CAPITOLO 6. IL NUMERO IN ARISTOTELE
3. Lo statuto ontologico degli enti matematici
Analizzando il concetto di numero così com'è proposto da Aristotele, si nota come esso resti fondamentalmente legato alla sua formulazione tradizionale, e come esso rifletta le intuizioni che, in tempi più antichi, dovevano aver dato origine allo stesso concetto di
numero. Si è infatti già spiegato che questo nasce dall'esigenza dell'uomo di contare: le
successive unità, discrete ma tutte uguali tra loro, possono essere fatte corrispondere agli elementi dell'insieme da contare. In Aristotele rimane un'evidente sovrapposizione tra il numero e il gruppo numerato, sovrapposizione che emerge, ad esempio, in un passaggio della Metafisica, in cui il filosofo scrive:
202 ARISTOTELE, Metafisica, Δ 15, 1021 a 5-6.
Si dice «numero» in due modi (ché noi chiamiamo numero non solo il numerato e il numerabile, ma anche il mezzo per cui numeriamo)204.
Dunque, fra il numero 5 e un insieme di 5 cavalli non c'è alcuna sostanziale differenza: anche il numero 5 è numero di qualcosa: esso è infatti numero di pure unità. Osserva Julia Annas che questa teoria è opportunamente antiplatonistica: Platone, infatti, aveva attribuito ai numeri e alle figure geometriche il modo d'essere della sostanza soprasensibile: alla stregua delle idee, questi esistevano prima e indipendentemente dalla mente di chi li studiava205. Congiungendo saldamente il numero alla cosa numerata,
Aristotele sanciva invece la dipendenza del numero dall'azione del contare, e dunque dall'esistenza di esseri coscienti che potessero essere soggetti di questa azione206.
Non è possibile, quindi, per Aristotele, che gli enti matematici esistano come realtà separate, anteriori rispetto alle cose e rispetto agli uomini che pensano queste cose stesse. È, questa, un'affermazione nettamente polemica nei confronti del platonismo: vi è infatti fra i due filosofi un'insanabile distanza nel modo di concepire, a livello ontologico, i numeri e gli enti geometrici. Scrive Aristotele:
Se si affermerà che gli oggetti matematici esistono in questo modo, ossia come realtà separate, ne deriveranno conseguenze contrarie alla verità e a ciò che viene comunemente ammesso. In effetti, le grandezze matematiche, in virtù di questo loro modo di essere, dovrebbero essere anteriori alle grandezze sensibili; invece, secondo la verità, sono posteriori207.
L'esposizione delle teorie aristoteliche sullo statuto ontologico degli enti matematici è contenuta all'interno dei Libri M ed N della Metafisica, nei quali si può anche trovare una lunga serie di argomentazioni, volte a confutare le posizioni platoniche.
Il filosofo osserva che:
Se gli oggetti matematici esistono, essi, necessariamente, o dovranno esistere nelle cose sensibili – come sostengono alcuni pensatori –, oppure dovranno esistere
204 ARISTOTELE, Fisica, IV 11, 219 b 5-8.
205 Sullo statuto ontologico degli enti matematici in Platone si ritornerà più diffusamente nel corso dell'ultimo capitolo di questa tesi.
206 Cfr J. E. ANNAS, Interpretazione dei Libri M-N della Metafisica di Aristotele, cit., p. 74.
separati dalle medesime – così dicono altri pensatori –; e se non esistono in nessuno di questi due modi, o non esistono affatto, o esistono in un modo ancora diverso208.
Dopo aver radicalmente escluso le prime due ipotesi, il filosofo giunge ad affermare che:
Anche […] gli enti matematici esistono, e proprio con quei caratteri di cui parlano i matematici209.
Quella che Aristotele tenta di compiere è un'operazione di conciliazione tra il fatto che gli oggetti sensibili non presentano, evidentemente, le caratteristiche degli enti matematici, e il fatto che pensare quest'ultimi come anteriori agli oggetti sensibili stessi genera una serie di aporie210. E tale conciliazione è possibile pensando che gli enti
matematici nascano nel pensiero dell'uomo attraverso un processo di astrazione a partire dalla realtà fisica ed esperibile.
L'uomo in quanto uomo, per esempio, è uno e indivisibile; ora l'aritmetico lo considera appunto come uno e indivisibile, e poi indaga se ci sono proprietà che convengono all'uomo in quanto indivisibile. Invece il geometra considera l'uomo né in quanto uomo né in quanto indivisibile, ma lo considera come solido geometrico. Infatti le proprietà che all'uomo si potrebbero attribuire se egli non fosse indivisibile, è evidente che gli si possono attribuire prescindendo dall'indivisibilità e dalla umanità. Perciò i geometri ragionano correttamente: i loro discorsi riguardano cose che sono, e che sono realtà211.
Dei corpi che ci circondano, noi possiamo astrarre molteplici proprietà: quella di essere in quiete, o in movimento, di essere esteso, indivisibile, molteplice, e così via. Ciascuna proprietà può essere isolata dall'oggetto in questione, che può essere studiato solo in quanto esteso, indivisibile, molteplice, ecc... Dunque, le forme e i numeri possono essere trattati come enti astratti e perfetti; ciò non implica, tuttavia, che essi siano effettivamente indipendenti o separati dagli oggetti su cui sono stati esperiti: essi sono al contrario proprietà dell'oggetto stesso.
208 Ivi, M 1, 1076 a 32-35. 209 Ivi, M 3, 1077 b 32-34.
210 Cfr. J. E. ANNAS, Interpretazione dei Libri M-N della Metafisica di Aristotele, cit., p. 64.
Così le scienze matematiche non saranno scienze di cose sensibili, ma non saranno neppure scienze di altre cose separate dai sensibili212.
Reale fa giustamente osservare che, approcciandosi al testo aristotelico, occorre tener presente che, quando Aristotele parla di astrazione, egli si riferisce a qualcosa di diverso da ciò cui ci riferiamo noi. Oggi infatti si considera l'astrazione come un'operazione di semplificazione logica, mentre nel mondo greco il termine indicava una vera e propria operazione di analisi ontologica213.
La distanza che intercorre tra la posizione platonica e quella aristotelica può trovare un suo fondamento se si considera che i due filosofi avevano una diversa considerazione della realtà sensibile:
Aristotele parla da un'altra dimensione: da una dimensione nella quale il sensibile non è travolto dal divenire e dalla contraddizione, e non è di per sé inconoscibile intellettualmente. Il sensibile diventa super-sensibile: perché diventa sostanza, perché ha in sé la propria intelligibilità, e le condizioni della propria conoscibilità scientifica214. Dunque, ancorare gli enti matematici alla realtà sensibile in Aristotele non implica relegarli ad un ambito di non conoscibilità scientifica: al contrario, essi diventano in questo modo perfettamente intellegibili.
Tuttavia, nel momento in cui gli enti matematici non appartengono ad un ambito ontologico superiore, la loro esistenza non è più necessaria. Alle matematiche interessano solo alcune delle proprietà degli oggetti che studiano, e fra queste non vi è l'esistenza: che essi siano o non siano, è indifferente. Vi sono numerosi passaggi, nell'opera aristotelica, in cui viene precisato che, dal fatto che noi conosciamo gli enti matematici e che vi operiamo, non consegue necessariamente la loro esistenza:
L'espressione definitoria non è un'ipotesi: dire che cos'è l'unità non equivale infatti a dire che l'unità è215.
Il numero e qualsiasi altra cosa avente materia potrebbero anche non essere216.
212 Ivi, M 3 1078 a 3-5.
213 Cfr. G. REALE, Guida alla lettura della Metafisica di Aristotele, Laterza, Roma Bari 1997, p. 169.
214 E. CATTANEI, Enti matematici e metafisica, cit., p. 184.
215 ARISTOTELE, Analitici Secondi, I 2, 72 a 21-24.
Dunque, privare gli enti matematici della loro superiorità ontologica significa rendere la loro esistenza un qualcosa di non più necessario; tuttavia, ciò non è sufficiente ad invalidare i ragionamenti matematici stessi, i quali rimangono validi, a prescindere dall'esistenza o meno del loro oggetto:
La matematica, parlando di ciò che è, e di ciò che è in un determinato modo, dice la verità217.