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Lorenzo Bettini, tra teoria pedagogica ed esperienza educativa

Rosella Persi - Università di Urbino

Lorenzo Bettini, nato a San Lorenzo in Campo (PU) nel 1855, fu maestro elementare per più di un decennio nelle Marche e poi Regio Ispettore Scolastico nelle vicine regio-ni: a Chieti, Guastalla (RE) e Siena. Fu Direttore genera-le didattico delgenera-le scuogenera-le di Venezia dal 1900 al 1917, anno della sua morte. Ha lasciato opere di interesse pedagogico, storico e didattico, nonché letterario, che meritano di esse-re rilette e meditate, ovviamente nel contesto storico in cui sono state scritte. Dopo questo brevissimo profilo storico e dopo le relazioni che mi hanno preceduto, non si può che sottolineare il contributo pedagogico ancora fruibile no-nostante siano passati tanti anni dai suoi studi e dalle sue esperienze educative.

Due sono i punti che vorrei illustrare in questo breve testo teso a far luce sulla stretta relazione tra l’uomo pedagogista e l’uomo maestro che in lui convivevano. Oggi, infatti, le due professioni sono ben distinte. Si configurano con para-metri ben connotati, complementari, ma espletati da per-sone diverse: il maestro che fa scuola e il pedagogista che affianca il maestro.

Vorrei poi ricordare le Memorie per farne emergere, sen-za alcuna pretesa di esaustività, due aspetti fondamentali:

l’attualità della narrazione autobiografica, oggi valorizzata dalla pedagogia, la pluralità di possibili approcci operativi quali potenziali piste di lavoro.

Il primo punto, come anticipato, si concentra su questa ca-rismatica figura di educatore che riesce concretamente a di-mostrare e trasmettere la passione per la scuola, sia nelle ve-sti di maestro, che in quelle di ispettore e, successivamente, in quelle di direttore, ruoli mai disgiunti da un impegno di studi teorici accompagnati da un’attività sul campo, che trovano poi la loro sintesi nei suoi scritti.

200 Chi oggi non conosce la differenza tra la figura del

peda-gogista e quella del maestro? Nelle scuole, spesso e volen-tieri, accanto agli insegnanti, ai maestri opera sempre più frequentemente il pedagogista. Brevemente vediamo chi è il maestro, chi il pedagogista e quali sono i loro rispettivi ruoli.

Secondo le più attuali definizioni il termine maestro può assumere più significati circoscrivibili a tre grandi aree edu-cative: di “caposcuola” o di guida eminente, nel campo del-la cultura o deldel-la scienza; di “capo d’arte”, nel campo arti-stico o industriale; di “educatore e insegnante”, in ambito specificatamente ed intenzionalmente educativo. È chi in-segna, conoscendone bene i fondamenti, specifiche mate-rie o attività, chi è particolarmente abile e si propone o può essere preso come modello e guida per gli altri.

Il maestro è un punto di riferimento, anzi è il punto di rife-rimento per eccellenza. É colui che si dona, perché educare è un processo intenzionale cui va dedicato tempo, compor-ta dedizione e disinteresse, richiede empatia e spirito di ge-nerosità, ma anche fantasia e senso dell’avventura, quindi capacità di proiettarsi sul futuro senza estraniarsi mai dal presente. D’altra parte l’educazione poggia sulla libertà de-gli individui e sostiene il primato della coscienza e la fidu-cia di fronte al cambiamento sofidu-ciale.

Il maestro può essere fonte dell’informazione in quanto fa lezione, dà valutazioni, offre spiegazioni, suggerisce metodi e procedure. Rispetto a questa dimensione egli può essere anche ricettore dell’informazione, ossia attento e disponi-bile a quanto proviene dagli allievi, coglie spunti e suggeri-menti e rielabora gli stessi interventi, interpretandoli, dif-fondendoli al gruppo classe e ponendosi come esperto di comunicazione; può essere inoltre sollecitatore di informa-zioni, dal momento che può sollevare problemi, aprire una discussione, stimolare gli interventi degli allievi.

Accanto a questi aspetti di tipo informativo il maestro ha anche un ruolo cognitivo, che è quello di stabilire associa-zioni e confronti, richiedere l’uso di conoscenze acquisite, riattivare ricordi e sollecitare il loro riconoscimento. Com-pito del maestro è promuovere la problematizzazione, ossia invitare all’esame di soluzioni diverse e a compiere scelte ragionevoli che tengano conto di differenti punti di vista,

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siano esse questioni scientifiche o etiche, filosofiche e socia-li. Appare chiara da quanto detto tutta la complessità del ruolo professionale del maestro, alla cui preparazione con-corrono (come per altro sottolinea il Bettini) competenze, conoscenze e abilità operative che si acquisiscono e com-pletano sul campo.

Il pedagogista è lo specialista di processi educativi e forma-tivi, è un professionista con una formazione multidiscipli-nare, che comprende anche la psicologia, l’antropologia, la sociologia, la filosofia. Pertanto opera nel settore dell’edu-cazione dei minori e degli adulti. Come libero professioni-sta utilizza strumenti quali l’osservazione sistemica, i col-loqui, i questionari, l’indagine statistica e l’analisi critica della letteratura pedagogica. Egli, dunque, interviene nei settori della sanità, formazione, scuola. Agisce nel sociale e fornisce indispensabili competenze nei settori aziendali e assistenziali. Si attiva nella progettazione, gestione e verifi-ca di interventi eduverifi-cativi e formativi al servizio dell’indivi-duo, della famiglia, del gruppo e delle comunità più estese.

In altre parole per lo più, quando si parla di pedagogista si tende a indicare uno studioso impegnato nella riflessione in campo educativo; quando si nomina il maestro, si pensa più ad un operatore che utilizza e pone in atto le linee gui-da della pegui-dagogia.

In realtà, come già anticipato da Protagora prima, e poi via via da Kant, Dewey, Bruner... solo per citare alcuni nomi tra i più noti, è convinzione oggi condivisa che la teoria e la prassi devono sempre camminare una accanto all’altra, perché la teoria senza pratica è vuota e la pratica senza te-oria è cieca.

Il rapporto teoria-prassi costituisce uno dei punti foca-li dell’epistemologia pedagogica. Tale rapporto va chiara-mente concepito in chiave di unità dialettica.

Infatti, una teoria separata delle pratiche educative finisce per risultare inefficace perché astratta; ma anche la prassi diverrebbe inefficace se si limitasse alla risoluzione imme-diata dei problemi, prescindendo da basi teoriche, quindi procedendo per tentativi piuttosto che per linee di proget-tualità razionale e costruttiva.

“L’unità tra teoria e prassi implica la transizione dal para-digma della conoscenza contemplativa a quello della

cono-202 scenza attiva: si passa da una forma di sapere che è tipica

di uno spettatore disinteressato delle cose dell’educazione, alla forma di sapere che è propria dell’attore, di colui che è impegnato attivamente a far fronte ai problemi educativi.

[...] L’unità dialettica teoria-prassi appare, dunque, come un criterio regolativo fondamentale dell’epistemologia pe-dagogica, come pure del lavoro educativo sul campo”. (Bal-dacci, 2010, p.65).

In chiave di attualità ritengo che Lorenzo Bettini possa ben inserirsi in questo quadro; infatti attraverso i suoi studi e le sue pubblicazioni ha dimostrato continuità e circolarità tra lavoro teorico ed esperienza pratica, occupandosi di te-matiche educative e formative, come maestro, ispettore e direttore che aveva a cuore le tematiche e le problematiche dell’educazione con spiccata sensibilità verso il sociale.

L’esperienza via via maturata gli ha anche permesso di po-ter porre a confronto le scuole italiane, comprendendo e successivamente convogliando le sue energie per gli inter-venti educativi, sia sul versante metodologico e didattico che su quello strutturale, attento agli arredi e ai servizi, svi-luppando così un percorso a tutto campo, dall’igiene alla didattica.

Voleva che tutte le aule disponessero di una lavagna, di car-te geografiche, di carcar-telloni per l’insegnamento della storia, di mappamondi e compassi e si preoccupava che l’ammi-nistrazione comunale scegliesse banchi studiati per favorire una corretta postura degli alunni. Proponeva, inoltre, che ogni scuola disponesse di un museo didattico al quale far riferimento durante le lezioni, cercando così di fornire un insegnamento non solamente teorico, ma agganciato alle testimonianze storiche e a quelle della natura.

Appoggiava l’insegnamento della ginnastica e del canto, af-fidato a maestri competenti, e promuoveva le passeggia-te scolastiche per far conoscere la realtà fuori della scuola.

Era, infatti, convinto che una formazione efficace potesse essere realizzata solo in edifici attrezzati e rispettosi della sa-lute, convinto che l’insegnamento dovesse valorizzare doti fisiche e intellettive, teoria e pratica.

Era molto attento alla qualità dell’insegnamento e nei pri-mi anni della sua direzione, organizzava conferenze di ag-giornamento per i maestri, ritenendo non più convincenti

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le lezioni frontali, pedanti e ripetitive, causa di noia e in-docilità degli alunni. Allo scopo indicava sempre soluzioni di insegnamento legate all’esperienza e ai riferimenti del-la realtà e perciò promuoveva del-la ricerca di sussidi didattici idonei al contesto culturale e geografico di Venezia, inco-raggiando anche l’uso del cinema come mediatore cultura-le molto più potente del libro e proprio in quella Venezia destinata a diventare una sede importante per il mondo ci-nematografico.

Tra le molte iniziative realizza una scuola all’aperto per to-gliere dal malsano ambiente delle aule scolastiche gli alunni più fragili fisicamente, e classi speciali per gli alunni affetti da tracoma e altre per quelli con anomalie dello sviluppo mentale, badando bene dal farne classi differenziali. Propo-ne che i ragazzi poveri o non curati in famiglia facessero ri-ferimento all’Opera Combi che dava garanzia di assistenza.

Sostiene le vacanze estive per gli alunni poveri, o abbando-nati, presso la colonia alpina San Marco e l’attuazione del ricreatorio per i mesi di luglio e agosto e per i giovedì, allo-ra giorno di vacanza, per quanti rimanevano in loco.

La sua attività di direttore generale si concentra anche nella soluzione dei grandi problemi organizzativi suscitati dall’e-stensione dell’obbligo scolastico fino a dodici anni, in ap-plicazione della legge Orlando (1904). Propone sempre orientamenti di grande realismo, dando per esempio poco peso agli insegnamenti facoltativi, ritenuti inattuabili nel contesto della scuola elementare, mentre appoggia come strumento educativo il lavoro femminile per le bambine.

Sostiene l’utilità dell’insegnamento religioso, senza timo-re di scontrarsi per questo con le autorità scolastiche na-zionali.

Accanto alle pubblicazioni socio-storico-educative e peda-gogiche è possibile leggere le Memorie e trovarvi una coe-renza di fondo dove la volontà di formare si lega a quella di apprendere.

Troviamo infatti alcuni brani nelle Memorie, non anco-ra pubblicate, che manifestano come la lettuanco-ra impegnasse una parte importante della sua giornata quasi che le pagine lette quotidianamente fossero fonte di suggerimenti pre-ziosi in tutta l’attività di educatore, nel senso più ampio del termine.

204 È infatti nel suo costante leggere, riflettere e formarsi che

egli intravvede la possibilità di far conoscere anche qua-li sono a suo avviso le migqua-liori letture per i ragazzi al fine di fornire loro gli strumenti della conoscenza, utile e indi-spensabile bagaglio di crescita.

In Bettini, a mio avviso, si riscontra un’attività continuati-va e complementare dove il ruolo di insegnante, ispettore e direttore non è mai disgiunta da quello di educatore. Per-tanto una prima riflessione ci porta a sottolineare la grande forza con la quale egli si pone nei confronti della società e della istituzione scolastica, come uomo di scuola, convin-to che la risposta formativa ad una società che sta evolven-do sia quella educativa. Su questo punto vorrei ribadire la grande attualità e anche modernità di quest’uomo tenace-mente combattivo, persino di fronte ai cambiamenti sco-lastici che a suo avviso stanno perdendo di cultura e valore morale. Egli non si nasconde, ma alza la voce e denuncia apertamente la sua contrarietà.

Delle Memorie ci si può chiedere in cosa consista la loro attualità pedagogica. Sotto questa luce esse possono esse-re considerate una narrazione autobiografica, che è oggi, in un’epoca di grandi mutamenti sociali e culturali, strumen-to utile per conoscere e conoscersi, per confrontare la realtà di ieri con quella odierna, per stabilire le linee di continuità o di soluzione tra passato e presente.

La parola “narrare” richiama subito alla mente la trasmis-sione orale di fiabe, di storie popolari, di memorie familiari e, successivamente, il testo scritto, la narrazione letteraria, il racconto autobiografico o di finzione e il romanzo. Di fatto, la narrazione, sia orale che scritta, è trasmissione di segmenti del vissuto individuale e collettivo, come pure il modo per conservare e tramandare alle nuove generazioni, i tracciati storico-culturali del passato e le conoscenze, l’e-voluzione politica e culturale di una comunità.

Ma, cos’è un’ autobiografia e cosa caratterizza la narrazio-ne?Sfugge, solitamente, alla consapevolezza individuale quale sia il senso del raccontare la “propria storia” o anche le “sto-rie” collettive tramandate oralmente o scritte. Per Jerome Bruner l’autobiografia: “ha una curiosa caratteristica.

È un resoconto fatto da un narratore nel «qui e ora » e

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guarda un protagonista che porta il suo stesso nome e che è esistito nel «là e allora », e la storia finisce nel presente, quando il protagonista si fonde con il narratore.” (Bruner, 1999, p. 117).

Tra gli individui consapevoli della natura di questa espe-rienza occupano un posto particolare i romanzieri, alcuni dei quali ben evidenziano le caratteristiche di quel tipo di narrazione che si propone come autobiografia.

“La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricor-da e come la si ricorricor-da per raccontarla”afferma lo scritto-re colombiano Gabriel Garcìa Màrquez (Garcia Marquez, 2002).

Un altro grande “narratore”, Italo Calvino, sottolinea un aspetto essenziale della dimensione narrativa, affermando che “La vita d’una persona consiste in un insieme d’avveni-menti di cui l’ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l’insieme, non perché conti di più dei precedenti, ma perché inclusi in una vita gli avvenimenti, si dispongono in un ordine che non è cronologico, ma risponde ad un’archi-tettura interna”(Calvino, 2004).

Egli evidenzia della narrazione quella sostanziale funzione di riconnettere l’esperienza presente e passata, congloban-dola in un unitario e coerente universo di senso e di signi-ficato.

Ogni essere umano durante la propria esistenza racconta sé stesso e il suo vissuto – fatto di esperienze, incontri, pensie-ri ed emozioni – la sua personale visione del mondo e dei suoi simili.

La narrazione consente di attribuire un senso ed un nesso ad una serie di avvenimenti che, diversamente, risultereb-bero sconnessi e privi di coerenza. Di fatto, quando si rac-conta la propria vita, si trasmette il “significato” che gli si attribuisce, il quale non è immutabile, ma viene rielaborato nel tempo sulla base delle esperienze più recenti per essere integrato nella personale scala di valori.

La narrazione di sé acquista significato all’interno della vi-sione globale che l’individuo ha della propria esistenza, at-traverso cui ritrova il senso e il valore della propria vita nel suo complesso, delle proprie scelte e desideri, come delle delusioni e sofferenze.

Nel ricomporre e raccontare sé stesso, ogni uomo

selezio-206 na e dà risalto a quegli elementi che, nel quadro del

pro-prio percorso esistenziale, reputa rilevanti e fondamentali, in modo tale da collocare i singoli eventi in una trama uni-taria e significativa.

Sul piano dell’equilibrio personale, la capacità di elabora-re chiavi interpelabora-retative costituisce per l’individuo una delle più importanti risorse, dato che questa gli consente di argi-nare e mitigare quelle scissioni che possono causare aspre e drammatiche conflittualità.

La forma narrativa, presente fin dalla prima infanzia, per Jerome Bruner (1997) rappresenta la struttura che consen-te di organizzare l’esperienza e la conoscenza. In una storia raccontata, evidenzia lo studioso, ci sono due aspetti: la se-quenza di eventi che si pongono in relazione (nel rappor-to di causa/effetrappor-to) e una valutazione implicita degli eventi raccontati (il motivo per il quale la si racconta, che impli-ca di per sé una valutazione di un certo tipo). Difatti, non tutte le sequenze di eventi vengono raccontate, dato che re-gola fondamentale della narrazione è che deve esserci una ragione specifica per la quale si mettono in risalto alcuni ri-spetto ad altri. Il racconto si giustifica solo se la successione dei fatti risulta come qualcosa di inatteso, di nuovo, o per la quale chi ascolta ha motivo di dubitare.

Il significato è dato, inoltre, propriamente dall’ordine con il quale gli eventi sono presentati, che stabilisce il rapporto di causa-effetto.

Un altro aspetto importante è la segmentazione del tempo, che nel racconto autobiografico e nella narrazione in gene-re non è quello cronologico, ma è in stgene-retta gene-relazione con lo svolgimento di fatti cruciali. Si tratta di un tempo “uma-namente rilevante”, sostiene Bruner, “[...] la cui rilevanza è data dai significati assegnati agli eventi dai protagonisti della narrazione o dal narratore della storia, o da entrambi”

(1997, p. 149).

Attraverso la narrazione autobiografica si rielaborano gli eventi, anche quelli negativi come ad esempio quelli del lutto.

Il racconto autobiografico non va inteso come una trasmis-sione obiettiva di fatti e contenuti, ma costituisce, piutto-sto, una interpretazione - in una forma che non può essere se non narrativa - di ciò che il soggetto ritiene sia