Sottotipi motor
2.3.4. Malattia di Parkinson e invecchiamento
L’invecchiamento potrebbe avere un ruolo critico nella Malattia di Parkinson. I neuroni che degenerano nella Malattia di Parkinson diminuiscono anche nel normale invecchiamento, e diversi dei fattori implicati nella patogenesi della Malattia sono comuni a quelli alla base dell’invecchiamento. La senescenza è un fenomeno diffuso che colpisce le cellule di tutto il corpo, mentre la malattia di Parkinson è ristretta a determinate regioni encefaliche e popolazioni cellulari. Sulla base di queste osservazioni è stato proposto che la Malattia di Parkinson sia causata da una morte cellulare accelerata - “modello dell’invecchiamento accelerato” del PD (Dunnett and Bjorklund 1999) di una popolazione di neuroni, che per le loro caratteristiche (alto numero di terminali sinaptici e mitocondri, assoni demielinizzati, sintesi di DA ecc.), sono particolarmente vulnerabili agli agenti promotori dell’invecchiamento (Rodriguez et al. 2015).
L’invecchiamento
L’invecchiamento è un fenomeno fisiologico caratterizzato da un progressivo declino di diverse funzioni fisiologiche, da un’aumentata suscettibilità a determinate malattie e da un incremento della probabilità di morte. Nonostante esistano diverse teorie per spiegare l’esordio e la progressione dell’invecchiamento, è generalmente accettato che questo non sia il risultato di una singola causa. Gli agenti causali e i meccanismi che collaborano per produrre l’invecchiamento possono essere divisi in due gruppi: agenti passivi che inducono danno tissutale non propriamente riparato che si accumula durante la vita (teorie basate sul danno), e fattori genetici che alterano attivamente il comportamento fisiologico delle cellule (teorie programmate). Entrambi i tipi di teorie considerano l’invecchiamento come un fenomeno multifattoriale, dove l’equilibrio tra il danno cellulare e i meccanismi di riparazione viene progressivamente perso nel corso della vita (ipotesi multifattoriale) (Rodriguez et al. 2015).
La Malattia di Parkinson è caratterizzata dalla degenerazione di diverse strutture encefaliche (loucus coeruleus, nucleo peduncolopontino, ecc.) (Braak et al. 2003), tuttavia il segno neuropatologico cardine della malattia di Parkinson è la degenerazione della SN. La SN è anche la regione che, rispetto a qualsiasi altra regione del SNC, subisce maggiori cambiamenti durante l’invecchiamento (Reeve, Simcox, and Turnbull 2014). Diversi studi patologici hanno misurato la perdita di cellule con l’invecchiamento in diverse regioni encefaliche, ma nessuna di queste ha mostrato valori paragonabili a quelli osservati nella SNc. Sono state dimostrate una sostanziale stabilità del numero di cellule per tutto il periodo dell’età avanzata all'interno dell'ippocampo, del putamen, del nucleo mammillare mediale, dell'ipotalamo e del nucleo basale di Meynert; è stato invece stimato che i neuroni neocorticali subiscono una perdita di solo il 10% durante tutto la durata della vita. Tuttavia, in altre popolazioni dopaminergiche, tra cui nella VTA e nell'area retrobulbare, la perdita di cellule potrebbe raggiungere il 50% (Hirsch et al. 1987). Le perdite cellulari più marcate si rilevano a livello della SN, dove sono state descritte perdite variabili del 7-10% per decade. Questi studi suggeriscono che le popolazioni neuronali dopaminergiche siano preferenzialmente vulnerabili all'invecchiamento rispetto a molte altre regioni del cervello, tra cui quelle correlate ad altri disturbi neurodegenerativi, quali l’ippocampo (Reeve, Simcox, and Turnbull 2014).
Le cellule della SNc sono neuroni pigmentati, ad attività pace-maker, in grado di sintetizzare e rilasciare DA. Il metabolismo della DA da parte delle MAO genera radicali dell’ossigeno e H2O2; mentre la DA stessa può ossidarsi in una serie di reazioni comprendenti metalli di transizione, rendendo queste cellule maggiormente suscettibili allo stress ossidativo. Un’alterata dinamica del Calcio in età avanzata potrebbe compromettere la permeabilità mitocondriale e quindi la funzione bioenergetica, mentre il Ferro che si accumula nei neuroni senescenti potrebbe favorire la formazione di radicali dell’ossigeno mediante la reazione di Fenton. Le cellule nigrali senescenti hanno dimostrato avere numerose alterazioni mitocondriali, compresi un accumulo di delezioni nel DNA mitocondriale, una ridotta attività respiratoria e un conseguente calo nella produzione di ATP. Negli anziani sono stati trovati, come nel PD, cambiamenti nell'espressione e
nell'attività dei complessi della catena di trasporto elettronico mitocondriale I e IV. Anche la degradazione proteica e degli organelli, altro processo considerato importante nella patogenesi del PD, mostra un decadimento nel corso dell’invecchiamento. Sia la degradazione mediante la via dell’ubiquitina- proteasoma, sia mediante autofagia, subiscono infatti un calo dell’efficienza in età avanzata. I cambi sopracitati che si realizzano nell’invecchiamento nelle cellule dell SN spiegherebbero la maggiore suscettibilità di tali cellule alla degenerazione e potrebbero contribuire alla perdita cellulare nella PD (Reeve, Simcox, and Turnbull 2014).
Degenerazione dopaminergica e invecchiamento
La SN è un nucleo anatomicamente eterogeneo con variazioni regionali nelle proiezioni striatali e nella distribuzione dei marker IIC. La SN si divide in una Pars Reticolata, ventrale, e una Pars Compacta, dorsale. La Pars Compacta a sua volta è divisa in un tier ventrale e uno dorsale. Studi topografici della proiezione nigrostriatale nella scimmia hanno stabilito che la nigra craniale proietta principalmente verso la testa del caudato mentre la nigra caudale al putamen e al corpo del caudato. La nigra ventrale laterale proietta al putamen dorsale (Fearnley and Lees 1991). Nel 1991 Fearnley e Lees, confrontando la progressione e la distribuzione regionale della degenerazione NS in encefali di controlli sani e pazienti PD, trovavano pattern diversi di danno nei due gruppi di campioni. I controlli sani presentavano una maggiore degenerazione nel livello dorsale (6.9% per decade), seguite dal livello ventrale mediale (5,4%) e meno nel livello ventrale laterale (2,1%), mentre nella Malattia di Parkinson si realizzava l’esatto opposto. Come confermato da altri studi, la perdita neuronale nel PD era maggiore nel livello ventrale laterale (perdita media del 91% escluso l'invecchiamento) seguita dal livello ventrale mediale (71%) e dal livello dorsale (56%). I controlli sani, inoltre, mostravano una perdita lineare di cellulle NS del 4,7% per decade, mentre i pazienti PD avevano una perdita di tipo esponenziale, con un calo del 47% nel solo primo decennio, 10 volte superiore a quello osservato nei controlli. L’anno seguente Kish e colleghi (1992) dimostravano, in modo analogo, pattern
caratteristici di deplezione e metabolismo dopaminergico nello striato di soggetti sani. Evidenziavano, come già riportato da precedenti studi, un declino della DA del 10-13% per decade e, come meccanismo compensatorio, un aumento del rapporto HVA/DA. Il caudato e il putamen, specialmente nelle loro regioni caudali, mostravano entrambi un calo del 60% della dopamina nei soggetti ultraottantenni rispetto ai ventenni. Questi valori si discostavano da quelli normalmente trovati nello striato di pazienti con Malattia di Parkinson, che mostrano un declino di DA più marcato nel putamen e un relativo risparmio del caudato (Kish et al. 1992).
Diversi studi di neuroimaging hanno confermato un declino nella captazione striatale del DAT nei soggetti sani di età avanzata. Il declino della captazione potrebbe essere dovuto, oltre alla perdita di terminali, alla ridotta espressione del DAT sulla membrana plasmatica o a una ridotta espressione del suo mRNA(Booij et al. 2001). Gli studi hanno riportato effetti dell’età variabili, lineari o non lineari, con un declino dal 2.9 al 10.9% per decade (Kaasinen et al. 2015). Alcuni lavori indicano che non vi sia un declino età correlato nel legame del DAT striatale nella Malattia di Parkinson (Booij et al. 2001), o che il declino sia più lento nella Malattia di Parkinson rispetto ai soggetti sani o che sia più veloce nella Malattia di Parkinson. Alcuni studi hanno riportato un effetto dell’età sul declino nel legame del DAT nel caudato con un declino inferiore nel putamen o declini simili solo nel putamen ipsilaterale o destro. Shingai e al (2013) dimostravano, oltre che una perdita per ogni decade del 7.6% nel caudato e del 7.7% nel putamen, una perdita del 3-4% nella SNpc (Shingai et al. 2014). In uno studio di Kaasinen (2015) nel gruppo dei controlli, l’invecchiamento si associava a un declino del 3.6%-4.6% per decade nel legame del DAT a livello striatale e in multiple altre regioni extrastriatali. Nei pazienti con Malattia di Parkinson, il declino età- correlato si osservava solamente nel nucleo caudato, nel talamo, nella corteccia olfattiva e cingolata, con un tasso di declino comparabile a quello dei controlli (Kaasinen et al. 2015). Mozley e colleghi nel 1999 confermavano a uno studio SPECT l’esistenza di una significativa correlazione tra il legame del DAT e l’età e l’uptake del tracciante diminuiva all’aumentare dell’età. La relazione trovata nello studio era meglio rappresentata da due curve formanti un modello di tipo broken-
stik piuttosto che da una linea retta. La maggior parte degli effetti del normale invecchiamento potevano essere spiegati da cambiamenti prima di una età “break- point”, punto di rottura, che variava da 32.6 a 42.2 anni. L’età “break-point” era di 36 anni circa per l’intero striato ed era inferiore per il putamen rispetto al caudato. Dopo questa età gli effetti dell’età diventavano meno pronunciati - il tasso di declino nell’interno striato all’età di 20 anni era del 10.9% per decade, ma cadeva a soli 2.9% intorno ai 40 anni. Utilizzando semplici modelli lineari per stimare il tasso di declino nell’intero striato, il valore medio per decade era del 6.2% nell’intero campione e circa 11% per decade nei giovani adulti, in linea con precedenti lavori. i tassi di declino stimati risultavano significativamente più alti nei giovani adulti rispetto ai volontari più anziani. Curve simili di invecchiamento sono state descritte per altri componenti del sistema dopaminergico. L’età di rottura calcolata, 36 anni, era coerente con diverse concettualizzazioni sociali e biologiche su quando inizi la mezza età. I risultati indicavano che i livelli del DAT rimangono relativamente stabili dai 30 fino ai 60 anni nella maggior parte delle persone sane, un periodo che potrebbe definire la mezza età per i neuroni del sistema dopaminergico mesencefalico. L’esistenza di una relativa stabilità biologica in questo periodo potrebbe spiegare perché alcuni autori non abbiano trovato alcun effetto dell’età nei loro lavori. Questa stabilità è coerente con l’osservazione che l’uptake del tracciante in alcuni soggetti con 70 anni era comparabile ai valori ritrovati in gruppi di trentenni mentre i valori più bassi si trovavano in alcuni dei volontari più anziani. Le forme delle curve di invecchiamento erano qualitativamente simili in tutte le sotto regioni dei nuclei della base, ma i tassi di declino erano più elevati nel putamen rispetto al caudato. Dopo l’età di rottura, non si rilevavano nel campione ulteriori decrementi nel caudato (Mozley et al. 1999).
Gli studi PET con FD hanno dato risultati contrastanti. Sono stati riportati un declino età-associato dell’uptake di FD, valori invariati, o lievemente aumentati. La PET con FD riflette l’attività della dopa decarbossilasi nei terminali presinaptici. Risultati di studi post mortem suggeriscono che la sintesi della dopa decarbossilasi possa essere up-regolata nei neuroni sopravvissuti all’invecchiamento, e di conseguenza, l’uptake della FD striatale potrebbe fornire
una sovrastima del numero dei neuroni dopaminergici (Kish et al. 1992). Questo spiegherebbe come mai diversi studi non abbiano trovato una perdita significativa dell’uptake della FD in controlli di età avanzata.
Influenza dell’invecchiamento sulla clinica della Malattia di Parkinson
Diversi studi hanno dimostrato che l’età sia in grado di influenzare la progressione clinica della Malattia di Parkinson. L’età avanzata si associa a un tasso più rapido di progressione clinica motoria, a una ridotta risposta alla terapia dopaminergica, a un maggior impegno di tipo assiale, a un maggiore impegno cognitivo e sviluppo di demenza (Levy 2007). Granerus e colleghi hanno dimostrato poco dopo l’avvento della terapia con Levodopa che il miglioramento delle attività di vita quotidiana era inversamente correlato all’età di inizio del trattamento; e che in generale i pazienti anziani rispondevano peggio alla terapia dopaminergica (Granerus, Steg, and Svanborg 1972). Diversi studi, in seguito, hanno confermato una minor risposta al test con Levodopa in soggetti più anziani rispetto a pazienti giovani. Durso e colleghi trovavano una significativa correlazione negativa tra età del paziente e ampiezza, ma non durata, di risposta al test alla Levodopa (Durso et al. 1993). L’impegno della marcia e della postura sono relativamente refrattari alla terapia dopaminergica negli stadi intermedi e avanzati di malattia di Parkinson, mentre tremore, rigidità e bradicinesia tendono a rispondere maggiormente alla Levodopa (Levy 2007). È stato proposto che le manifestazioni motorie più resistenti alla terapia dopaminergica, responsabili del “residual motor score” in seguito ad assunzione di Levodopa, siano dovute a lesioni in neuroni non dopaminergici; e che una minore risposta negli anziani sia dovuta a una maggiore severità di lesioni non dopaminergiche nell’invecchiamento (Blin et al. 1991). In seguito è stato dimostrato che tali manifestazioni motorie di tipo “non-dopaminergico” si associano a un maggiore incidenza di declino cognitivo e demenza (Levy et al. 2000). Allo stesso modo, l’età avanzata si associa a un tasso più rapido di declino cognitivo e sviluppo di demenza. È stato quindi proposto che una possibile associazione tra determinate manifestazioni motorie e declino cognitivo possa essere l’invecchiamento (Levy
et al. 2000). Una maggior tendenza a sviluppare declino cognitivo è stata dimostrata sia per l’età di valutazione sia per l’età di esordio (Levy 2007). Tuttavia Hughes e colleghi hanno riportato che l’incidenza di demenza nella loro coorte di pazienti con Malattia di Parkinson in studio si associava all’età dei pazienti, alla severità dei sintomi neurologici, alla durata di malattia, alla disabilità e al sesso maschile, mentre il ruolo dell’età di esordio aveva un ruolo “borderline” (Hughes et al. 2000). L’invecchiamento, in questo modo, potrebbe essere un fattore predittivo di declino cognitivo e di demenza più importante rispetto all’età di esordio (Levy 2007).