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La letteratura industriale e il dibattito su Il menabò

Lo spazio distopico

4.2 La letteratura industriale e il dibattito su Il menabò

Nel quarto numero de Il menabò, uscito nel 1961, due articoli, rispettivamente di Elio Vittorini e di Gianni Scalia, aprono la discussione sui rapporti che la letteratura detiene o dovrebbe detenere con l’industria, intendendo con quest’ultimo termine l’insieme delle relazioni, dei fenomeni, degli equilibri dinamici caratterizzanti la realtà economica e sociale del modello capitalista che si rafforza in Italia ed in Europa tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Nell’articolo di Vittorini, intitolato “Industria e letteratura”8, i requisiti basilari di una letteratura che sia all’altezza del grado di sviluppo raggiunto dalle istituzioni umane vengono enucleati dopo una disamina delle mancanze e dei ritardi delle forme letterarie vigenti. Presa coscienza della radicalità del mutamento in atto, è infatti improponibile una modalità rappresentativa naturalistica che, trattando la materia industriale, si avvalga di squarci pateticamente descrittivi. Superata appare anche la letteratura della “fetta di vita” che sulla scia di Émile Zola in Europa e Frank Norris in America rappresentava il contesto industriale, fatto di fabbriche ed operai, come se fosse una «realtà sezionale»9, e non l’epifenomeno di una condizione socio-economica con caratteristiche mai viste.

Mentre un tempo erano le condizioni naturali ad influenzare l’uomo, nel presente è il mondo industriale a determinarlo, incidendo sulle sue scelte: la narrativa del dopoguerra si è dimostrata incapace - secondo Vittorini - di formulare un linguaggio adeguato alla situazione, e continua a raccontare di fabbriche ed aziende entro «limiti letterariamente preindustriali»10, facendo di esse i semplici “contenuti” di un discorso che mantiene intatti gli schemi e i riferimenti tradizionali.

8

Elio Vittorini, “Industria e letteratura”, Il menabò, 4(1961):13-20.

9 Ivi, p.15. 10 Ibidem.

La necessità di stabilire un collegamento efficace e non semplicemente accessorio tra le opere e la realtà che esse si sforzano di raffigurare induce Vittorini a “sdoganare” i testi della école du regard i quali, pur non trattando direttamente questioni industriali, riescono ad assumere «un significato storicamente attivo»11 poiché investono il linguaggio di un compito ulteriore, risolvendo in esso il loro rapporto con le cose. Emerge così l’anacronismo dei tentativi di estrarre il contenuto prelinguistico degli oggetti inglobandoli nelle opere sotto forma di temi: il nouveau roman risulta invece molto più al passo con i tempi di qualunque “letteratura” che si definisca industriale, giacché esso problematizza la relazione che il soggetto detiene con la realtà, mettendola in discussione.

Tuttavia secondo Vittorini l’assenza di un “progetto” positivo e la conseguente incapacità di far seguire al momento critico una pars costruens, atteggiamenti ereditati dalle avanguardie primonovecentesche, minano seriamente la modernità della nuova letteratura francese, impedendole di compiere un salto qualitativo. L’autore conclude l’ intervento esponendo il proprio punto di vista in merito alle prerogative ed agli obiettivi che la letteratura industriale dovrebbe prefiggersi:

La verità industriale risiede nella catena di effetti che il mondo delle fabbriche mette in moto. E lo scrittore, tratti o no della vita di fabbrica, sarà a livello industriale solo nella misura in cui il suo sguardo e il suo giudizio si siano compenetrati di questa verità e delle istanze (istanze di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore) ch’essa contiene12.

Vittorini sembra auspicare dunque un cambiamento di prospettive che non ponga più gli scrittori pretestuosamente fuori dall’universo di cui narrano, ma li inserisca all’interno di questo come componenti attive, capaci di cogliere le

11 Ivi, p.19. 12 Ivi, p.20.

istanze di cambiamento implicite nella contemporaneità convogliandole in un progetto di evoluzione, sviluppo, trasformazione. Egli opta dunque per una sperimentazione che rinnovi il linguaggio e le forme, ma senza rinunciare ad una concezione dell’attività letteraria come “progettualità”, concreto operare nella (e per la) società.

Convinto della pervasività del sistema industriale è anche Gianni Scalia, il quale nello stesso numero de Il menabò definisce l’industria come «complesso costitutivamente strutturale e ideologico, economico ed esistenziale»13, sottolineando nel corso dell’articolo i diversi risvolti antropologici del passaggio ad una società post-moderna14. Ma gli scrittori possono conoscere e rappresentare tale complesso di cose solo attraverso lo studio dei rapporti umani che esso determina, decifrando i «significati dei significanti sociali»15 i quali rimandano ad una più generale dimensione antropologica. L’industria ormai si estende globalmente, invade tutti i settori dell’attività umana, dalla creazione di mestieri ed istituzioni all’organizzazione dei mezzi di comunicazione, fino alla diffusione di nuovi modelli comportamentali. Il rischio costante al quale si espone la società è una moltiplicazione esponenziale di oggetti e di beni che è direttamente proporzionale ad un impoverimento di senso, inteso come «attività significatrice»16.

La “verità” dell’assetto industriale coincide con il lavoro alienato, eteronomo ed eterodiretto, il quale porta con sé, come conseguenze, la reificazione e la spersonalizzazione del soggetto. Proprio questi fenomeni debbono essere scelti dalla letteratura come oggetti di un’ispezione letteraria conoscitiva poiché soltanto essi conferiscono al lavoro industriale la sua inconfondibile fisionomia. Lo scrittore, muovendosi nel proprio tempo, deve avere consapevolezza del processo di artificializzazione che coinvolge la realtà tecnologico-industriale, la

13 Gianni Scalia, “Dalla natura all’industria”, Il menabò, 4 (1961): 94-144; p.96. 14

Cfr. Ivi, p.100 in cui Scalia parla dei fenomeni nuovi tipici del mondo «post-moderno».

15 Ivi, p.97. 16 Ivi, p.102.

quale forma una seconda natura in cui il «dato» si identifica con «il costruito»; l’uomo contemporaneo, inserito nel contesto di una «natura industrializzata»17, non si definisce più come «homo faber»18 bensì come «homo tecnicus»19 al servizio delle tecnologie, ed è questa duplice transizione che deve essere registrata in modo convincente nei testi.

Nel numero 5 de Il menabò Franco Fortini conduce un’analisi della condizione degli autori di fronte alla società partendo da posizioni molto diverse rispetto a quelle di Vittorini e Scalia, adottando un'impostazione in cui i concetti psicanalitici convivono con l’ideologia marxista. Secondo il critico infatti è ingenuo oltre che miope parlare di temi industriali, dal momento che l’industria non è altro che «la manifestazione del tema che si chiama capitalismo»20: lungi dall’essere una semplice porzione della realtà, l’industria, con tutto ciò che è ad essa collegato, costituisce «la forma stessa della vita sociale, il contenente storico di tutto il nostro contenuto»21. Le strutture economiche capitalistiche ed industriali pre-determinano ogni azione e modo di essere dell’umanità contemporanea e possono essere pensate come un grande «inconscio sociale»22, che agisce in modo sotterraneo ed inesorabile. Fortini critica tanto la concezione dell’impegno vittoriniana, quanto la fase di rivolta solipsistica nonché l’engagement eccessivamente “scoperto” e predicato dell’immediato dopoguerra. Dal momento che il sistema industriale soggiace ad ogni gesto e scelta dell’uomo occidentale, lo scrittore sa che parlare di esso è come parlare «del proprio io più profondo»23; per evitare ogni strumentalizzazione e per sfuggire ad una linearità semplicistica, bisognerà

17 Ivi, p.110. 18 Ivi, p.108. 19 Ibidem. 20

Franco Fortini, “Astuti come colombe”, Il menabò, 5(1962): 24-45; p.35.

21

Ivi, p.38.

22 Ibidem. 23 Ivi, p.43.

allora condurre il discorso industriale attraverso «una lunga catena di metafore»24 che lo rischiari solo in parte. Se a livello politico ed ideologico è lecito un impegno che si attui dentro una realtà fatta di fabbriche, operai, lotte sindacali, a livello letterario il messaggio dello scrittore risulterà tanto più incisivo quanto più sarà sfuggente e distante. La necessità di sottrarsi ai proclami superati di avanguardie “artificiali” spinge l’autore a preferire «il puro giuoco, lo sberleffo, l’arcadia, o meglio ancora nulla»25.

Per sé Fortini auspica una libertà totale, che passi attraverso il rifiuto sdegnoso delle etichette, delle convenzioni, delle acquisizioni consolidate:

Come scrittore mi dico di voler apparire il più astratto, il meno impegnato ed impiegabile, il più «reazionario» degli scrittori. Vorrei che a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di un rettile26.

Il contributo di Fortini appare ispirato e in alcuni punti oscuro, come se egli si esprimesse per via metaforica senza esplicitare fino in fondo le conseguenze delle sue affermazioni, volte a garantire una libertà di movimento assoluta all’artista.

Più settoriale e meno fumoso è l’articolo di Umberto Eco, che si risolve in una riflessione sulle prerogative dell’avanguardia. Il discorso di Eco sull’alienazione contemporanea muove da lontano, riprendendo nella prima parte del saggio alcune definizioni hegeliane e marxiste. Constatato che l’alienazione è condizione imprescindibile ed endemica della modernità, occorre saper “agire” e dunque demistificare i rapporti che potrebbero rivelare potenzialità paralizzanti. In ambito letterario l’alienazione si manifesta nella dinamica di invenzione e

24

Ibidem

25 Ibidem. 26 Ivi, p.45.

maniera, libertà e necessità delle regole formative che condizionano la creazione. Ma il sistema di linguaggio si rivela talvolta obsoleto ed incapace di riflettere la realtà di un mondo «scisso e dislogato»27, che non ha più nulla a che vedere con «il Cosmo Ordinato che non è più nostro»28. L’arte contemporanea, nella pittura informale, nella poesia, nel cinema, nel teatro, sottopone il linguaggio stabilizzato ad un continuo ripensamento, che ha come risultato la diffusione di “opere aperte”, dalla struttura irrisolta ed ambigua, le quali trasmettono una concezione del reale omologa a quella proposta dalle coeve discipline scientifiche. Allo stesso modo, la letteratura dovrebbe spostare interamente la propria polemica sulle “forme” affinché esse riproducano l’alienazione contemporanea, epurando il linguaggio da tutte le scorie ed i residui di epoche ormai superate; un’opera riesce ad esprimere il proprio tempo solo attraverso l’ideazione di strutture formali che si facciano “modello” della situazione storica in cui essa nasce. Affinchè l’arte possa dirsi di avanguardia, deve soddisfare tale condizione:

È l’arte che per far presa sul mondo vi si cala assumendone dall’interno le condizioni di crisi, usando per descriverlo lo stesso linguaggio alienato in cui questo mondo si esprime: ma, portandolo a condizione di chiarezza, ostentandolo come forma del discorso, lo spoglia della sua qualità di condizione alienanteci, e ci rende capaci di demistificarlo29.

Il vero contenuto di un testo è il modo in cui esso vede il mondo: in quest’ottica anche il nouveau roman viene rivalutato come «primo passo verso un nuovo “umanesimo”»30. L’avanguardia è infatti per Eco arte “umana”, dal momento che fornisce all’immaginario contemporaneo una serie di “schemi” senza la

27 Umberto Eco, “Del modo di formare come impegno sulla realtà”, Il menabò, 5(1962): pp.198-237; p.218. 28

Ivi, p.220.

29 Ivi, p.228. 30 Ivi, p.233.

mediazione dei quali un’ampia parte dell’attività tecnica e scientifica rimarrebbe inattingibile.

Sullo stesso numero de Il menabò Italo Calvino sostiene la necessità della fondazione di uno “stile” che esprima la molteplicità del mondo nell’era dell’industrializzazione totale e dell’automazione. Parlando dell’arte di avanguardia egli distingue due linee, entrambe derivate dallo storicismo: una linea “viscerale”, che ha tra i suoi principali rappresentanti Céline, Artaud, Joyce, l’espressionismo ed il surrealismo, ed una linea “razionalistica”,

esemplificata dagli esponenti del nouveau roman. Mentre il filone “viscerale” si rivolge verso l’interiorità, sentita come ultima risorsa di fronte alle

trasformazioni del mondo esterno, la linea “razionalistica” ha tra le sue prerogative quella di essere per lo più «geometrizzante e riduttiva»31.

All’interno di quest’ultima tendenza Robbe-Grillet giunge ad esiti personali: nelle sue opere infatti la mimesis dell’universo industriale plasma il rapporto del testo con la realtà, determinando una forma di interiorizzazione che convive con il massimo sforzo di «spersonalizzazione oggettiva»32. L’impiego

“oggettuale” delle parole, proprio del nuovo romanzo, comporta l’eliminazione di ogni residuo “alone” spiritualistico attorno ad esse, sebbene un analogo “alone” suggestivo sia poi ricreato attorno alla misteriosità dell’affabulazione. L’arte di Robbe-Grillet, commista di aspetti razionalistici ed irrazionalistici, attua una rifondazione dello spazio letterario che ben si adatta alla realtà del presente:

Lo spazio non antropocentrico che Robbe-Grillet configura, ci appare come un labirinto spaziale di oggetti al quale si sovrappone il labirinto temporale dei dati d’una storia umana. Questa forma del labirinto è oggi quasi l’archetipo delle immagini letterarie del mondo, anche se dall’esperienza di

31

Italo Calvino, “La sfida al labirinto”, Il menabò, 5(1962): 85-99, p.96, poi in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980.