste donne raccontano le esperienze vissute, le persone incontrate, ma anche semplicemente i propri pensieri (a volte influenzati dalla propaganda), riportando anche canzoni e poesie, proprio come nel diario di Candida Vallazza125.

Molto di quello che viene scritto dipende anche dalla funzione che ognuna dava al proprio diario o anche al grado di istruzione. In generale troviamo però dei temi ricorrenti, come il dolore per la lontananza di mariti, figli e fratelli, ma anche per la lontananza dalla propria patria126. Lo stesso vale per le lettere, che hanno un aspetto meno intimistico e furono fra le altre cose un modo per ricreare la comunità dispersa durante il periodo di profugato127.

Da esse apprendiamo anche la nuova presa di coscienza delle donne in merito al loro ruolo e alle loro capacità. Purtroppo, tale consapevolezza dovette essere repressa nell’immediato dopoguerra, quando gli uomini tornarono a casa e la gestione della famiglia tornò ad essere quella patriarcale del periodo anteguerra. Toccò infatti alla donna ricomporre la famiglia e gli affetti alla fine del conflitto, tornando a ricoprire il proprio ruolo di madre, mentre il marito riprendeva il proprio di capofamiglia128.

In effetti, bisognerà aspettare fino al secondo dopoguerra per vedere un cambiamento nel ruolo della donna nella società.