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La letteratura italiana del ventennio fascista tra “disimpegno” e censura.

LO SPAZIO CENSURATO

3.1 La letteratura italiana del ventennio fascista tra “disimpegno” e censura.

Nell’arco del ventennio fascista l’attività letteraria, dopo un primo periodo di ripiegamento su se stessa, conosce una fase di riflessione critica dalla quale emergeranno alcune tendenze destinate ad esercitare una duratura influenza sulla produzione successiva al secondo conflitto mondiale.

Se da un lato il fascismo, desideroso di restaurare negli strati profondi della coscienza popolare «un nuovo senso di comunione»1, aveva bisogno di assumere il controllo della vita sociale, artistica e culturale, dall’altro i letterati, forti di un “mestiere” consolidato, cercarono di sfuggire spesso ai tentacoli del potere centrale percorrendo vie traverse, laterali, ombrose. Certo non mancarono gli intellettuali dal «collo torto»2 i quali si uniformarono al nuovo corso e prestarono il proprio contributo all’interno dell’apparato propagandistico del regime; tuttavia, in moltissimi casi ci si trova di fronte ad una terza categoria di scrittori, critici, artisti che non furono né “apocalittici” né “integrati” ma si attestarono su una posizione ambigua, poco chiara, passando con nonchalance dall’uno all’altro schieramento a seconda delle circostanze storiche. Dietro la spinta delle indagini storiografiche più recenti crollano una serie di “mitologie” antifasciste abilmente ricostruite nell’immediato dopoguerra ed emergono, a distanza di sessant’anni, episodi di omissioni e connivenze che ebbero per protagonisti alcuni “insospettabili”.

1 G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1975, p.12.

Durante il fascismo le attività editoriali e letterarie erano sottoposte al controllo del Ministero della Cultura Popolare, ai cui funzionari spettava il compito di autorizzare o meno le pubblicazioni; sugli autori gravava inoltre il peso di una politica culturale che alla repressione alternava l’elargizione di fondi e di premi a quelle opere che promuovessero una visione solenne e consolatoria della “modernità fascista”. A proposito del sistema di censura dell’epoca, Ruth Ben- Ghiat ha scritto:

Anche se molti autori riuscirono a pubblicare senza iscriversi al Pnf, lo stato utilizzò fino in fondo i propri poteri per ridurre al silenzio le voci inaccettabili e per controllare il contenuto e la circolazione delle opere letterarie. Romanzi e racconti vennero regolarmente sequestrati, alterati dall’intervento della censura o condannati all’oblio mediante direttive impartite in questo senso ai critici della carta stampata. In alcuni casi le modifiche furono massicce, fino a mettere in discussione il concetto di paternità letteraria3.

Ad una censura regolamentata ed imposta dall’alto va aggiunta una forma di censura interiore per cui gli autori, piuttosto che sprecare tempo e denaro in pubblicazioni che probabilmente non avrebbero mai visto la luce scesero a patti con le autorità o, al limite, preferirono concentrarsi solo su temi politicamente “neutri”; li confortò in questa seconda posizione la lezione crociana, che prescriveva la completa apoliticità dell’arte e che era ancora troppo recente e troppo sentita per essere del tutto dimenticata all’avvento della “nuova era”. Anche per questo, malgrado gli sforzi compiuti in tal senso, solo parzialmente e con fatica si pervenne ad una letteratura “in camicia nera”.

In uno studio del 1987, in cui peraltro si avverte ancora molto l’influsso dello Strutturalismo degli anni Settanta, Giuseppe Gigliozzi definisce «l’ambiguità»4 cifra della letteratura italiana del ventennio, caratterizzata da una «messa tra parentesi»5 della realtà. Sebbene sia sempre rischioso abbandonarsi a generalizzazioni di massima nel tentativo di disciplinare un campo d’indagine come quello letterario, per sua natura complesso e determinato da molteplici fattori, è ormai comunemente accettata in sede critica una tendenza interpretativa vòlta a ricollocare le opere all’interno del contesto particolare in cui esse sono nate, tenendo conto delle scelte ideologiche dei loro autori e dei condizionamenti a cui essi furono o meno sottoposti. In altre parole, si è preso atto che non è più possibile ripartire nettamente gli scrittori in “antifascisti” e “filo-fascisti” perché tra questi due estremi si dànno un’infinità di gradi intermedi, dotati di una notevole fluidità. Ai fini del nostro discorso, sono proprio gli autori più schivi ed inclassificabili a risultare decisivi: mentre la critica letteraria ufficiale inneggiava ad un “impegno” artistico teso all’esaltazione della rivoluzione fascista, una schiera di intellettuali si rifugiava in un’ideologia del disimpegno che consentisse di ridurre al minimo l’ingerenza della politica nella letteratura e nelle arti e li agevolasse nell’esercizio della professione.

La nascita della rivista Solaria a Firenze nel 1926 costituisce uno degli atti fondativi di un’ideale “Repubblica delle lettere” sotto le cui insegne si sarebbero raccolte le figure più importanti della prima metà del secolo. Il primo numero della rivista ospitava una dichiarazione di intenti in cui si indicavano chiaramente i punti principali di un programma che per il resto era affidato all’iniziativa dei singoli. Il gruppo fiorentino raccoglieva l’eredità migliore dell’esperienza rondista fondendola con l’esigenza di moralità sostenuta da

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Giuseppe Gigliozzi, La metafora pietrificata. Studi sulle strutture narrative degli anni Trenta, Roma, Bulzoni, 1987, p.21.

Piero Gobetti sulle pagine del Baretti e al tempo stesso rivendicava la specificità dei propri interessi, i quali non eccedevano affatto l’ambito letterario. Nella cultura di quegli anni Solaria svolse per tutto il tempo della sua esistenza (dal 1926 al 1936) un ruolo fondamentale, portando avanti un coraggioso tentativo di ammodernamento e di “europeizzazione” della letteratura nazionale, che ebbe tra i suoi più cospicui risultati l’introduzione in Italia delle opere di molti scrittori stranieri e la “riscoperta” di alcuni autori italiani.

La giusta considerazione dell’opera divulgativa compiuta dalla rivista non deve però impedire di scorgere il carattere politicamente equivoco che assunsero in determinate circostanze il rifiuto dell’impegno e la delimitazione di uno spazio esclusivamente letterario. Alberto Asor Rosa riassume efficacemente i risvolti teorici ed ideologici della questione affermando che «l’ideologia letteraria […] non comporta necessariamente altre ideologie, ma neanche le esclude, perché essa, mentre è assoluta e incoercibile sul piano della produzione letteraria, è tale da consentire una duplicità intrinseca e naturale nei confronti delle altre ideologie, e quindi anche, per esempio, dell’ideologia del fascismo».6

Solaria rappresentò una palestra ed un banco di prova per quegli autori che negli anni Trenta dettero il via ad una nuova fioritura del romanzo italiano, sulla scia di un “rilancio” del genere in chiave europea promosso nell’ambiente della rivista. La lenta maturazione di una narrativa con caratteri originali ed innovativi pone l’esigenza di studiare l’ultimo decennio del regime mussoliniano come un periodo a sé stante, in cui si verifica rispetto alla fase precedente una “rottura” che pone le basi di futuri cambiamenti. La “rivisitazione” degli anni Trenta è la conseguenza di acquisizioni storiografiche relativamente tarde7, ed affonda le radici nel “processo” polemico che la neoavanguardia intentò negli anni

6 Alberto Asor Rosa, “L’ «impegno» e un’ideologia della letteratura nell’Italia fascista”, Quaderni Storici, 34(genn.-

aprile 1977): 108-22; p. 117.

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Cfr. Antonio Palermo, “Gli anni Trenta: per una nuova periodizzazione della storiografia letteraria”, in AA. VV., La

cultura italiana negli anni ’30-’45 (Atti del Convegno - Salerno, 21-24 aprile 1980), Napoli, Edizioni Scientifiche

Sessanta contro il neorealismo, stigmatizzandone la scarsa elaborazione storico- teoretica e promuovendo indagini vòlte ad illuminare il passato prossimo di questa controversa stagione letteraria.

Almeno due ordini di motivi inducono a riflettere con attenzione sulla delicata congiuntura storica che contrassegna la terza decade del secolo in Italia: da un lato il lento ma progressivo mutamento della situazione politica che culmina nella crisi del fascismo nel biennio 1938-39, dall’altro l’impatto che ebbero sull’immaginario e sulla mentalità innovazioni come l’introduzione del sonoro nel cinema, l’invenzione della radio, la diffusione di uno stile “internazionale”.

Qualora ai referti di tipo politico e storico-sociale si aggiungano i dati di una ricerca per così dire “statistica” condotta sulle opere letterarie pubblicate, si scopre una massiccia presenza di romanzi di qualità, che a volte ripercorrono inconsapevolmente la parabola disegnata dalle letterature straniere coeve. Basta ricordare qualche nome degli autori allora attivi per comprendere la portata del fenomeno e soprattutto la sua fisionomia inedita. Alla luce di queste precisazioni si possono accostare alcuni testi scritti e\o editi in Italia tra il 1930 e il 1940 cercando di estrapolare da essi un sistema di elementi e motivi costanti, che giustifichi ed in parte rimotivi alcuni caratteristiche stilistiche e strutturali delle opere stesse. Al fine di introdurre i romanzi sui quali ci soffermeremo nel prossimo paragrafo, risulta particolarmente utile illustrare le opinioni espresse da Giorgio Bàrberi Squarotti in un articolo pubblicato per la prima volta nel 1984, “Il romanzo fantastico degli anni 1930-40: Buzzati, Morovich, Terracini, Delfini”, dedicato appunto al “fantastico italiano”. Chi scrive riconosce infatti la profondità e l’acume delle tesi di Bàrberi Squarotti, che peraltro condivide in molti punti, ma al tempo stesso si discosta da esse per alcune divergenze di tipo teorico, che verranno subito discusse.

Bàrberi Squarotti, prima di passare in rassegna le opere di Buzzati, Morovich, Moravia, Landolfi, Terracini, Delfini ascrivibili ad un registro

“fantastico”, spiega entro quali termini vada intesa l’allegoria di cui esse si fanno portatrici. Secondo il critico, la scelta dell’allegoricità rispetto alle forme realistiche di rappresentazione è da ricondurre alla necessità di esprimere al meglio «il senso oppressivo di angoscia e di sospesa attesa di distruzione, di sfacelo, di morte, di esplosione di disumanità, che percorre la nostra letteratura prima della seconda guerra mondiale».8 Sebbene neghi la possibilità di conferire a tale allegoria un significato sociale e politico, rimane poco chiara la posizione assunta da Bàrberi Squarotti, dal momento che egli stesso nota come la dichiarazione immediata delle idee e dei contenuti che stanno dietro al fantastico sarebbe risultata «diversamente inattuale, scandalosa, assurda, insensata di fronte alla logica e alle convenzioni della società e della storia contemporanee».9 In nome di un’eccessiva cautela critica, Bàrberi Squarotti non compie il passaggio ulteriore, ovvero l’attribuzione di un valore storico- ideologico alla tendenza evidenziata: egli si muove pertanto tra dire e non dire, limitandosi a riconoscere a questo tipo di letteratura, semplicemente, una «decisiva funzione conoscitiva»10 che comunque opera in modo del tutto mediato rispetto al piano storico.

È curioso notare come più avanti tale reticenza venga in parte attenuata quando, parlando de I sogni del pigro, una raccolta di apologhi e di storie fantastiche pubblicate da Moravia nel 1940, il critico giustifica il cambio di rotta dell’autore (il quale nel 1929 aveva pubblicato il romanzo realistico Gli indifferenti) con l’impossibilità storica di rivolgersi nuovamente all’analisi della società borghese. Egli coglie dunque il carattere “indotto” dell’allegoria moraviana, che si esplica ancora e sempre in funzione di una critica alla società capitalistica, bersaglio inconfessabile nascosto dietro alle più audaci invenzioni.

8 Giorgio Bàrberi Squarotti, “Il romanzo fantastico degli anni 1930-40: Buzzati, Morovich, Terracini, Delfini”, in AA.

VV., La cultura italiana degli anni ‘30-’45 cit., p.17.

9 Ivi, p.18. 10 Ibidem.

L’articolo prosegue in modo rapsodico, tra buone intuizioni e palesi autocontraddizioni sul modello di quella appena segnalata. Bàrberi Squarotti prende poi in considerazione i luoghi in cui sono ambientate le opere, indicando in boschi, montagne, paesaggi campestri gli spazi preferiti da Morovich e dal primo Buzzati quello, per intendersi, di Bàrnabo delle montagne e de Il segreto del Bosco Vecchio. A proposito del secondo romanzo dell’autore bellunese viene nominata la “metafora militare”, ovvero l’impiego dell’ambientazione e di personaggi militari (qui rappresentati dal colonnello Sebastiano Procolo) come espediente atto a veicolare significati di altra natura, salvo precisare subito dopo il valore esistenziale e ancora una volta “apolitico” della macrofigura. Il deserto dei Tartari, così come i racconti della raccolta I sette messaggeri sono considerati allegorie a sfondo esistenziale; l’«allegoria dello scacco, del fallimento»11 a cui tenderebbe Buzzati autorizza inoltre un confronto con Kafka, sebbene in quest’ultimo sia presente una prospettiva religiosa che il primo ignora del tutto, impegnato com’è nella costruzione di un disegno allegorico che sfrutti il fantastico come medium di un messaggio interamente laico. Se l’interpretazione dell’opera di Buzzati in chiave esclusivamente esistenziale risulta a tratti riduttiva, e sembra richiedere un ulteriore approfondimento, meno parziale e più ponderato appare il giudizio di Bàrberi Squarotti sul fantastico di Tommaso Landolfi, di cui vengono ricordati alcuni racconti e i due romanzi Il mar delle blatte (1938) e La pietra lunare (1938). Al centro della poetica di Landolfi vi è infatti il ripudio della mimesi e la ricerca di un arte che sia il più possibile vicina alle origini, al sogno, alla visionarietà; il fantastico diventa allora il territorio in cui si esplica pienamente il potere mitopoietico della letteratura, che con le sue invenzioni è in grado di creare mondi alternativi a quello reale. La letteratura per eccellenza è la letteratura fantastica, intesa come gioco esasperato che cela una verità

esistenziale «atroce, insopportabile».12 I miti creati dagli scrittori agiscono attraverso le opere nella realtà quotidiana, svolgono a loro modo una funzione compensatoria, rendendo possibile l’impossibile e viceversa: la scrittura finisce per farsi pian piano «azione teurgica»13 e colui che adempie a questo rituale assume il profilo del sacerdote, della creatura a cui è stato concesso il potere di vedere oltre l’aspetto esteriore delle cose.

Il lavoro di Bàrberi Squarotti abbraccia un panorama variegato, che sarebbe possibile ampliare ulteriormente qualora si prendesse in considerazione l’annoso dibattito sull’esistenza o meno di un “surrealismo” italiano nel periodo tra le due guerre. Anche solo basandosi sugli autori nominati e sulle riflessioni riportate, si intravede l’esistenza di un “filone sommerso” della letteratura italiana che in anni recenti è riaffiorato grazie alle ricostruzioni dei critici. In Italia non si dà un movimento organizzato, come ad esempio il Surrealismo francese, ma nell’arco di un decennio si scrivono molte opere che si allontanano dai criteri di rappresentazione del realismo classico e del verismo per avventurarsi nel regno dell’assurdo, dell’antimimetico o, più spesso, dell’allegorico. Si può ipotizzare che la mancata nascita di un surrealismo italiano sia dovuta tanto al ruolo egemone esercitato dalla tradizione classicista in Italia, quanto alla diversità irriducibile di temperamento, di ideologia, di stile che rendeva gli autori inadatti ad intraprendere un cammino comune. Resta comunque ancora valido l’assunto di Ugo Piscopo, il quale nel 1977 prospettava «una tendenza verso la quale si proiettarono o, meglio, dalla quale furono influenzati intenzioni segrete, atteggiamenti, modi di pensare e di scrivere, di numerosi autori, i più emblematici dei quali sono i fratelli De Chirico, Tommaso Landolfi, Dino Buzzati, Antonio Delfini, Corrado Alvaro»14.

12

Ivi, p.29.

13 Ivi, p.37.

Nella sezione successiva si cercherà di fornire un contributo allo studio di opere che fino a qualche decennio fa erano considerate “atipiche” nella nostra tradizione. In breve, si partirà dall’analisi di una componente essenziale dei testi, il loro spazio di ambientazione, per mettere a fuoco altri aspetti di essi, in modo da favorire un confronto di più ampia portata. Il risultato ottenuto è frutto di un lavoro che si è articolato in diversi momenti: in seguito ad una prima lettura “empirica” dei romanzi prescelti, si erano ricavate infatti alcune intuizioni ed una serie di ipotesi interpretative verificatesi poi fondate dopo una più accurata documentazione sui singoli autori. Il quadro che verrà tracciato dimostra come gli scrittori adottino soluzioni divergenti nel tentativo di risolvere un unico problema creativo, ovvero la progettazione di uno spazio che, pur non essendo realistico, rimanga legato da mille ed invisibili fili allo spazio contemporaneo15 della società italiana: è questo l’altrove in cui la letteratura cerca scampo dal presente, ed insieme ne propone una rappresentazione più autentica perché svincolata dalla contingenza. Il disordine apparentemente insito nell’enumerazione di un gran numero di titoli verrà riscattato dall’organicità del tema e dalla direzione univoca verso cui gli scrittori indirizzano i loro sforzi, nella ricerca di un’allegoricità che penetri in profondità negli strati testuali per investire quanti più possibili livelli di senso.

15 Per il concetto di “spazio contemporaneo”, cfr. Georges Matoré, L’espace humain, Paris, La Colombe, 1962, sul

3.2 “Qui, ma in un altro luogo”: una mappa dell’Altrove nel romanzo italiano degli anni Trenta: Gadda, Alvaro, Moravia, Masino, Landolfi, Buzzati.

Gli anni Trenta si presentano, ad uno sguardo d’insieme, come una zona franca nella prima metà del Novecento letterario: stretti tra il frammentismo manierista che aveva dominato i due decenni precedenti e l’ondata neorealista che li avrebbe investiti di lì a poco, essi figurano quasi come una cesura necessaria tra due svolte epocali coincidenti con la nascita ed il crollo del fascismo. A livello letterario la ripresa del romanzo va di pari passo con un’accentuata attenzione per i contenuti e per le tematiche umane e con un’apertura verso la sperimentazione stilistica che forse risente degli esempi europei, primo fra tutti Kafka, tradotto per la prima volta nel 1933.

In tutti i casi che andremo a trattare l’ambientazione in spazi realistici è sostituita da una consapevole “alterazione” delle categorie spaziali che concorrono alla rappresentazione di luoghi irriconoscibili o fantastici, i quali stabiliscono complessi rapporti con la realtà, con “l’hic et nunc” in cui l’autore si trova ad operare.

Un procedimento assai diffuso, che svolge funzioni distinte a seconda delle sfumature tonali che gli vengono conferite, è quello della contaminazione tra realtà spaziali diverse e distanti le quali, contrariamente ad ogni logica corrente, sono fatte reagire tra loro. Un esempio di questo tipo è fornito da La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, uscito su Letteratura tra il 1938 e il 1941. Ambientato in un paese inesistente, il Maradagàl, derivante dalla fusione tra la Lombardia e una nazione sudamericana non meglio precisata (forse l’Argentina), il romanzo di Gadda usa contro l’Italia fascista l’arma di una spietata ironia, mai disgiunta da una visione tragica e consapevole dell’esistenza. Insieme al regime viene fustigata la borghesia, principale

responsabile dell’ascesa del fascismo, della quale sono derise l’ipocrisia e la vanità, evidenti persino nelle orribili costruzioni architettoniche volute da questa classe sociale al culmine del proprio delirio di onnipotenza:

Noi ci contenteremo, dato che le verze non sono il nostro forte, di segnalare come qualmente taluno de’ più in vista fra quei politecnicali prodotti, col tetto tutto gronde, e le gronde tutte punte, a triangolacci settentrionali e glaciali, inalberasse pretese di chalet svizzero, pur seguitando a cuocere nella vastità del ferragosto americano: […].Altre villule, dov’è lo spigoluccio più in fuora, si dirizzavano su, belle belle, in una torricella pseudo-senese o pastrufazianamente normanna, con una lunga e nera stanga in coppa, per il parafulmine e la bandiera. Altre ancora si insignivano di cupolette e di pinnacoli vari, di tipo russo o quasi, un po’ come dei rapanelli o cipolle capovolti, a copertura embricata e bene spesso policroma, e cioè squamme d’un carnevalesco rettile, metà gialle e metà celesti. Cosicché tenevano della pagoda e della filanda, ed erano anche una via di mezzo fra l’Alhambra e il Kremlino 16.

Sebbene lavori di fantasia attraverso l’accumulazione caotica di dati, di notizie, di particolari descrittivi curiosi, l’autore pensa costantemente come referente delle proprie iperboliche creazioni alla Brianza, che allora era mèta di villeggiatura per tante famiglie arricchite del Nord. Sullo spazio stravolto si innestano paradossali memorie libresche che denunciano l’inconsistenza di una retorica nazionale autocompiaciuta e tendente alla mistificazione del proprio passato: in virtù di questa operazione la descrizione della vetta del Serruchón fa il verso all’accurata ricostruzione topografica compiuta da Manzoni ne I promessi sposi, mentre l’ispanizzazione forzata e parodica della toponomastica giunge ad esiti di dissacrante comicità: