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LE SOLUZIONI INTERPRETATIVE PROSPETTABILI

Dato che la proposta di modifica della disciplina delle concentrazioni non ha avuto seguito, al momento non resta che applicare la disciplina vigente, nonostante le problematiche interpretative sopra evidenziate. Il problema principale, però, è individuare una fattispecie astratta da applicare a tutte le possibili modalità di manifestazione di questo fenomeno. In ogni caso, per guidare la ricerca verso una soluzione il più possibile soddisfacente, si può partire da un dato di fatto, ovvero che i legami strutturali (specialmente se incrociati) in aggiunta, eventualmente, a quelli personali creano molto spesso dei veri e propri fenomeni di “collusione tacita”420 o,

comunque, si può parlare più semplicemente di collaborazione tra imprese, con possibili ricadute sul piano concorrenziale.

Considerando in un primo momento la disciplina delle intese restrittive421,

l’articolo 101 TFUE (e, simmetricamente, l’articolo 2 l. ant.) prende in considerazione, tra le possibili manifestazioni di un’intesa, la forma residuale della pratica concordata, cioè una “forma di coordinamento fra imprese che, senza spingersi fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce consapevolmente una collaborazione pratica fra le stesse ai rischi della concorrenza”422. In questa ipotesi, non è necessario che venga accertata

l’esistenza di un accordo per perseguire una forma di coordinamento produttivo di effetti anti-competitivi. Infatti, è “sufficiente” provare che tale coordinamento sia nei fatti avvenuto. Sotto questo punto di vista, la Corte di giustizia, tramite una giurisprudenza consolidata, sostiene che tali pratiche possano essere realizzate anche in mancanza di effetti concreti sui mercati rilevanti e ha introdotto, a tal proposito, la nozione di “oggetto anticoncorrenziale” della pratica stessa423. Tramite questa figura

interpretativo, non sarebbe necessario che la pratica concordata abbia prodotto effetti distorsivi, poichè la tutela antitrust si limita ad un accertamento dell’idoneità “anticoncorrenziale”. A fortiori, l’applicazione di questa fattispecie ai legami strutturali appare a prima vista realizzabile se si fa riferimento, in particolare, all’articolo 2, comma 2, lett. b) e d) l. ant. Questa disposizione individua nell’impedimento o nella limitazione della produzione, degli sbocchi o, in generale, degli accessi al mercato come una

420 M. FILIPPELLI, Il problema dell’oligopolio nel diritto antitrust europeo: evoluzione, prospettive e

implicazioni sistematiche, in Riv. soc., fasc. 2, 2018, pag. 568.

421 Secondo M. C. CORRADI, op. cit., pag. 435, questa disciplina “[…] estremamente generale e

flessibile, continua […] ad essere il migliore referente giuridico […]” (nostra sottolineatura).

422 COMMISSIONE, Linee direttrici sull’applicabilità dell’articolo 101 del trattato sul funzionamento

dell’Unione europea agli accordi di cooperazione orizzontale, 2011/C 11/01, 14.01.2001, punto 60, nostra sottolineatura.

423 Cfr. diffusamente CGUE, causa C-49/92 P, Commissione/Anic Partecipazioni SpA, 08.07.1999,

punto 122 e ss., su impugnazione di CGUE, causa T-6/89, Enichem Anic/Commissione, 17.12.1991; CGUE, causa C-407/04 P, Dalmine/Commissione, 25.01.2007, punto 84, su impugnazione di

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caratteristica anti-competitiva dell’intesa o della pratica concordata. Pertanto, vengono menzionati gli effetti anti-competitivi di tipo coordinato e di natura orizzontale o verticale, già oggetto di analisi e ricondotti ai legami strutturali.

A questo punto, è doveroso però riportare che al di là di questi evidenti vantaggi sul piano applicativo della fattispecie, va sottolineato che dal punto di vista sanzionatorio la comminatoria della nullità dell’accordo restrittivo esteso ad ogni effetto prodotto da esso (articolo 2, comma 3 l. ant.) è sicuramente troppo incisiva sul piano concorrenziale. Sebbene questa sia un’importante misura di tutela dei terzi e, in particolare, dei consumatori che possono ottenere il risarcimento ai sensi dell’articolo 33, comma 2 l. ant.), essa è scarsamente incisiva sul piano degli effetti creatisi. Infatti, le partecipazioni societarie nelle imprese aderenti alla pratica (che sotto il profilo delle “minority shareholding” sono inevitabilmente imprese concorrenti) non vengono dismesse e nemmeno i legami personali che si sono creati. Sotto questo versante, in aggiunta, l’applicazione della disciplina in esame creerebbe una sorta di doppio binario applicativo. Infatti, per le intese restrittive tra imprese bancarie o, in generale, operanti nei mercati finanziari, se il relativo accertamento ricade nell’ambito della competenza dell’AGCM, al verificarsi dei requisiti richiesti dalla normativa italiana sugli “interlocking directorates” le relative autorità di vigilanza hanno la facoltà di intervenire (ma non l’AGCM, con la conseguenza che sarebbero necessari quantomeno due diverse forme di accertamento o sistemi di cooperazione tra autorità amministrative). Viceversa, nel caso di pratiche accertate tra imprese non operanti nei suddetti mercati o che interessano la sfera di competenza della Commissione europea, non sono previsti poteri di intervento amministrativo. In aggiunta, con la sanzione della nullità della pratica si disincentiverebbe l’acquisto di partecipazioni in altre imprese, ben oltre i limiti presenti nell’ordinamento societario per gli acquisti reciprochi di azioni. Infine, un ulteriore elemento a sfavore di tale fattispecie in questo ambito è che rimane di difficile operatività sul piano pratico-applicativo la “prova” dell’intesa, dato che è necessario verificare che vi siano stati più comportamenti (anticompetitivi) da parte di più imprese e che essi siano stati “ripetuti” e “non episodici”. Inoltre, devono essere realizzati in maniera uniforme e parallela e, soprattutto, devono costituire la conseguenza di una “concertazione” e non di una iniziativa unilaterale424: Per meglio rendere in pratica

questi concetti, autorevole dottrina riferisce che queste condotte devono costituire

CGUE, causa T-50/00, Sez. II, Dalmine/Commissione, 08.04.2004; COMMISSIONE, Linee direttrici cit., punto 24 e ss.

424 Si veda Cons. Stato, Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 10, in Foro amm., 2010, 1, 132,

sull’impugnazione del provvedimento Tar Lazio, Sez. I, 12 maggio 2004, n. 10445, sul ricorso per l’annullamento di AGCM, provv. n. 11726, AZIENDE DI TRASPORTO PUBBLICO LOCALE-PETROLIERI, in Boll., 8, 2003, in materia di intese restrittive della concorrenza.

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comportamenti “consapevolmente adottati, mediante contatti diretti o indiretti”425. E’

evidente che, allora, non tanto nel caso delle partecipazioni incrociate fra due o più imprese, ma semmai nei semplici acquisti che veicolano il “passive investment” la riconducibilità della disciplina delle intese (nella fattispecie, delle pratiche concordate) sia impropria.

Spostando l’attenzione, in seconda battuta, alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante (articolo 102 TFUE e articolo 3 l. ant.), giova riportare che una parte della dottrina426 ha cercato di ricorrere alla nozione di “posizione dominante

collettiva” (“joint dominance”) per configurare i legami partecipativi come una forma di coordinamento delle condotte delle imprese situate in posizione dominante. Sul tema, inoltre, a partire proprio dalla normativa e dalla prassi anti-concentrativa427, si è

sviluppata un’interessante (ma ormai superata) giurisprudenza comunitaria, nota come dottrina Airtours428. A scoraggiare questa linea interpretativa è il fatto che per provare la

“dominanza collettiva” è necessario superare un test rigoroso429, a cui non risponde

sempre positivamente la figura dei legami strutturali. Come ha previsto la Corte, per integrare un’ipotesi di “joint dominance” ciascuna delle imprese operanti in regime di oligopolio deve poter conoscere le condotte delle altre imprese, al fine di accertarsi se venga adottata la stessa linea da parte delle restanti o della maggior parte. Da questo punto di vista, se le partecipazioni sono di natura attiva e si costituiscono degli “interlocking directorates” nulla quaestio, mentre risulta più difficile accertare il requisito appena descritto nel caso di mero “passive investment”. Infatti, in questa situazione si verificano al massimo soltanto effetti di natura unilaterale, per i quali non ha rilevanza la capacità di anticipare le condotte delle concorrenti. In secondo luogo, il coordinamento deve essere stabile nel tempo (come nel caso delle pratiche concordate) e, conseguentemente, vi deve essere uno strumento in grado di esercitare su ogni impresa una forma di deterrenza dalla deviazione dall’accordo. Anche in tali circostanze, l’accostamento alle minority shareholding appare di difficile fattibilità data la difficolta per i motivi sopra esposti. Infine, è necessario provare che le reazioni dei concorrenti e dei consumatori non incidano sulla linea d’azione decisa. Quest’ultimo punto, sicuramente, è quello che tra tutti consente meno di applicare l’articolo 102 alle

425 G. F. CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 1. Diritto dell’impresa, Milano, 2013, pag. 226.

426 Questa riflessione è riportata sia da G. D. PINI, op. cit., pag. 905, che da M. C. CORRADI, op.

cit., pag. 424 e ss.

427 Tra tutti, COMMISSIONE, caso n. IV/M012, Varta/Bosch, 31.07.1991, in cui l’acquisto

congiunto di una società da parte di due altre società (una col 65 % e l’altra col 35 %) ha consentito alla Commissione di rilevare come il controllo congiunto si riversasse in una posizione di dominio collettivo.

428 CGUE, causa T-342/99, Airtours/Commissione, 6.06.2002, relativa alla decisione in materia

concentrativa COMMISSIONE, caso IV/M.1524, Airtours/First Choice, 22.09.1999.

429 Si veda G. COLANGELO, Il caso Airtours, in Merc. conc. reg., fasc.3, 2002, pag. 493, in

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partecipazioni minoritarie che non veicolano il controllo. Per alcuni, non a caso, è riduttivo, se non addirittura fuorviante, far riferimento a tale test, perché dipende strettamente dal caso concreto e, in particolare, assume a riferimento il caso, probabilmente paradigmatico, del parallelismo tacito di prezzo in oligopolio”430.

Vi è, infine, un’ulteriore fattispecie da cui possono essere tratti interessanti elementi di analisi, ovvero il gruppo paritetico di fatto431. Esso consiste in una “unità

direzionale” tipica del gruppo di società, che deriva “dalla mera presenza di legami personali negli organi amministrativi delle società sorelle (cc.dd. interlocking directorates), connessa ad una stretta contiguità delle loro attività economiche ed al perseguimento di un unico comune interesse”432. Tuttavia, è a sua volta controverso se il gruppo

paritetico di fatto possa essere ricondotto all’interno della disciplina delle concentrazioni. Infatti, la fattispecie concentrativa trae origine dalla nozione di controllo di cui all’articolo 3 Reg. concentrazioni o articolo 7 l. ant. (e, in particolare, all’articolo 5 l. ant. per le modalità di acquisto), ma nel gruppo paritetico di fatto, per definizione, non si ha controllo, bensì una cooperazione “democratica” fra imprese433.

Dunque, le vie interpretative astrattamente ipotizzabili sono due, nel senso che vi è chi ritiene che tale figura sia riconducibile alla fattispecie delle intese restrittive della concorrenza, in quando viene focalizzata l’attenzione sui contratti che danno vita a tali forme di coordinamento (rectius, il contratto di acquisto di partecipazioni minoritarie)434, e chi, invece, che la riconduce a quello della concentrazione. Sotto

quest’ultimo aspetto, in particolare, deve essere ricordata la posizione della Commissione, secondo la quale si devono ricondurre all’area delle concentrazioni soltanto quei gruppi paritetici nei quali si realizza la “compensazione interna di profitti e perdite”; in particolare, può essere utilizzato come indice presuntivo “[l]’unione di fatto […] rafforzata da partecipazioni incrociate tra le imprese che costituiscono l’entità economica”435. Sotto questo punto di vista, la Commissione ritiene sufficiente per

430 M. FILIPPELLI, op.cit., nota 43, in cui si specifica che tale fattispecie “[…] può derivare da

una serie di vincoli-contrattuali, strutturali, partecipativi (e dunque può non essere del tutto tacita)” (nostra sottolineatura).

431 Si veda nella dottrina tedesca la figura analoga del “Faktischer Gleichordnungskonzern”. 432 R. SANTAGATA, I “gruppi paritetici” nella disciplina antimonopolistica, in Riv. soc., fasc.1, 2003,

pag. 257.

433 R. SANTAGATA, op. cit., pag. 256.

434 Cfr. M. S. SPOLIDORO, op. cit., pag. 515; AGCM, provv. n. 2242, Cariplo/Fondazioni Casse di

Risparmio Italia Centrale, in Boll., 34, 1994.

435 COMMISSIONE, 2008/C 95/01, punto 10 e, analogamente, si esprimeva in

COMMISSIONE, Progetto di comunicazione della Commissione concernente le operazioni di concentrazione e di cooperazione a norma del regolamento (CEE) n. 4064/89 del Consiglio, del 21 dicembre 1989, relativo al controllo delle operazioni di concentrazione tra imprese, 90/C 203/06, 14.08.1990, punto 41, secondo cui si ritiene che “due o più imprese possano unirsi anche senza porre in essere una relazione di subordinazione e senza perdere la loro personalità giuridica”, in quanto nel Reg. concentrazioni si fa riferimento “”[…] non soltanto alle concentrazioni giuridicamente rilevanti, ma anche alle concentrazioni economicamente rilevanti”.

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integrare una concentrazione l’instaurazione in via contrattuale di una “gestione economica comune”, che in tal caso si realizzerebbe mediante uno scambio di partecipazioni tra imprese indipendenti436. Tuttavia, si avverte un elemento di forte

problematicità nel ricondurre il fenomeno in esame, tramite la figura del gruppo paritetico di fatto, alla disciplina delle concentrazioni. Infatti, individuare correttamente da un punto di vista procedurale le parti notificanti l’operazione di acquisto, ai fini della comunicazione dell’operazione di concentrazione, appare difficile se non impossibile nel caso di un gruppo paritetico di fatto. Questo aspetto, allora, rischia di creare scarsa certezza nell’applicazione della normativa concentrativa, con conseguenze spiacevoli per gli operatori economici anche in termini di maggiori costi amministrativi.

Dunque, il tentativo di ricondurre le partecipazioni minoritarie non di controllo entro la disciplina delle intese (tramite la sussunzione nelle pratiche concordate o nel gruppo paritetico di fatto) o all’interno dell’abuso di posizione dominante (tramite la dominanza collettiva) o entro quello delle concentrazioni (mediante il gruppo paritetico di fatto) non è pienamente soddisfacente, dati i problemi applicativi che le autorità si troverebbero ad affrontare. È anche vero, però, secondo l’opinione di chi scrive, che il problema interpretativo non sta nella disciplina delle intese o dell’abuso o delle concentrazioni di per sé considerate, quanto nel meccanismo logico-interpretativo di riconduzione del fenomeno in esame in esse. Il problema, allora, sarà ricondurre caso per caso il fenomeno all’interno di una di queste tre fattispecie.

436 R. SANTAGATA, op. cit., pag. 266.

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CONCLUSIONI

Osservazioni finali e spunti di riflessione

Concludendo il presente lavoro, è opportuno ripercorrere brevemente alcuni degli aspetti più rilevanti. Innanzitutto, è possibile sostenere che nell’ambito del controllo antitrust la nozione di influenza determinante rivesta, indiscutibilmente, un ruolo da protagonista e, tra l’altro, non potrebbe dirsi diversamente se non con il rischio di assumere una posizione contra-legem. In maniera coerente con quanto riportato dalla Commissione europea, questa nozione è idonea a racchiudere la possibilità che il soggetto controllante partecipi al processo decisionale strategico dell’impresa partecipata, eventualmente tramite la nomina di propri rappresentanti nel “management” aziendale, in grado di rendere sempre disponibili al primo informazioni sensibili sull’andamento economico, finanziario e commerciale della seconda. Quest’ultimo aspetto, in particolare, ha offerto lo spunto per ripercorrere il tema delle partecipazioni minoritarie o, più in generale, delle “minority shareholding”. Come è stato rilevato, sarebbe al riguardo riduttivo, se non addirittura scorretto sul piano giuridico, limitare l’analisi dei legami strutturali e personali nascenti da queste partecipazioni al solo ambito concentrativo. In questa disciplina, infatti, riveste un ruolo da protagonista il controllo, che, seppure definito in sede comunitaria in maniera estremamente flessibile, richiede come base minima e insindacabile l’apporto decisivo della controllante nelle scelte gestorie della controllata. Questo sarebbe di per sé sufficiente ad escludere l’applicabilità della disciplina concentrativa alle “minority shareholding”. Tuttavia, sebbene fino a qualche anno fa si sia registrata una particolare attenzione a questo fenomeno da parte della dottrina, della prassi amministrativa e della giurisprudenza, attualmente esso vive in uno stallo normativo, ma anche giurisprudenziale e, soprattutto, pratico-amministrativo. È terminata la spinta propulsiva (e politica) che aveva condotto la Commissione a ragionare in un’ottica di necessità di intervento tramite nuovi strumenti giuridici e competenze amministrative. Ad oggi, probabilmente, altre sono le esigenze della Commissione e lo testimoniano le scelte politiche seguite dalla precedente Commissaria europea alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Non pare neppure che nel corso dell’attuale (e da poco rinnovata) legislatura europea il tema possa essere affrontato nuovamente nelle sedi opportune, dato che la carica di vertice della Direzione generale della Concorrenza è rimasta alla precedente Commissaria. Onestamente, stupisce più di tutti l’assenza, in questo dibattito, dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale, non è più intervenuta sul tema, dopo una stagione di grande interesse – espresso soprattutto nella

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sponsorizzazione di un intervento normativo sul punto – e dopo la già richiamata indagine condotta sui legami personali nel sistema finanziario.

La questione centrale, però, non sta tanto nel ricercare le cause dell’assenza di interesse pubblico in materia – sicuramente dovuto al fatto che la maggioranza degli “stakeholder” risulta contraria ad un intervento ad hoc -, quanto in ciò che resta da fare sul piano pratico-applicativo. Se è vero che gli aspetti di frizione con la disciplina concentrativa sono molti e difficilmente superabili in chiave ermeneutica, è evidente ugualmente che, in assenza di una normativa specifica, è soltanto tramite la suddetta disciplina che può emergere il fenomeno di cui si parla. Infatti, per analizzarlo in sede di controllo delle concentrazioni, è stato ritenuto possibile e opportuno percorrere la strada del controllo “ex-post”, contrariamente a quanto sembrano fare proprio le autorità pubbliche preposte alla sua applicazione. Questo significa che, soltanto dopo che sia stata notificata un’operazione di concentrazione, se si ravvedono legami strutturali e personali tali da sollevare problemi di dubbio rispetto della normativa concorrenziale, allora, e soltanto in quella circostanza, le autorità hanno gli strumenti per intervenire, ad esempio tramite le misure deconcentrative. Per chi professa una maggiore e più consapevole applicazione delle norme di diritto positivo, non resta allora che nutrire una forte speranza nel fatto che le autorità possano sfruttare al meglio questi strumenti, sicuramente non del tutto esplorati nella loro potenzialità. Soltanto così, a legislazione immutata, risulta possibile approcciarsi al tema delle partecipazioni minoritarie che non veicolano il controllo senza incorrere in azzardi interpretativi.

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