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Neorealismo ed oltre: dallo spazio censurato allo “spazio liberato”

Lo spazio distopico

4.1 Neorealismo ed oltre: dallo spazio censurato allo “spazio liberato”

La lunga guerra di Liberazione, dal 1943 al 1945, seguita alla caduta del fascismo ed alla successiva creazione della Repubblica di Salò, segna emblematicamente il passaggio di consegne tra la vecchia generazione dei padri, che fu costretta a scendere a patti con il regime, e la generazione dei figli che combatterono la Resistenza, restituendo un futuro democratico al paese.

La produzione italiana del secondo dopoguerra si modella sui recenti avvenimenti, che si tingono di colori eroici nel racconto dei protagonisti e dei testimoni, in una spinta irrefrenabile a narrare la realtà catturandola in storie, cronache, pamphlet. Sebbene mostrino oggi evidenti limiti, tali opere formano un pezzo insostituibile dell’identità civile nazionale e conservano un interesse documentario che sarebbe erroneo sottovalutare.

Gli intenti didascalici, spesso ingenuamente “scoperti”, si traducono in molti testi in uno schematismo ideologico manicheo, mentre si fa ampio uso della lingua dialettale e gergale al fine di conseguire effetti di verosimiglianza; il paesaggio della nazione, provata dall’occupazione e devastata dalle lotte intestine, è lo sfondo realistico su cui si staglia l’epopea della vita vissuta, rappresentata con dovizia di particolari concreti, ai limiti della crudezza.

La categoria dell’altrove subisce in questa fase una brusca contrazione,

poiché i testi, improntati ad un piatto mimetismo descrittivo, privilegiano gli aspetti tematici e contenutistici trascurando quelli strutturali. Nel periodo che viene classificato come “neorealista” dalla storiografia letteraria - dai primi anni

Quaranta fino al 1956, anno in cui si colloca la “crisi” del neorealismo - si assiste anzi ad una sparizione dell’altrove, così come esso è stato definito: l'unica, parziale eccezione a questa norma è rappresentata da un romanzo di Tommaso Landolfi, Racconto d’autunno, pubblicato nel 1947. Al centro della narrazione vi sono le avventure di un soldato che, nel tentativo di sfuggire ad un non meglio individuato esercito invasore, giunge in un’antica casa circondata dalle montagne. Qui egli si innamora, ricambiato, di Lucia, una giovane donna che per molto tempo era stata segregata nell’abitazione dal padre, un vecchio bizzarro che praticava la magia nera e viveva nel culto della moglie morta. Tuttavia la storia d’amore dura soltanto un breve interludio: truppe mercenarie al servizo dell’esercito liberatore fanno irruzione nella casa, uccidendo la ragazza e distruggendo l’idillio.

Il maniero stregato, labirintico ed antico, è un topos dell’arte landolfiana, ma in questo caso esso viene usato per suddividere lo spazio narrativo in due parti distinte: uno spazio interno, dove avvengono gli incontri straordinari sui quali si concentra tutto l’interesse del narratore, ed un esterno in cui riecheggiano, sfumati ed indistinti, gli eventi bellici. Lo sfondo storico rimane indeterminato e le notizie che il narratore vorrebbe far passare per vere soffrono di un difetto di realtà, dal momento che non sono riconducibili ad alcun episodio concreto; i nomi di luoghi sono ridotti a semplici iniziali, come per sottolineare il carattere fiabesco del racconto. Si potrebbe parlare pertanto di un’ambientazione “ibrida” in cui alcuni velati riferimenti al presente, abilmente mascherati, convivono con il meraviglioso, declinato nell’immagine della casa, autentico archetipo in senso junghiano.

In un autore come Landolfi, sempre così restio a stabilire un legame diretto e scoperto con la contemporaneità, si innesca una specie di meccanismo autocompensatorio: nel momento stesso in cui si pone idealmente in relazione con un contesto reale, egli, per un istinto di autodifesa, avverte il bisogno di

trascenderlo attraverso la rappresentazione di personaggi e situazioni eccezionali, situabili ai limiti della stessa realtà. A livello della narrazione questa forma di compromesso si rende evidente nel fatto che il protagonista viene costantemente “distratto” durante il racconto degli avvenimenti della sua vita passata da quanto accade nel microcosmo dell’abitazione.

D’altronde, a smentire ogni sospetto di “impegno” da parte di Landolfi intervengono le pagine de La bière du pecheur1 in cui egli esamina la propria incapacità di reagire con autenticità e convinzione di fronte alla guerra e all’occupazione. Da quanto detto, per questo testo di Landolfi si può parlare di “altrove” nel senso di un’alterazione volontaria dei connotati della realtà contemporanea e dunque del suo spazio, che tuttavia lascia sussistere, almeno a livello tematico (la guerra, la compresenza di un esercito liberatore ed uno invasore), dei residui di allusività. Nell’opera sembra poi vigere una sorta di “sfasamento cronologico” dovuto al fatto che all’interno della casa vi sono mobili ed oggetti di un secolo prima, mentre il protagonista per alcuni tratti ricorda più un eroe risorgimentale che un partigiano.

Il dibattito critico che prende il via nella seconda metà degli anni Cinquanta da una riflessione di ampia portata sulle possibilità raffigurative ed espressive del realismo, getta le basi per un processo di consapevole modernizzazione delle forme letterarie, che darà i suoi frutti più maturi nel decennio successivo. Se la proliferazione di scritti caratterizzati dall’immediatezza dell’ispirazione e sostenuti da esigenze di tipo autobiografico può considerarsi per certi versi un fenomeno “di massa” legato alla delicatissima congiuntura storica, ben altra complessità presenta la questione dell’esistenza o meno di una corrente letteraria definibile come “neorealismo” alla quale farebbero capo in quegli anni alcuni dei maggiori autori del Novecento italiano.

Nel 1951 la celebre Inchiesta sul Neorealismo curata da Carlo Bo tenta di tracciare un bilancio provvisorio avanzando qualche timida, pionieristica definizione. Contrariamente a quanto accade nel cinema, in ambito letterario non è possibile indicare una “scuola” con un programma definito ed alcuni principi condivisi; ad unire i vari scrittori sembra essere piuttosto la ritrovata attenzione per la realtà, lo studio diretto della contemporaneità che si può finalmente esercitare senza filtri né censure.

La composita galassia del neorealismo comprende temperamenti tra loro diversi come Cesare Pavese ed Elio Vittorini, Alberto Moravia e Vasco Pratolini, Carlo Levi ed Italo Calvino, accomunati tutti dal bisogno, etico prima ancora che artistico, di svolgere un ruolo nuovo all’interno del corpo sociale, assolvendo ad una funzione storica.

Nell’inchiesta citata Natalino Sapegno enumera i risultati positivi ottenuti in quegli anni, ma al tempo spesso dichiara il fallimento dei propositi di radicale innovazione che pure erano stati perseguiti da più parti:

Si dovrà dire se mai, che l’ambizione neorealistica nella letteratura del dopoguerra è stata soprattutto un’esigenza, l’espressione di una crisi sorta in un ambiente di forte tensione politica, per cui si acuiva nei letterati migliori la coscienza della disperata solitudine in cui si erano sviluppate le loro esperienze precedenti. In questi limiti, è stata anche un’avventura proficua, nel senso di una maggiore apertura, di una maggiore novità di argomenti e di strumenti espressivi: ma essa si è esaurita per lo più nella ricerca di una più ricca e concreta tematica e in una congerie di tentativi tecnici, senza riuscire mai a quel profondo capovolgimento di prospettive e di posizioni che, nella sua sostanza più intima, presupponeva2.

Il richiamo implicito alla tradizione ottocentesca di Manzoni e di Verga che si ritrova nei testi del neorealismo costituisce quasi una dichiarazione di intenti, la ricerca di una dimensione storica e “popolare” come quella realizzata nel secolo precedente dai due autori.

Interrogato sulle ragioni per cui i narratori “neorealisti” scelgano di aggredire la realtà con nuovi metodi, Italo Calvino ricorda come i giovani intellettuali negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale avvertissero la necessità di una presenza storica che né l’ermetismo né la letteratura della testimonianza interiore sembravano soddisfare. La risposta ad interrogativi di tipo storico ed esistenziale veniva invece da autori come Elio Vittorini e Cesare Pavese, i quali attraverso la loro attività si fecero promotori di un primo graduale processo di svecchiamento della letteratura nazionale, aprendosi a suggestioni e ad esempi stranieri: si pensi, ad esempio, alle traduzioni di scrittori come Sinclair Lewis, Sherwood Anderson, Herman Melville, John Steinbeck, ma soprattutto all’antologia Americana, curata da Elio Vittorini, che poté essere pubblicata solo nel 1942. L’America diventa un luogo di evasione mentale, uno spazio giovane ed incorrotto sul quale proiettare le aspettative ed i sogni che la dittatura aveva frustrato, ed al tempo stesso la grande allegoria politica di un paese in cui, contrariamente a quanto avveniva nella decrepita società italiana, era ancora possibile credere nella libertà e nei valori schietti di un’umanità assetata di vita. Cesare Pavese, rievocando l’entusiasmo con cui, come molti della sua generazione, si dedicò agli studi di letteratura americana, ricorre alla immagine dell’America quale “teatro” in cui trovava rappresentazione la volontà di cambiamento:

Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti. […]. La cultura americana ci permise in quegli anni di vedere svolgersi

come su uno schermo gigante il nostro stesso dramma. Ci mostrò una lotta accanita, consapevole, incessante, per dare un senso un nome un ordine alle nuove realtà e ai nuovi istinti della vita individuale e associata, per adeguare ad un mondo vertiginosamente trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell’uomo3.

Sebbene favorissero un’acquisizione di consapevolezza e di spirito critico, gli stimoli provenienti dall’estero non erano sufficienti per innescare una reazione forte, che suonasse come la rivendicazione di un’identità diversa in opposizione all’Accademia di regime. Come sottolinea Calvino, ci volle «un inaspettato incontro con la vita»4 affinché gli indugi cadessero di colpo, spazzati via dalla corrente della storia che dopo un lungo periodo di ristagno spronava finalmente all’azione. Furono dunque le mutate condizioni politiche ad offrire il pretesto e la possibilità di un cambiamento nel modo di fare letteratura:

Ma a dare corpo a quelle possibilità poetiche che covavano negli animi e nell’aria, non bastarono certe letture; ci volle un inaspettato incontro con la vita, ci volle che l’Italia di cartapesta in cui non riuscivamo a riconoscerci crollasse e ne scoprissimo un’altra, più cruda e dolorosa, ma più nostra e antica5.

Ed il crollo del sistema di repressione e censura, che aveva fatto sentire agli scrittori «i panni stretti addosso»6 per un ventennio, costringendoli ad elaborare escamotage e vie di fuga, è vissuto come una liberazione nella Liberazione. È una risposta naturale, spontanea, e perciò estremistica e generosa: un’enorme porzione della realtà viene liberata, e finalmente agli autori è dato di narrare

3 Cesare Pavese, “Ieri e oggi”, L’Unità di Torino, 3 agosto 1947, ora in La letteratura americana e altri saggi, Milano,

Il Saggiatore, 1971, p.189.

4

Carlo Bo (a cura di), Inchiesta sul Neorealismo,cit.,p.48.

5 Ibidem. 6 Ibidem.

cosa fu l’Italia sotto il regime fascista ed immediatamente dopo, quando il duce aveva trascinato il paese in una sanguinosa farsa ed i tedeschi incalzavano. La via per la rappresentazione dello spazio contemporaneo è spianata, e su di essa gli autori italiani si avventurano, percorrendola per un decennio.

I letterati più accorti non potevano però ignorare che l’euforia andava contenuta e lo slancio realistico disciplinato e convogliato verso esiti esteticamente validi. Per fare ciò era indispensabile tener conto di alcune “tare” congenite della cultura italiana, come l’assenza di una letteratura nazional- popolare, della quale Antonio Gramsci aveva parlato diffusamente nei suoi appunti, e la mancanza di una tradizione moderna paragonabile a quella che potevano vantare la letteratura inglese e francese.

I limiti intrinseci del Neorealismo finirono così per minare l’efficacia delle sue realizzazioni, spingendo gli scrittori ad una autocritica e ad un ripensamento dei presupposti teorici del realismo. La percezione, netta ed inesorabile, della fine del periodo neorealista sotto la spinta di una vorticosa trasformazione che investe tanto l’aspetto politico-economico quanto quello sociale ed antropologico, si ha per la prima volta nel 1955 con le polemiche che seguirono la pubblicazione di Metello di Vasco Pratolini. La critica di sinistra, più o meno allineata con le direttive culturali del PCI, si divise nel giudizio su un testo che si può ritenere a tutti gli effetti un prodotto tipico del tardo neorealismo, fortemente connotato in senso populista.

Nelle intenzioni dell’autore, Metello, che narra la vita e le lotte di classe di un muratore fiorentino tra il 1875 e il 1902, rappresenta il primo capitolo di una trilogia dedicata alla storia italiana dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra. Si tratta di un’opera di impianto naturalistico, tradizionale, sostenuta da un’ideologia programmaticamente ottimistica per le sorti del proletariato.

Nel commento pubblicato su Il Contemporaneo, Carlo Salinari si esprime in termini entusiastici, riscontrando addirittura nel romanzo un positivo passaggio dal neorealismo al realismo vero e proprio, volendo intendere con ciò l’abbandono del cronachismo minuto per una visione più approfondita del processo storico, come raccomandava Lukàcs ne I saggi sul realismo del 1946. Di tutt’altro avviso è invece Carlo Muscetta, il quale risponde a Salinari dalle pagine di Società rimproverando a Pratolini una rappresentazione parziale dei rapporti sociali ed un approccio superficiale al personaggio popolare, còlto prevalentemente nella sfera della vita privata, con un interesse rivolto più agli aspetti naturalistici e fisiologici che a quelli storici e sociali. Lo scambio di opinioni critiche pone in rilievo l’esigenza di superare il neorealismo per approdare ad un realismo autentico, che magari riprenda da vicino la lezione dei grandi rappresentanti dell’Ottocento europeo.

Sullo scorcio degli anni Cinquanta, Elio Vittorini è tra i primi ad intuire l’esigenza di un’analisi completa degli strumenti di cui la letteratura dispone per far fronte ad una situazione storicamente inedita, che comporta l’instaurazione di un nuovo codice di valori e lo sviluppo di una cultura dai tratti specificamente moderni. Una diversa congiuntura internazionale si va delineando, mentre il volto della società e lo stile di vita degli italiani cambiano sostanzialmente. Il discorso sulla modernità è inseparabile da quello sull’industrializzazione massiccia che nel giro di qualche decennio aveva alterato il paesaggio della penisola, ed infatti all’indagine su questi temi sono dedicati i numeri 4 e 5 (rispettivamente del 1961 e del 1962) de Il menabò, rivista fondata da Vittorini insieme ad Italo Calvino nel 1959.

Ritenuto una sorta di padre spirituale dalla generazione del neorealismo, Elio Vittorini si era distinto per l’attenta riflessione sul ruolo della letteratura rispetto alla politica condotta sulla rivista Il Politecnico, da lui fondata nel 1945; Il

menabò si pone invece come continuazione di un’instancabile attività di promozione culturale che indusse lo scrittore siciliano a curare nel 1951 per Einaudi la collana editoriale «I gettoni», il cui scopo era la diffusione dell’opera dei più promettenti tra i giovani autori.

Per Vittorini, uomo di sinistra con un forte spirito indipendente, i fatti di Ungheria del 1956 rappresentarono una sorta di trauma in seguito al quale si allontanò dal PCI, pur continuando a gravitare nell’area progressista. Come ha messo in rilievo Emanuele Zinato, tale presa di coscienza da parte di molti intellettuali, unita agli effetti macroscopici derivanti dal consolidamento del modello economico capitalista, mise in crisi i principali capisaldi della cultura post-bellica e resistenziale, provocando lo «spostamento della radice dello sviluppo delle arti dal terreno della dialettica delle classi a quello della razionalità scientifica e tecnologica»7.

Ad entrare in crisi, infatti, non è solo l’ideologia dell’engagement, ma anche il rapporto tra lo scrittore e la realtà, ormai incrinato da troppi interrogativi. Un approfondimento, ed insieme una riconsiderazione essenziale della relazione tra soggetto e realtà oggettuale non può più essere eluso, pena la stanca ripetizione di forme e schemi inutili e privi di senso. Tanto il “novecentismo” ermetico quanto l’ingenuo ideologismo neorealista appaiono due derive obsolete ed al tempo stesso due modelli negativi sui quali plasmare, a contrario, forme e contenuti di una letteratura capace di instaurare un’interazione concreta, operativa ed efficace con i livelli inesplorati di realtà che l’industrializzazione aveva messo in gioco.

Quest’insieme di problemi, di tematiche, di necessità fu al centro di un importante dibattito su Il menabò, che in quegli anni (dal 1959 al 1967) divenne la fucina in cui la migliore intellighenzia nostrana si confrontava sugli aspetti salienti della modernità elaborando idee, proposte, soluzioni.

7 Emanuele Zinato, “ ‘Il menabò di letteratura’. La ricerca letteraria come riflessione razionale”, Studi Novecenteschi

Da questa fase di ricerca appassionata e febbrile deriva una nuova nozione di “realtà” letteraria, che determina per forza di cose una diversa accezione di “altrove letterario”, della quale discuteremo dopo aver ricostruito l’arco delle posizioni, spesso tra loro divergenti, che si fronteggiavano sulle pagine della rivista facendosi ciascuna portatrice di una propria, personale interpretazione del fatto letterario.