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152 LUIGI EINAUDI

LO STRUMENTO ECONOMICO NELLA INTERPRETAZIONE DELLA STORIA

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adatta ad un paese; s'intende una massa di monete nobili d'oro ed a queste equi­ parate per diritto di cambio (biglietti e moneta divisionaria erosa). Non vi è pe­ ricolo di rimanere privi di essa.

« Vano poi chiama il timore di rimanere senza il contante necessario per l’interna cir­ colazione, qualora si ritirassero gradatamente tali specie; e dopo parecchie convincenti ra­ gioni da lui allegate, per dileguar questo timore, dice ingegnosamente, che non fa maggior forza l'aria esteriore per entrare in un vaso stato vuotato colla macchina pneumatica, per qualunque piccolo foro che ci si apra, di quella che ne faccia il denaro forestiere per entrar in un paese privo di denaro. Ne assicura di ciò l’avidità de' negozianti di trarre a buon mercato da un si fatto paese le sostanze che vi possono trovare quando non ci fossero rimasti che i soli sassi » (pag. 379-80).

Non si vuole, con la citazione del brano, dire che al teorema di Hume-Ricardo debba essere dato il nome del Salmour; ma soltanto osservare che suppergiù nel tempo stesso in che 1' Hume scriveva, un nobile piemontese, versato in controversie ed in negoziati commerciali, sentiva le verità che erano nell'aria del tempo, guardava con compatimento allo «spirito diretto e vincolante dei prammatici ».i quali, preoc­ cupati del pericolo « meramente immaginario » di veder uscire l'oro dal paese, cagionavano « un male effettivo e reale », mentre l'oro è come l'aria che da sè entra, « per qualunque piccolo foro » nei vasi di essa vuoti. Perchè non si dovrebbe correre a comprar le merci ai prezzi divenuti bassi per la fuoruscita dell’oro? In nuce, la teoria della distribuzione dei metalli preziosi nel mondo era nelle poche righe scritte nel 1749 dal Salmour.

5. — Il quale doveva essere fine ragionatore se giunge a stringere assai da vicino qualla che (in Teoria della moneta immaginaria, qui, fase. I, p. 20), ho definito clausola galianea. Vi si avvicina, in verità, solo nello scetticismo con cui giudica la possibilità di togliere la vera causa delle alterazioni monetarie, che è la variazione del rapporto commerciale fra oro ed argento, e nel consiglio di non variare il corso legale delle monete « quando la sproporzione è di poco momento », lasciando in tal caso « fare alla libera contrattazione » (ivi p. 383). Dal non occuparsi del corso delle monete effettive per le piccole variazioni, che è la proposta del Salmour (1749) al non occuparsene affatto mai, che è il consiglio del Galiani (1750-51), il passo è lungo. Ma siamo sulla medesima scia ideale, il cui termine ultimo sarebbe di considerare le monete effettive d’oro, d’argento, di rame, nazio­ nali o forestiere, connotate unicamente, come ogni altra merce qualsiasi, per il peso ed il titolo. Perchè tanto baccano intorno al rapporto fra il grammo d'oro ed il chilogrammo di pane, piucchè intorno a quello fra il chilogrammo di pane ed il litro di vino? chiedeva, ironicamente stupefatto, il Galiani. Qual differenza esiste fra l’uno e l’altro rapporto?

Nessuna differenza di sostanza vi ha, in verità, fra le varie specie di rapporti; e la mera esigenza della semplicità nelle contrattazioni ha fatto scegliere l’un rap­ porto (tra grammo d’oro e unità di merce) agli altri innumerevoli rapporti per la formazione dei prezzi di mercato. Ahi! quanto illusoria la speranza di ottenere in tal modo semplicità e chiarezza!

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QUESITI DI STORIA MONETARIA 153

6. — N egli scrittori piemontesi dal cinque al settecento una densa nube av­ volge questa materia monetaria. Napione, sia che parli per conto suo o riferisca il pensiero di Salmour, non chiarisce bene la differenza fra monete effettive e moneta immaginaria; chè ad un certo punto (vedi il § 1, Vera idea dell’aumento monetale) pare distinguere invece fra monete grosse (ad es. scudi d'oro e d’argento) che sarebbero rimaste invariate e monete inferiori, come le lire « le quali hanno succes­ sivamente servito di frazioni, sono in poco tempo diminuite della metà, sino alla reggenza di Madonna Reale Cristina, e da allora in poi anche maggiormente » (pag. 366). è così? Le lire scemarono effettivamente, come unità coniate, di peso e di titolo nello stesso rapporto in cui aumentarono le monete superiori? Può darsi. Ma altrove (in Mario Chiaudano, La riforma monetaria d i Emanuele Filiberto, pagg. 155 e 160) vedo la lira, valutata in 20 soldi nel 1562, essere re­

cata nel 1573 a 2 1bi/ 7 soldi, nel 1576 a 22 s. 3 d., nel 1578 a 22 s. 9 Va d- senza che si conoscano variazioni corrispondenti nel peso e nel titolo di essa. Dunque, la lira non era l'unità monetaria effettiva, ma qualcosa di diverso. Che cosa? A leggere i memoriali di monetaristi pratici del tempo, ufficiali alla zecca e consiglieri alla Camera dei conti, ed i loro moderni commentatori, si rimane perplessi. Chiaudano, scrittore di opera egregia, di cui il pregio può intendere solo chi si sia azzardato a tentare una piccola parte delle indagini e dei calcoli da lui coraggiosamente condotti a termine, parla di un grosso, dodicesima parte del fio­ rino, moneta di conto piemontese innanzi alla riforma del 1563, che sarebbe stato uguale al grosso battutto nelle zecche sabaude (pag. 98). E v'cra in realtà un grosso effettivo, sebbene variabile in peso e in titolo (pag. I l i , 114, 119); nel qual caso nè grosso nè fiorino sarebbero stati moneta di conto od immaginaria, sibbene effettiva (cfr. la mia Teoria della moneta immaginaria, qui, fase. I, pag. 4). Ma vedo il Befferò (N ote sulla politica monetaria d i Emanuele Filiberto in « Rivista in­ ternazionale di scienze sociali », febbraio-marzo 1928, pagg. 140 e 143) distinguere tra il fiorino d’oro di Firenze, che sarebbe stato sempre moneta di conto ed il fio­ rino cosidetto di piccolo peso, rappresentante 12 grossi, qualunque fosse il corso di questo ; e ricordare lo scudo d'oro del sole come « vera e propria moneta di conto ». Il che è un insieme di proposizioni inesplicabili. Come possono lo scudo d’oro del sole ed il fiorino di Firenze essere monete di conto, se coniate e quotate a corso variabile in grossi di fiorino? Come poteva a sua volta il grosso servire di mo­ neta di conto se avesse avuto un corso, ossia se fosse stato quotato in un’altra mo­ neta che, essa sì, sarebbe stata di conto? Ma da una tabella (ivi, giugno 1928, p. 38) vedo che il Befferò assume per corso del grosso e dei fiorini parvi ponderis quello che è invece il corso delle monete effettive in fiorini e grossi di fiorino. Resta il mistero del grosso effettivamente battuto di cui parla Chiaudano. Parecchi altri mi­ steri tormentano. La lira, creata da Emanuele Filiberto ad occasione della riforma del 1562, perde, osserva il Chiaudano a pagina 183, dal 1562 al 1580 circa il 30 % del suo valore; ma a pagina 182, pur riaffermando trattarsi di diminuzione del valore della lira, la fa uguale a 30 grossi nel 1562-73 ed a 40 nel 1578-80. In che senso una moneta, la quale compra un numero « crescente » di unità di un’altra moneta, può dirsi svalutatesi ? In rapporto all’unità di un’altra moneta e quale?

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7. — Dalla nebbia che avvolge la materia monetaria non si esce se non foggiando a se stesso lo strumento di una teoria. Di che specie deve essere lo strumento? I valorosi scrittori degli Annales d ’histoire èconomique et sociale paiono rispondere che lo strumento deve essere storico. Parlando di una raccolta di an­ tichi scritti monetari, uno dei direttori della rivista scrive : « E evidente che essi sono stati scelti e pubblicati secondo un criterio interamente ‘ economisti«) ' e niente affatto ‘ storico’ (dans un esprit tout à fait ‘ économiste’ er pas du tout ‘ histo­ rien’); e che la grande preoccupazione dell'autore è di scoprire in Tizio un pre­ sentimento ed in Caio un'anticipazione dell'una o dell'altra delle teorie la cui suc­ cessione forma oggi la trama dei moderni corsi di scienza economica; ma lo storico non può non pensare che dallo studio dei fatti (e cioè dalla politica consueta dei governi, dall'andamento reale dei prezzi, dal movimento effettivo dei cambi) si po­ trebbero trarre lezioni di ben altro interesse di quello di cui si raccoglie l'eco nelle raccolte di vecchi testi grazie al fatto che, qualunque cosa accada, lo stampato gode di un suo prestigio e presenta una sua comodità » (« Annales », Mai 1936, pag. 306).

8. — Lucicn Febvre pone qui parecchi contrasti. Ed in primo luogo fra lo studio dei fatti e lo studio delle teorie del tempo a cui i fatti si riferiscono; e tra i due studi appare a lui più fecondo il primo. Non vedo il contrasto, nè la possi­ bilità di potere affermare una preferenza in generale per l'una o per l'altra specie di studio. Vi sono sempre stati fatti stupidi e teorie esposte da chi non capiva niente delle cose che vedeva accadere attorno a lui. Perchè i fatti e le teorie del passato dovrebbero essere diversi da quelli di oggi? Nove decimi dei dati statistici che sono raccolti oggi dagli innumerevoli uffici all'uopo fabbricati e dotati di im­ piegati e di macchine calcolatrici sono insipidi, insignificanti, raccolti per far nu­ mero, per levarsi d'attorno la seccatura di una circolare. Nove decimi delle teorie messe a stampa non sono teorie, bensì parole senza senso infilzate da gente che non ha meditato sull'argomento, che non ha niente da dire in merito, che ripete i soliti luoghi comuni che corrono attraverso le colonne dei giornali e le vociferazioni della radio; o son teorie di chi ha meditato troppo su qualche particolarissimo interesse e tira l'acqua al suo mulino coprendo l'interesse egoistico con rigiri complicati di in­ teresse generale. Perchè le cose in passato dovevano andare diversamente da oggi? Certo, a- mano a mano che si risale indietro col tempo, i dati e le teorie diventano meno abbondanti, sicché finisce di rincrescere a dover trascurare anche le briciole e le scemenze; e si tesoreggiano e si pigliano per oro in barra iscrizioni funerarie, panegirici su monumenti ecc. ecc. anche se si conoscono le bugie o le reticenze degli analoghi monumenti di tempi da poco trascorsi. Anche le adulazioni, se venerande, diventano un indice. Alla fin fine bisogna scegliere, con più o meno crudeltà, ed in­ terpretare fatti e teorie. Con quale strumento, con quale criterio, secondo quale punto di vista?

9. — Questo è il vero contrasto ed il vero problema. Il Febvre parrebbe con­ siderare preferibile il criterio o strumento o punto di vista « storico » a quello « economisti«) » ; e la differenza fra quest'ultimo ed il primo parrebbe stare in

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CRITERIl DI STORIA ECONOMICA 153

ciò che l'economista cercherebbe nelle teorie antiche l’accenno precursore, l'anti­ cipazione delle teorie moderne, laddove lo storico studierebbe teorie e fatti nella loro interezza, tali quali furono, senza preoccupazioni, per trarne fuori tutto ciò die essi possono darci, tutta la spiegazione di un’epoca, di un avvenimento, di una vicenda.

Anche qui non mi pare sia colpito il punto essenziale. Come non esiste una preferibilità genuina dei fatti sulle teorie e viceversa; ma occorre scegliere, tra i molti, i fatti e le teorie rilevanti, e sapere mettere in luce la rilevanza di certi fatti e di certe teorie e la irrilevanza di certi altri fatti e teorie; cosi non si vede perchè l'un criterio sia preferibile in ogni caso ad un altro. Lo stesso fatto e la stessa teoria possono essere considerati con l'occhio dell'economista o del giurista o del politico ; e tutti questi modi diversi di guardare possono esser fecondi di presentazioni illumi­ nanti ed originali. Direi che fra i diversi occhi particolari — economistico, giuridico, politico — e l'occhio generale dello storico la differenza sia di grado; che occhio storico pare possa essere soltanto quello rarissimo di chi possiede nel tempo stesso il senso economico e quelli giuridico e politico ed altri ancora ed abbraccia i fatti nella loro interezza e trascura i criteri in quel punto secondari o irrilevanti, con­ centrandosi su quello o quelli che a volta a volta sono significativi; e spiega la somma delle vicende umane, in modo che economisti, giuristi, politici, militari, artisti, poeti sono forzati a riconoscere vera la interpretazione che lo storico ha dato di quella vicenda, anche se di quando in quando il loro particolare criterio è stato dimenticato o messo in seconda linea. Purtroppo, storici così compiuti nascono a gran distanza di tempo l'un dall'altro; ma, nati, costringono tutti ad ammirazione.

10. — La disputa fra cultori di storia economica, in realtà è altra. Mi pare di intrawedere nelle parole di Febvre la eco della vecchia controversia fra lo scrivere storia economica con o senza preconcetti. E certamente, storia economica, di fatti o di dottrine, non è:

— quella certa cosa che si scrive supponendo che un certo fattore, detto econo­ mico, sia più importante e determinante degli altri. N on vai la pena di intratte­ nersi su questo oramai pacifico punto. Pacifico almeno tra gli economisti, i quali ai seguaci dell'economismo storico muovono, salvo casi rarissimi, un principalissimo rimprovero: di non saper niente di scienza economica e di assumere perciò come economici concetti che con l'economia hanno scarsissima parentela.

— nè quella certa altra cosa che si scrive per confortare la tesi che le teorie eco­ nomiche sono quel che le fecero i tempi. Che è un modo di scrivere storia il quale suppone nello scrivere inettitudine a distinguere fra teorie e teorie, fra teorie le quali non dico siano vere, che era la tesi di Pantaleoni, ma almeno aggiunsero, negando e perfezionando, qualche proposizione al corpo ricevuto dalle dottrine del tempo, nel qual caso sarà da studiare se abbiano avuto occasione fortuita da un qualche fatto del tempo o dalla scintilla del genio ; e teorie qualunque, ripetizioni di vecchie dot­ trine o di sempre rinnovantisi errori o pregiudizi o sentimenti, che pigliano il color dei tempi o della moda o della piaggieria e sono materia di sfondo o di scorcio per lo storico intiero.

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