CAPITOLO 3. IL PUNTO INESTESO E LO SPAZIO CONTINUO
1. La nuova concezione di punto
Punto esteso e punto inesteso.
Come si è già detto, la matematica pitagorica, seppur inconsapevolmente, si fondava su un vero e proprio sistema assiomatico, il quale si era rivelato tuttavia insufficiente a rendere conto della scoperta dell'incommensurabilità. Nel capitolo precedente, ad esempio, si è visto come fosse stato necessario ripensare il concetto di λόγoς. Si vedrà ora come le grandezze irrazionali abbiano mostrato l'insufficienza anche di altri concetti, in particolare di quello di punto, rendendo evidente l'esigenza di una loro riformulazione.
Sull'importanza del concetto di punto per la filosofia pitagorica si è insistito a sufficienza nel primo capitolo: basti qui ricordare che esso era considerato il principio primo della realtà geometrica, in tutto e per tutto assimilato al principio della realtà aritmetica, l'unità. Questi due concetti erano accomunati dalla caratteristica di non avere parti. Il punto, in particolare, godeva di due proprietà fondamentali: l'indivisibilità e l'estensione66,
esso era quindi un minimo di grandezza, un mattoncino di materia con cui costruire lo spazio geometrico, e poteva essere pensato come un sassolino o un granellino di sabbia.
Visto da vicino, tuttavia, un punto siffatto è incompatibile con l'esistenza di grandezze irrazionali. Infatti, se esistesse un punto esteso ed indivisibile, esso sarebbe di necessità contenuto un numero intero di volte in tutte le lunghezze: ogni segmento sarebbe costituito da un certo numero, elevato finché si vuole ma pur sempre finito, di questi punti- mattoncino. Dunque, nel momento in cui si volesse ricercare un divisore comune tra due grandezze, l'esistenza di tale divisore sarebbe garantita a priori: nella peggiore delle ipotesi, infatti, esso coinciderebbe con il punto stesso, per definizione in grado di misurare qualsiasi segmento. Il problema di trovare il λόγoς tra due segmenti, in altre parole, potrebbe sempre essere risolto contando i punti in essi contenuti: il rapporto tra i punti contenuti nel primo
66 Vorrei far notare, ai fini di quanto si vedrà nel seguito, che l'indivisibilità del punto non implica la sua estensione: un punto inesteso, infatti, può a sua volta essere pensato come indivisibile, senza che questo generi contraddizione.
e nel secondo sarebbe proprio il λόγoς cercato. L'esistenza di un simile punto quindi doveva essere esclusa, dal momento che l'esistenza di grandezze incommensurabili era stata inconfutabilmente dimostrata, sia per via aritmetica che geometrica.
Occorreva dunque pensare al punto come ad un inesteso, come ad un ente senza lunghezza, larghezza e profondità, dunque, in sostanza, al punto senza dimensioni come siamo stati abituati a pensarlo noi. Se il punto esteso così com'era stato definito dai primi Pitagorici poteva coincidere con l'unità, in quanto aveva dimensione uno, il punto inesteso era un ente a dimensione zero, la cui assimilazione con l'unità diventava più problematica67.
È facile immaginare come questo concetto possa essere risultato particolarmente difficile da padroneggiare per l'uomo greco: si trattava infatti di afferrare un qualcosa di infinitamente piccolo, noi diremmo di infinitesimale, ed è nota la difficoltà ad imbrigliare concettualmente l'infinito. Osserva Alfred E. Taylor che
Questa nozione di «infinitesimale» che non è precisamente nulla ma nemmeno precisamente qualcosa, bensì un nulla nell'atto di divenire qualcosa, comporta un paradosso logico68.
Probabilmente è proprio per questo che, in seguito alla scoperta dell'incommensurabilità, si ricorse spesso alla nozione di retta per definire il punto. Celebre è ad esempio la definizione di Platone tramandataci da Aristotele (su cui si avrà modo di ritornare):
Platone contestava l'esistenza di questo genere di enti, pensando che si trattasse di una pura nozione geometrica: egli chiamava i punti «principio della linea», e spesso anche usava l'espressione «linee indivisibili»69.
La definizione dei punti a partire dalla linea, quindi del più semplice a partire dal più complesso, è una scorrettezza logica che rivela proprio questa difficoltà ad afferrare, anche a livello ontologico, questi punti, in qualche modo sospesi tra essere e non essere70.
67 Sulle difficoltà nel ridefinire il rapporto tra punto e unità ritornerò nella seconda parte di questo lavoro, in particolare al cap. 5.
68 A. E. TAYLOR, Platone, L'uomo e l'opera, La nuova Italia, Firenze 1968 (orig. A. E. TAYLOR, Plato. The
man and his work, Metheun e Co., London 1926), p. 782.
69 ARISTOTELE, Metafisica, A 9, 992 a 21-22.
Al ripensamento del punto corrispose anche un'evoluzione lessicale. Nella matematica pitagorica il solo termine utilizzato per indicare i punti era στιγμή, termine peraltro attestato anche in Aristotele. Questo termine è sostanzialmente il corrispettivo di
punto, e ci rimanda proprio ad una puntura, al segno che può lasciare la punta di uno spillo.
Dunque, il significato veicolato da questo termine è quello di un oggetto matematico esteso, tangibile, e quindi esso è adatto ad indicare il punto-atomo dei Pitagorici. È interessante notare come Boezio, traducendo gli Elementi di Euclide, scelga di utilizzare la parole punctum, perfettamente corrispondente a στιγμή.
Tuttavia, in Platone questo termine è completamente assente. Nel momento in cui il filosofo aveva necessità di indicare il punto geometrico egli preferiva utilizzare un'altra parola: σημεῖον, ossia segno; ed anche in Euclide si attesta esclusivamente questo termine. La scelta di sostituire στιγμή con σημεῖον rivela la volontà di indicare un qualcosa di molto più astratto e molto meno fisico: il punto inesteso e ideale, così come occorreva pensarlo dopo la scoperta dell'incommensurabilità71.
La concezione razionale degli enti geometrici.
Il punto, così ridefinito, assieme alla sua estensione spaziale, perde inevitabilmente anche l'estensione fisica, la sua materialità, grazie alla quale esso poteva svolgere il ruolo di
principio delle cose. È infatti evidente che, se tale punto esiste, senz'altro non può esistere allo
stesso modo in cui esistono gli enti, tangibili, che noi esperiamo in questo mondo: esso deve necessariamente appartenere ad una dimensione ontologica altra, ossia al regno della ragione. E, assieme al punto, tutti gli enti geometrici devono essere ripensati come puramente astratti, razionali. I quadrati, i triangoli, le rette con cui opera il matematico non sono gli stessi con cui può operare, ad esempio, un architetto: essi appartengono alla pura
idealità. Scrive Platone:
Sai […] che [gli esperti di geometria] usano modelli visibili e costruiscono su di essi le dimostrazioni; ma nel ragionamento non hanno per oggetto tali realtà, bensì le realtà a cui queste assomigliano, sicché quando ragionano hanno di mira il quadrato in quanto
71 Cfr. I. TOTH, Aristotele e i fondamenti assiomatici della geometria, cit., pp. 415-416; E. CATTANEi, Enti
tale, la diagonale in quanto tale, e non quel quadrato, quella diagonale, quella data figura che vanno disegnando. Delle figure che compongono e tracciano, le quali corrispondono alle ombre e alle immagini che si formano sull'acqua, si servono come di immagini per cercare di vedere le realtà in sé che non si possono cogliere altrimenti che con l'intelligenza72.
Si ha quindi, nel periodo della scoperta dell'incommensurabilità, uno stacco dalle geometrie pre-elleniche e dalle prime geometrie greche, caratterizzate da materialità ed empiricità. Si faccia attenzione al fatto che il legame logico tra incommensurabilità ed astrazione degli enti matematici va letto in entrambe le direzioni: il fatto che tra due segmenti non sia possibile trovare un divisore comune non solo implica, ma anche presuppone, che questi segmenti siano puramente ideali. Si tratta di due processi che probabilmente interessarono pressoché in contemporanea la matematica greca, e che si alimentarono l'un l'altro73.
La ricollocazione degli enti matematici in una dimensione altra, inoltre, non è indipendente dal processo di apertura ad un mondo ultraterreno, astratto e puramente razionale: processo che culmina con la postulazione platonica del mondo delle idee. L'analogia tra queste idee, concepite come perfette e separate dal mondo fisico, e gli enti matematici razionali è infatti evidente, il brano della Repubblica riportato più sopra ne è una testimonianza. È estremamente significativo notare, a tal proposito, che nei dialoghi platonici la teoria delle idee si sviluppa man mano che la presenza di elementi matematici si fa sempre più frequente ed importante.
Non è senz'altro un caso che gli enti matematici nella Repubblica siano pensati come ontologicamente intermedi tra gli enti materiali e le idee, e che il loro studio sia considerato propedeutico alla conoscenza delle stesse idee. Proclo, addirittura, ritiene che lo stesso termine matematica derivi dalla funzione di questa disciplina:
Questa è dunque la «mathesis»: reminiscenza delle idee eterne che sono nell'anima; ed essa è il motivo per cui lo studio che ci soccorre egregiamente per la reminiscenza di quelle idee ha preso il nome di matematica74.
72 PLATONE, Repubblica, Libro VI, 510 d-511 a.
73 Cfr. K.VON FRITZ, Le origini della scienza in Grecia, Il mulino, Bologna 1988 (orig. K. VON FRITZ, Der
Ursprung der Wissenschaft bei den Griechen, pp. 1-326 di Grundprobleme der Geschichte del antiken Wissenchaft, Walter De Gruytier & Co., Berlin-New York 1971), pp. 67-68.
È possibile che Platone, esplicitando il valore propedeutico della conoscenza matematica, ci stia in qualche modo rendendo partecipi del percorso che egli stesso aveva seguito, e che l'aveva portato a prendere coscienza dell'esistenza di un livello ontologico superiore. In altre parole, Platone forse qui ci sta raccontando la genesi della sua dottrina, proprio a partire da riflessioni sulla natura degli enti matematici75.