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Età di esordio, severità della degenerazione nigrostriatale e complicanze della Malattia di Parkinson: evidenze da uno studio scintigrafico.

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Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in

Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea

Età di esordio, severità della degenerazione nigrostriatale e

complicanze della Malattia di Parkinson: evidenze da uno

studio scintigrafico.

RELATORE

Chiar.mo Prof. Roberto

Ceravolo

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Duccio

Volterrani

CANDIDATO

Roberta

Bovenzi

Anno Accademico 2016/2017

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INDICE

1.RIASSUNTO ANALITICO

2.INTRODUZIONE

2.1 LA MALATTIA DI PARKINSON

2.1.1. Epidemiologia ed eziopatogenesi

2.1.2. Modelli animali

2.1.3. Manifestazioni cliniche

2.1.4. Diagnosi clinica

2.1.5 Diagnosi differenziali

2.1.6 Diagnostica per immagini

2.1.7 Terapia

2.2. DISCINESIE INDOTTE DA LEVODOPA

2.2.1 Epidemiologia

2.2.2. Fisiopatologia

2.2.3. Clinica e classificazione

2.2.4. Prevenzione delle discinesie

2.2.5. Terapia delle discinesie

2.3. IL RUOLO DELL’ETA’ NELLA MALATTIA DI

PARKINSON

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2.3.2. Sottotipi EOPD e LOPD

2.3.3. Malattia di Parkinson “old” onset

2.3.4. Malattia di Parkinson e invecchiamento

3.1 OBIETTIVI DELLO STUDIO

3.2 MATERIALI E METODI

3.2.1. Campione di studio

3.2.2. Acquisizione delle immagini

3.2.3. Analisi statistica

3.3. RISULTATI

3.4. DISCUSSIONE

3.5 CONCLUSIONI

4. TABELLE E FIGURE

5. BIBLIOGRAFIA

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1. RIASSUNTO ANALITICO

La Malattia di Parkinson (MP) è il secondo più comune disordine neurodegenerativo dopo la Malattia di Alzheimer. L’età media di presentazione è di 60 anni e l’invecchiamento rappresenta il principale fattore di rischio ad oggi noto, tuttavia una quota non irrilevante (fino al 7%) di pazienti ha un esordio al di sotto dei 40 anni. Classicamente descritta con la triade motoria di bradicinesia, ipertonia di tipo plastico e tremore di riposo che ne costituiscono il core dei criteri diagnostici, la malattia è oggi riconosciuta come una delle più eterogenee sotto il profilo clinico-patologico e della sua storia naturale. Tale eterogeneità ha portato al riconoscimento di molteplici sottotipi di malattia sulla base soprattutto dell’insieme delle manifestazioni cliniche, con l’obiettivo di comprenderne meglio i meccanismi patogenetici e favorire così lo sviluppo di ulteriori terapie sintomatiche mirate. Tra le variabili individuate, l’età di esordio è ormai riconosciuta come uno dei maggiori determinanti del decorso di malattia in grado di influenzare il fenotipo clinico, la risposta alla terapia dopaminergica, lo sviluppo di complicanze e il grado di progressione di malattia. Una sottotipizzazione della malattia prevede perciò un fenotipo ad esordio precoce (inferiore a 50) – “EOPD”, e un fenotipo ad esordio tardivo (superiore ai 50 anni) - “LOPD”, laddove il primo si associa più frequentemente al tremore, mostra una buona risposta alla terapia dopaminergica e una precoce predisposizione a sviluppare complicanze motorie. I meccanismi fisiopatologici alla base delle differenze fenotipiche nei due gruppi di pazienti non sono ancora compresi. L’alterazione tradizionalmente considerata alla base della fisiopatologia della MP è la riduzione dei livelli di dopamina nello striato (conseguente alla degenerazione e alla perdita di neuroni dopaminergici della substantia nigra mesencefalica) rilevabile in vivo mediante l’ultilizzo di radiotraccianti della sinapsi dopaminergica; la metodica più utilizzata è la scintigrafia con DaTSCAN, marcatore del trasportatore (il DAT) allocato sul terminale dopaminergico presinaptico. L’entità di compromissione del DaTSCAN varia in relazione a molteplici fattori, anche legati alla malattia, e diversi pattern di captazione del tracciante dopaminergico sono stati dimostrati per sottotipi motori diversi. Allo

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stesso tempo, il differente grado di denervazione rilevato al momento della diagnosi ha dimostrato rivestire un significato anche prognostico, con una correlazione diretta tra severità del danno nigro-striatale e severità clinica di malattia. E’ noto, ad esempio, che la presenza e l’estensione della denervazione sono fattori di rischio di sviluppo delle discinesie. D’altra parte una maggiore propensione allo sviluppo di complicanze motorie è stata posta in relazione a più efficaci meccanismi di compenso dopaminergico, tra cui un aumentato turnover della dopamina e una down-regolazione del DAT. La possibile relazione tra l’uptake dopaminergico striatale ed età di esordio è stata indagata con metodiche differenti con risultati nel complesso contrastanti, e ad oggi le uniche dimostrazioni relative alla disponibilità del DAT striatale in relazione all’età sono all’insegna di un generale decremento della densità del trasportatore con l’invecchiamento. Con l’obiettivo di ricercare eventuali differenze nell’entità di captazione nigrostriatale del DaTSCAN in pazienti con MP in funzione dell’età di esordio della malattia, abbiamo selezionato due gruppi di pazienti con Malattia di Parkinson de novo, l’uno con esordio <55 anni e l’altro con esordio >70 anni. Per correggere il dato scintigrafico per la degenerazione legata all’età, per entrambi abbiamo selezionato un rispettivo gruppo di controlli di pari età. 168 soggetti – di cui 76 pazienti con Malattia di Parkinson de novo (35 con esordio < 55 anni e 41 > 70 anni) e 92 controlli (29 sotto i 55 anni e 63 sopra i 70 anni, intesi come pazienti con DaTSCAN negativo ed una diagnosi definitiva diversa dalla MP o dai parkinsonismi degenerativi, confermata clinicamente con un follow-up ambulatoriale di almeno 5 anni) - sono stati selezionati e di essi è stato analizzato il DaTSCAN (eseguito all’esordio della loro sintomatologia) nel valore semiquantitativo di uptake striatale del radiotracciante per stimare la densità del DAT a livello di caudato e putamen. I pazienti sono stati reclutati e allocati in uno dei 4 gruppi in base all’età (pazienti MP con esordio < 55 anni, pazienti MP con esordio > 70 anni, controlli di età < 55 anni e controlli >70 anni); i pazienti con Malattia di Parkinson dei due gruppi sono stati appaiati per durata di malattia (11,30 mesi). Nel nostro studio è emerso che una volta corretti i valori di captazione per l’età anagrafica, i pazienti parkinsoniani con età di esordio inferiore ai 55 anni avevano una riduzione estremamente significativa (P<0.0001)

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della densità del DAT a livello putaminale rispetto ai pazienti con esordio in età superiore ai 70 anni. L’evidenza di una minore captazione del radiotracciante nei pazienti EOPD a parità di clinica e di durata di malattia rispetto a pazienti LOPD conferma l’ipotesi che i primi abbiano migliori meccanismi di compenso, e in particolare che la densità del DAT striatale rappresenti l’espressione sia del grado di degenerazione nigrale che il risultato della sua down-regolazione compensatoria, il che potrebbe spiegare la differente propensione allo sviluppo di complicanze motorie nei fenotipi parkinsoniani giovanile e tardivo.

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2. INTRODUZIONE

2.1 LA MALATTIA DI PARKINSON

2.1.1. Epidemiologia e Eziopatogenesi

Epidemiologia

La Malattia di Parkinson è per frequenza il secondo disordine neurodegenerativo dopo la Malattia di Alzheimer (Lee and Gilbert 2016). Il principale fattore di rischio ad oggi riconosciuto è l’invecchiamento. Si stima che la prevalenza della Malattia di Parkinson nei paesi industrializzati sia dello 0.3% nella popolazione generale e del 3% in soggetti con età superiore a 80 anni (Lee and Gilbert 2016), mentre i tassi di incidenza annuali stimati sono del 14/100.000 nella popolazione generale e del 160/100.000 in soggetti di età superiore ai 65 anni (Ascherio and Schwarzschild 2016). L’età media di esordio è di 60 anni (Lee and Gilbert 2016). E’ stato stimato che il numero di soggetti con Malattia di Parkinson ed età superiore ai 50 anni fosse tra 4.1 e 4.6 milioni nel 2005 e che questo numero, a causa dell’invecchiamento generale della popolazione, sarà più che raddoppiato nel 2030, raggiungendo valori tra gli 8.7 a 9.3 milioni di persone affette (Dorsey et al. 2007). Tuttavia, studi epidemiologici hanno dimostrato un declino dell’incidenza della Malattia di Parkinson sopra i 70-75 anni e hanno dimostrato che questa non è una causa primaria di morte in soggetti sopra gli 85 anni (Diederich et al., 2013). Esistono differenze di malattia in funzione del sesso, e il sesso maschile è riconosciuto come un fattore di rischio indipendente dello sviluppo di Malattia di Parkinson. Sia l’incidenza che la prevalenza sono da 1.5 a 2 volte superiori negli uomini rispetto alle donne. Sono state descritte anche differenze nella presentazione clinica della Malattia. L’età di esordio è lievemente maggiore nelle donne piuttosto che negli uomini e le donne mostrano un fenotipo di malattia più lieve, con una maggiore prevalenza di tremore e un minore impegno motorio. Sintomi non motori quali ansia, depressione, stipsi sono più

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frequenti nelle donne, mentre sonnolenza diurna, sintomi sessuali e scialorrea sono prevalenti negli uomini (Lee and Gilbert 2016). Differenze di incidenza sono state riportate altresì in funzione dell’etnia, con tassi di incidenza più bassi in soggetti di razza nera rispetto ai bianchi. Tra questi i tassi più alti di incidenza sono stati ritrovati negli Ispanico/Latino-Americani, seguiti dai non Ispanici e dagli Asiatici (Van Den Eeden et al. 2003).

Genetica

Per molto tempo la Malattia di Parkinson è stata considerata una malattia sporadica priva di un substrato genetico. Nel 1997 tuttavia, è stata individuata la prima forma genetica di malattia, data da una mutazione del gene dell’α-sinucleina (SNCA) (Polymeropoulos et al. 1997). Da allora sono stati individuati numerosi altri geni responsabili di malattia e di parkinsonismo genetico, con eredità di tipo Mendeliano e non. Le mutazioni nei geni SNCA (PARK1; codificante per l’𝛼-sinucleina), LRRK2 (PARK8; codificante per la dardarina) e VPS35 (codificante per la proteina associata allo smistamento vacuolare delle proteine 35) causano forme autosomico domanti di Malattia di Parkinson; mutazioni in geni quali PINK1 (PARK6, chinasi indotta da PTEN 1), DJ-1 (PARK7), Parkina (PARK2), ATP13A2 (PARK9), FBXO7 (PARK15) e PLA2G6 (PARK14) causano invece forme di Malattia di Parkinson e/o parkinsonismo autosomico recessive. Nel complesso le forme monogeniche di Malattia di Parkinson riguardano solo il 30% delle forme familiari e il 3-5% dei casi sporadici di malattia. La forma più comune di Malattia di Parkinson familiare è legata a mutazioni del gene LRRK2 sul cromosoma 12. Sono state individuate più di 100 mutazioni missense e nonsense interessanti tale locus. In generale queste sono state descritte in circa il 10% dei pazienti con forma familiare AD di Malattia di Parkinson, nel 3.6% dei pazienti con Malattia di Parkinson sporadica e nel 1.8% dei controlli sani. Il fenotipo dei portatori di mutazioni in LRRK2 è identico a quello dei soggetti con Malattia sporadica, con un’età di esordio intorno ai 60 anni, una lenta progressione clinica e una buona risposta alla terapia dopaminergica. La demenza in questo gruppo di pazienti è rara. Diversamente

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dalle mutazioni in LRRK2, le mutazioni in SNCA sono rare. Il fenotipo clinico associato alle mutazioni di tale gene consistono in un parkinsonismo Levodopa responsivo caratterizzato da un andamento progressivo con declino cognitivo, disfunzione autonomica e demenza. Duplicazioni e triplicazioni genomiche del locus SNCA causano una malattia con età di esordio precoce e una severità direttamente correlata al numero di copie del gene. La Malattia di Parkinson VPS35-linked ricorda la Malattia idiopatica con un’età media di esordio di 53 anni e caratterizzata da bradicinesia, tremore di riposo e una buona risposta alla terapia dopaminergica. Mutazioni nei geni responsabili di forme AR di Malattia di Parkinson/parkinsonismo interessano solo il 20% dei casi di Malattia di Parkinson early-onset (EOPD) e meno del 3% dei casi late-onset (LOPD). Le mutazioni nel gene della parkina sono la prima causa di parkinsonismo giovanile autosomico recessivo (ARJP) e di parkinsonismo recessivo early onset (Kitada et al. 1998). È stato dimostrato che mutazioni di tale gene interessano circa il 50% dei pazienti con Malattia di Parkinson a esordio precoce e familiarità di tipo recessivo e fino al 77% dei casi di malattia sporadica ed esordio prima dei 20 anni. Le manifestazioni chiave della malattia parkina-correlate sono un esordio di malattia prima dei 40 anni, distonie degli arti inferiori, manifestazioni di tipo psichiatrico e una marcata risposta alla terapia dopaminergica. Tuttavia questi sintomi possono rispecchiare quelli dei casi tipici di Malattia di Parkinson a esordio precoce in assenza di mutazioni della parkina. Mutazioni del gene PINK1 sono responsabili della seconda più comune causa di EOPD AR, con una prevalenza stimata del 3-7% in questo gruppo di pazienti. Il fenotipo della Malattia PINK-1 correlata rispecchia fortemente la Malattia di Parkinson idiopatica. Mutazioni di DJ-1 sono estremamente rare, essendo state identificate in meno dell’1% dei casi di EOPD, e causano un parkinsonismo Levodopa responsivo simile a quello parkina e PINK1- correlati. Cause più rare di PD ereditario sono date da mutazioni nei geni ATP13A2, PLA2G6 e FBX07 (Hernandez, Reed, and Singleton 2016). Negli ultimi anni studi di associazione Genome-Wide (GWAS) hanno individuato numerosi polimorfismi (SNP) in diversi geni associati a un’aumentata suscettibilità nei confronti della Malattia di Parkinson idiopatica. Una metanalisi di 5 GWas ha individuato undici loci associati a un incrementato rischio di

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Malattia di Parkinson. Questi includono SNP dei geni SNCA, MAPT e LRRK2 ma sono stati riportati anche i geni HLA-DRB5, BST1, GAK, ACMSD, STK39, MCCC1/MAP3, ST11 e CCDC62/HIP1R (Delamarre and Meissner 2017).

Mutazioni omozigoti del gene GBA per la glucocerebrosidasi causano la malattia di Gaucher, la più frequente malattia da accumulo lisosomiale (Delamarre and Meissner 2017). Tayebi e colleghi osservarono che una quota di pazienti con malattia di Gaucher manifestavano parkinsonismo e avanzarono per primi l’ipotesi che una deficienza del gene della GBA potesse conferire una predisposizione verso il parkinsonismo (Tayebi et al. 2003). Un anno dopo Aharon-Peretz e colleghi dimostravano che l’eredità di una singola copia mutata di GBA aumentava il rischio di Malattia di Parkinson in un gruppo di Ebrei Ashkenaziti (Aharon-Peretz et al. 2005). In seguito è stato stimato che la frequenza di mutazioni di GBA in questa popolazione di soggetti è del 15% in soggetti con Malattia di Parkinson e del 3% in controlli sani; mentre nella popolazione non Ashkenazita la frequenza è nettamente inferiore in entrambi i gruppi (Hernandez, Reed, and Singleton 2016). Nel complesso questi dati indicherebbero che una mutazione eterozigote nel gene della GBA, pur essendo incapace di causare la malattia di Gaucher, incrementa il rischio di Malattia di circa 5 volte. Le stesse mutazioni sono state associate a un incrementato rischio di demenza a corpi di Lewy e di PDD (Hernandez, Reed, and Singleton 2016).

Fattori di rischio e protettivi

Nonostante la crescente individuazione di cause genetiche di malattia, la Malattia di Parkinson rimane un disordine prevalentemente di tipo sporadico (90% dei casi) in cui fattori di tipo ambientale giocano un ruolo predominante (Ascherio and Schwarzschild 2016). Diversi studi epidemiologici e sociologici hanno dimostrato che l’esposizione a sostanze ambientali tossiche o specifiche attività quali l’agricoltura e l’allevamento incrementano il rischio di sviluppare Malattia di Parkinson o parkinsonismi. Fattori di rischio ambientali come pesticidi, erbicidi e metalli pesanti sono stati collegati ad elevate concentrazioni di alfa-sinucleina a livello encefalico; mentre l’esposizione a pesticidi è in grado di alterare la

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funzione mitocondriale bloccando l’attività del complesso I della catena di trasporto mitocondriale (Klingelhoefer and Reichmann 2015). L’osservazione che manifestazioni non motorie quali stipsi e anosmia precedono per lungo tempo l’esordio delle manifestazioni motorie della Malattia di Parkinson (Klingelhoefer and Reichmann 2015) e che l’accumulo patologico di alfa-sinucleina inizia a livello del bulbo olfattorio e del nucelo motore dorsale del vago (Braak et al. 2003), ha portato diversi Autori a ipotizzare che il tratto gastrointestinale e le vie aeree superiori possano essere una “porta di entrata” per diversi fattori ambientali tossici (Klingelhoefer and Reichmann 2015). Diversi studi hanno dimostrato una correlazione inversa tra il fumo di sigaretta e il rischio di Malattia di Parkinson. In diverse meta-analisi il fumo risultava essere protettivo nei confronti della Malattia, con OR variabili dallo 0.23 allo 0.70. Anche l’utilizzo di caffè si associa a una riduzione del rischio di Malattia di Parkinson di circa 25% con una risposta lineare di tipo dose-dipendente (Delamarre and Meissner 2017). Una possibile spiegazione dell’effetto protettivo di tali sostanze è l’influenza sulla composizione del microbioma e sull’infiammazione gastrointestinale. In effetti sono state individuate variazioni nella flora batterica gastrointestinale tra pazienti con Malattia di Parkinson e controlli sani età correlati, e in diversi pazienti in relazione al fenotipo motorio (Klingelhoefer and Reichmann 2015). In una recente “revisione ombrello” di Bellou su precedenti metanalisi su fattori di rischio e protettivi nella Malattia di Parkinson, le uniche associazioni con Classe I di evidenza erano la stipsi e l’attività fisica; mentre una significatività emergeva per trauma cerebrale, ansia, depressione e utilizzo di beta bloccanti come fattori di rischio; fumo di sigaretta e livelli di acido urico come fattori protettivi (Bellou et al. 2016). In particolare è stato dimostrato che i pazienti parkinsoniani hanno livelli plasmatici di acido urico inferiore rispetto ai controlli sani. L’acido urico si comporta come scavanger di ROS e NOS, e livelli inferiori di acido urico potrebbero riflettere un aumentato consumo a causa di un incremento dello stress ossidativo (Delamarre and Meissner 2017). Diversi studi hanno dato risultati contrastanti sul ruolo del Diabete Mellito, dei livelli di colesterolemia e dell’ipertensione nell’incremento del rischio di sviluppare la Malattia di

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Parkinson; mentre alcuni farmaci antidiabetici orali, statine e calcio antagonisti hanno mostrato un effetto protettivo (Delamarre and Meissner 2017).

Patogenesi

L’elemento neuropatologico cardine della Malattia di Parkinson è la degenerazione dei neuroni dopaminergici nigrostriatali nella regione mesencefalica Substantia Nigra pars compacta (SNpc) con conseguente deplezione di dopamina nello striato (Hwang 2013). La causa (o le cause) della degenerazione di tali gruppi cellulari non sono note, un concetto emergente è che l’omeostasi della SNpc sia vulnerabile a diversi fattori genetici, cellulari e ambientali che, agendo indipendentemente o simultaneamente, portano a morte cellulare mediante l’induzione di disfunzione mitocondriale, stress ossidativo, alterazioni nella degradazione proteica e neuroinfiammazione (Obeso et al. 2010).

Stress ossidativo

Lo stress ossidativo insorge quando si realizza uno sbilancio tra la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e l’attività antiossidante cellulare (Hwang 2013). Tale sbilancio è probabilmente alla base dell’elevato danno ossidativo di lipidi, di proteine e di DNA ritrovabile nella SNpc di soggetti Parkinsoniani (Rodriguez et al. 2015), mentre i livelli di GSH ridotto risultano diminuiti (Hwang 2013). I neuroni dopaminegici sono particolarmente proni allo stress ossidativo, avendo enzimi in grado di produrre ROS quali la tirosina idrossilasi (TH) e le monoaminoossidasi (MAO). Inoltre, i neuroni dopaminergici contengono ferro, il quale catalizza la reazione di Fenton generando specie reattive idrossiliche a partire da ioni superossido. Lo stesso neurotrasmettitore dopamina può essere fonte di stress ossidativo. L’ossidazione della DA citosolica in eccesso in dopachinone è considerato uno dei maggiori fattori contribuenti allo stress ossidativo delle cellule dopaminergiche. Il dopachinone lega in modo covalente gruppi molecolari nucleofilici, quali i gruppi sulfidrilici del GSH e i residui cisteinici di proteine le cui funzioni sono importanti nella sopravvivenza cellulare.

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In particolare, il dopachinone si è dimostrato in grado di modificare una serie di proteine le cui funzioni sono state legate alla fisiopatologia della Malattia di Parkinson, quali l’𝛼-sinucleina, la parkina, il DJ-1 e l’UCH-L1. Il dopachinone modifica in modo covalente monomeri di α-sinucleina promuovendone la conversione a forme protofibrillari citotossiche. L’α-sinucelina modificata dal DA chinone non solo è difficilmente degradata ma essa stessa risulta in grado di inibire la normale degradazione di altre proteine. A sua volta l’α-sinucleina lega e permeabilizza la membrana delle vescicole citosoliche contenenti DA, causandone una perdita all’interno del citoplasma e stimolando in questo modo la produzione di dopachinone. Allo stesso modo il dopachinone si è dimostrato in grado di inattivare il DAT e la TH e di condurre a disfunzione e rigonfiamento mitocondriale. Anche le subunità del Complesso I e del Complesso III della catena di trasporto di elettroni, la cui inattivazione altera la respirazione mitocondriale e causa la produzione di ROS, sono stati individuati come target del dopachinone. Il dopachinone inoltre può ciclizzare e diventare aminocromo, altamente reattivo, i cui cicli redox portano alla produzione di superossido e alla deplezione di NADPH, e la cui polimerizzazione alla fine genera neuromelanina. (Hwang 2013). D’altra parte meccanismi di protezione cellulare non selettivi (quali SOD e GPX) e selettivi dopaminergici (DAT e VMAT2) risultano down-regolati nella Malattia di Parkinson (Rodriguez et al. 2015). Poiché i neuroni dopaminergici sono intrinsecamente inclini alla produzione di ROS, un qualsiasi trigger in grado di incrementare lo stress ossidativo può essere nocivo per tali cellule (Hwang 2013).

Disfunzione mitocondriale

I mitocondri sono organelli cellulari in grado di svolgere un’importante serie di funzioni, tra cui la produzione di energia cellulare sotto forma di ATP e la regolazione dell’omeostasi del calcio, della risposta allo stress e dei pathway di morte cellulare (Winklhofer and Haass 2010). Nel processo di fosforilazione ossidativa gli elementi della catena di trasporto mitocondriale, specie il Complesso I e il Complesso III, producono normalmente specie reattive quali

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anione superossido e perossido di idrogeno (Winklhofer and Haass 2010). Mentre in condizioni normali le specie ossidanti vengono rapidamente neutralizzate dai sistemi antiossidanti cellulari, una disfunzione mitocondriale può condurre a un incremento della produzione di ROS tale da superare i meccanismi protettivi cellulari (Hwang 2013). Vi è evidenza di una alterazione del complesso mitocondriale I a livello del cervello, dei tessuti periferici e delle piastrine di soggetti con Malattia di Parkinson (Rodriguez et al. 2015); mutazioni in geni di proteine mitocondriali quali la parkina, DJ-1 e PINK sono legate a forme familari di Malattia di Parkinson; mentre l’α-sinucleina può interagire con le membrane mitocondriali e inibire il Complesso I (Hwang 2013). Le specie reattive prodotte da mitocondri disfunzionali sono a loro volta in grado di danneggiare elementi mitocondriali quali il mtDNA, proteine e lipidi mitocondriali, perturbando diverse vie di segnale. Il mtDNA è particolarmente suscettibile a mutazioni, non avendo istoni protettivi ed essendo dotato di meccanismi di riparazione del danno meno efficaci di quelli del DNA cellulare; inoltre è stato dimostrato che i neuroni dopaminerigici della SNpc sono specificatamente vulnerabili a subire delezioni di mtDNA. Il danno ossidativo del mtDNA comprometterebbe le componenti della catena mitocondriale da questo codificate, portando a un circolo vizioso di stress ossidativo e fallimento bioenergetico (Winklhofer and Haass 2010).

Neuroinfiammazione

La perdita neuronale nella Malattia di Parkinson si associa a processi di neuroinfiammazione cronica controllati primariamente dalla microglia. La microglia si attiva in risposta a danno e insulti tossici come meccanismo difensivo in grado di rimuovere detriti cellulari e patogeni, tuttavia attivandosi rilascia radicali liberi contribuendo a incrementare lo stress ossidativo nell’ambiente e alimentando il processo neurodegenerativo. Molecole di segnale e prodotte da neuroni dopaminerici danneggiati esacerbano l’attivazione microgliale, in particolare l’alfa sinucleina, la neuromelanina e la forma attivata della MMP-3 (metalloproteinasi 3) (Hwang 2013).

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Α-sinucleina

Uno dei segni neuropatologici cardine della Malattia di Parkinson è la presenza di inclusi cellulari in diverse regioni del Sistema Nervoso. Questi si presentano sia in forma globulare nel pericario, sottoforma di corpi di Lewy (LBs), sia in forma fusiforme nei processi neuronali, come neuriti di Lewy (LNs). La principale componente di tali inclusi virtualmente insolubili è la forma aggregata della normale proteina presinaptica α-sinucleina insieme ad altre componenti quali neurofilamenti fosforilati e ubiquitina (Braak et al. 2003).

La prima volta che l’α-sinucleina è stata posta in relazione alla MP è stato nel 1977 quando Polymeropoulos et al. hanno dimostrato, in un gruppo di italiani e di greci la prima alterazione genetica associata alla MP nel gene della SNCA per l’α-sinucleina (Polymeropoulos et al. 1997). Successivamente Singleton et al. nel 2003 identificavano la presenza di triplicazioni nel locus della SNCA in alcune famiglie con MP familiare a trasmissione AD (Singleton et al. 2003), mentre in seguito in altre famiglie furono trovate duplicazioni dello stesso gene. Questo dimostrava che il disturbo scaturiva non soltanto da un prodotto genico alterato ma anche da un prodotto genico normale ma in eccesso (Stefanis 2012). Il gene SNCA codifica per una proteina di 140 AA solubile e priva di struttura in soluzione acquosa, in grado di formare strutture a α-elica quando legata a fosfolipidi di membrana e di formare strutture ricche di b-foglietti in prolungati periodi di incubazione. L’α-sinucleina è abbondantemente espressa nel SNpc, si localizza a livello presinaptico, in stretta prossimità delle vescicole sinaptiche, dove si pensa che possa avere un ruolo nella modulazione del rilascio neurotrasmettitoriale (Stefanis 2012). L’α-sinucleina forma fibrille ricche di strutture beta se mantenuta in soluzione acquosa per lungo periodo; nel processo di “aggregazione” si creano inizialmente forme oligomeriche solubili (protofibrille) che infine si fondono a formare fibrille mature. Si ritiene generalmente che siano le protofibrille a rappresentare le forme tossiche di proteina. Diversi meccanismi sono stati proposti come mediatori del danno dell’alfa-sinucleina:

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- Modifica della permeabilità delle membrane cellulari e mitocondriali, mediante la formazione di pori al loro interno;

- Alterazione della dinamica citoscheletrica e del trasporto assonale;

- Disfunzione del sistema proteasomico, del processo di autofagia chaperone-mediata (ACM) con conseguente compromissione della degradazione proteica;

- Disfunzione mitocondriale (alterazione permeabilità di membrana, frammentazione mitocondriale, aumento del processo di mitofabia e down-regolazione del Complesso I);

- Reticolo Endoplasmatico e l’Apparato del Golgi, con una prevalente azione sul traffico vescicolare;

- Alterazione del metabolismo dopaminergico mediante un azione su bersagli quali il DAT e la TH.

L’α-sinucleina non è una proteina puramente intracellulare, e può essere dosata nel plasma e nel liquor di soggetti parkinsoniani. Una caratteristica dell’α-sinucleina extracellulare è che sembra particolarmente prona ad essere captata dai neuroni contigui, dove induce l’aggregazione della proteina endogena in un meccanismo simil-prionico. Questa osservazione ha creato inizialmente molto entusiasmo, fornendo un’opportunità per spiegare la propagazione della patologia osservata nella Malattia di Parkinson, in accordo all’ipotesi di Braak (Stefanis 2012).

2.1.2. Modelli Animali tossici e transgenici

I modelli animali sono uno strumento cruciale per una la comprensione della patogenesi della Malattia di Parkinson, e dunque per l’individuazione di potenziali terapie in grado di modificare il decorso di malattia. Ad oggi sono disponibili diversi tipi di modelli tossici e transgenici di Malattia di Parkinson. Entrambi i tipi di modelli hanno i propri vantaggi e limitazioni che devono essere attentamente presi in considerazione nella scelta del modello da utilizzare (Blandini and Armentero 2012).

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Modelli animali tossici

I modelli tossici sono stati i primi modelli sperimentali di Malattia di Parkinson. Il loro ruolo è quello di riprodurre in primati e roditori i cambiamenti patologici e comportamentali della malattia umana utilizzando agenti farmacologici (neurotossine) in grado di indurre una degenerazione selettiva dei neuroni nigrostriatali. Tali neurotossine possono essere somministrate per via sistemica o locale, a seconda del tipo di agente e della specie interessate (Blandini and Armentero 2012).

Somministrazione locale

La prima neurotossina utilizzata per la creazione di modelli animali tossici è stata la 6-OHDA, un analogo idrossilato della DA che deve essere somministrato direttamente nella SNpc o nello striato, non riuscendo a passare attraverso la BBB. Il 6-OHDA ha elevata affinità per il DAT, che trasferisce la tossina all’interno della cellula (Blandini and Armentero, 2012). Il trasporto intracellulare conduce all’accumulo intraneuronale di composti citotossici, quali il perossido di idrogeno e il 6-idrossi-dopachinone (Zigmond, Abercrombie et al. 1990), oltre all’accumulo intra-mitocondriale, dove è in grado di inibire il Complesso I della catena mitocondriale (Blandini and Armentero, 2012). Somministrando la neurotossina a livello della SNpc, i neuroni iniziano a morire entro le prime 12 ore dall’iniezione, mentre in 2-3 giorni si realizzano marcate lesioni dei terminali striatali e una marcata deplezione di DA. Tale procedura garantisce il più elevato livello di perdita nigrale e di deplezione di DA ottenibile mediante modelli animali tossici (90-100%). L’iniezione è generalmente eseguita unilateralmente, permettendo all’emisfero controlaterale di funzionare come controllo, dal momento che l’iniezione bilaterale si associa a elevati tassi di mortalità (Blandini and Armentero, 2012). Intorno alla metà degli anni ’90 è stata sviluppata una variante ella procedura originale, in cui iniettando la neurotossina a livello striatale si realizza rapidamente un danno a livello dei terminali e una progressiva

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e lenta perdita di neuroni della SNpc, secondariamente interessati per un meccanismo di tipo “morte retrograda”. Il danno ottenibile con questa procedura è meno marcato rispetto all’iniezione mesencefalica, lasciando intatta intorno al 50-70% della componente nucleare, e si sviluppa lentamente nel giro di 4-6 settimane. Tale procedura alternativa, dunque, fornisce un modello di degenerazione nigrostriatale progressiva più simile a quella che si realizza nel corso della Malattia di Parkinson umana. Le lesioni ottenibili con la 6-OHDA sono altamente riproducibili, e questo conferisce un importante valore aggiunto nella ricerca di nuove strategie terapeutiche e nella dimostrazione di eventuali effetti neuroprotettivi (Blandini and Armentero, 2012). La somministrazione di questo farmaco nei ratti produce lesioni permanenti e selettive nella proiezione dopaminergica striatale, inducendo alterazioni neurologiche che ricordano diversi sintomi della PD. I ratti diventano acinetici, smettono di mangiare o di bere, e mostrano gravi lesioni sensoriali. A differenza dei soggetti con Malattia di Parkinson, invece, i modelli non mostrano rigidità o tremore. I deficit indotti possono essere parzialmente invertiti mediante la somministrazione di agonisti dopaminergici o di stimoli intensi (cibi particolarmente gradevoli o nuoto forzato) (Zigmond et al. 1990).

Somministrazione sistemica

Un classico modello tossico si ottiene mediante la somministrazione sistemica di 1-Metil-4-fenil-1,2,3,6-tetraidropiridina (MPTP). La selettiva tossicità dell’MPTP nei confronti dei neuroni dopaminergici venne per prima riconosciuta intorno alla metà degli anni 80 da Langston e colleghi. Langston descrisse l’insorgenza di un grave parkinsonismo in un quattro giovani che avevano abusato di un analogo della meperidina (MPPP) contentente MPTP, all’epoca venduta in una regione del Nord della California come nuova “eroina di sintesi”. Tutti i pazienti divennero gravemente sintomatici dopo una settimana dell’utilizzo endovenoso della nuova droga, con un progressivo sviluppo di rallentamento motorio sino a un quadro di quasi immobilità quasi completa (Langston et al. 1983). l’MPTP, una volta superata la BBB, è trasformata dalla MAO-B nel suo metabolita attivo, lo ione

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1-metil-4-fenilpiridinio (MPP+), il quale è trasportato dal DAT nei terminali dopaminergici della SNpc dove blocca l’azione del Complesso mitocondriale I. Fu proprio questa scoperta a mettere in luce il ruolo della funzione mitocondriale nella Malattia di Parkinson, oltre ad aver fornito un formidabile modello di Malattia. La somministrazione ripetuta di MPTP a livello intracarotideo, bilateralmente, causa nei primati una sindrome parkinsoniana L-DOPA responsiva. Questa, essendo caratterizzata da tutti i sintomi cardine della Malattia di Parkinson, rappresenta la migliore rappresentazione clinica di Malattia umana ottenibile mediante animali da esperimento. La neurotossina può inoltre essere somministrata ai roditori. Nei topi l’MPTP è generalmente somministrata per via intraperitoneale mediante boli ripetuti in un piccolo intervallo di tempo (ad esempio 4 dosi di MPTP ogni 2 ore nell’arco di una giornata). Negli anni 60 l’MPP+ è stato testato come pesticida ed erbicida con il nome di cyperquat. La somiglianza strutturale tra questa neurotossina e alcuni pesticidi insieme ad analisi epidemiologiche hanno suggerito l’ipotesi che l’esposizione cronica di pesticidi possa incrementare il rischio di sviluppare Malattia di Parkinson. Quest’osservazione ha portato alla creazione di nuovi modelli di Malattia. Betarbet et al. descrivevano nel 2000 un nuovo modello animale basato sulla somministrazione intravenosa cronica di rotenone nel ratto. Il rotenone è un flavonoide, reperibile all’interno di radici e semi di diverse piante e utilizzato come pesticida ad ampio spettro. Essendo altamente lipofilico il rotenone passa facilmente attraverso la BBB e, differentemente dal MPP+, non necessita del DAT per entrare nei neuroni dopaminergici. A questo livello, il rotenone blocca l’attivazione del Complesso I, inducendo una massiva produzione di specie reattive e inibendo l’attività proteasomica. Nei ratti il rotenone è in grado di causare una degenerazione selettiva dei neuroni nigrostriatali e, rispetto agli altri modelli tossici, è stato per primo in grado di indurre la formazione di inclusi cellulari simili a LBs contenenti α-sinucleina e ubiquitina. Le modificazioni indotte dal rotenone comprendono lo sviluppo di ipocinesia, alterazione della postura e severa rigidità, tuttavia le risposte alla neurotossina sono altamente variabili, rendendo il rotenone inadeguato se è necessario investigare il ruolo di potenziali agenti neuroprotettivi. L’altra limitazione dell’utilizzo di tale pesticida

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è l’elevata mortalità che ne consegue, legata alla tossicità su bersagli diversi della SNpc quali il cuore, il fegato, il rene e il tratto gastrointestinale. Infine il rotenone potrebbe causare un processo degenerativo anche in popolazioni neuronali diverse da quelle dopaminergiche nigrali, conducendo a un pattern di patologia più vicino a quello dei parkinsonismi atipici piuttosto che a quello della Malattia di Parkinson. Un altro modello sistemico di Malattia è dato dalla somministrazione di paraquat. Questo è un erbicida con caratteristiche strutturali simili a quelle del MPP+, anche se i meccanismi di azione sono piuttosto differenti. Essendo una molecola carica positivamente, il paraquat non è in grado di passare la BBB ma necessita di specifici trasportatori quali il sistema carrier di tipo L (LAT-1). Un sistema di trasporto sodio-dipendente, invece, trasporterebbe il paraquat nei neuroni indipendentemente dal DAT. A livello citosolico, il paraquat genera importante stress ossidativo generando anione superossido e consumando il glutatione ridotto. Diversamente dai casi sopra discussi, il paraquat non sembra agire primariamente sul Complesso I mitocondriale, avendo affinità per questo solo a elevati dosaggi. Recentemente è stata individuata un’azione pro-apoptotica da parte del pesticida, mediante un’induzione di proteine Bax e Bak e conseguente rilascio di citocromo C dal mitocondrio e attivazione della caspasi-9. Il paraquat è, diversamente dal rotenone, altamente selettivo per i neuroni dopaminergici striatali, dove tuttavia induce una degenerazione moderata (20-30%) e rilevabile solo in seguito a multiple somministrazioni. I topi trattati con paraquat hanno una riduzione dell’attività motoria e una perdita di fibre dopaminergiche a livello striatale di tipo dose-dipendente; in questi animali, inoltre, è rilevabile un’aumentata espressione e aggregazione dell’α-sinucleina nella SNpc (Blandini and Armentero, 2012) e una selettiva attivazione microgliale e astrocitaria a livello della SNpc (McCormack et al. 2002). Nel complesso con i modelli tossici si ottiene una degenerazione nigrostriatale sostanziale, con una buona riproduzione delle manifestazioni motorie del PD (in particolare nelle scimmie trattate con MPTP), senza però ottenere, eccetto che nel caso del rotenone, formazioni assimilabili ai LBs. Laddove il fine di modelli animali sia testare un putativo trattamento neuroprotettivo, bisognerà utilizzare un modello in grado di indurre una lesione nigrostriatale altamente riproducibile, cioè un modello tossico

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(Blandini and Armentero 2012). Modelli animali transgenici

La scoperta delle forme genetiche di Malattia di Parkinson ha in seguito portato allo sviluppo di nuovi modelli animali, in particolare topi, in grado di riprodurre mutazioni Parkinson-relate. Sono stati sviluppati modelli murini transgenici per la SNCA, LRRK2, PINK1, parkina e DJ-1 e inseguito linee murine con multiple mutazioni. Il MitoPark è un modello murino sviluppato per lo studio del ruolo della funzione mitocondriale nella Malattia di Parkinson. Recentemente sono stati utilizzati per modelli transgenici anche i ratti, con un vantaggio rispetto al topo per due ordini di ragioni: (1) rispetto ai topi hanno una circuteria neuronale più simile a quella umana e (2) risultano più facilmente studiabili dal punto di vista del comportamento. Modelli alternativi sono stati poi sviluppati anche in animali non mammiferi quali Drosophila, Caernorhabditis elegans e Danio rerio, con il principale vantaggio di avere un costo nettamente inferiore. I modelli transgenici offrono una vasta panoramica su particolari aspetti molecolari della patogenesi del PD, in particolare delle forme familiari, e permettono di studiare i LBs e sarebbero da preferire laddove si voglia studiare il ruolo di specifiche proteine e pathway molecolari (Blandini and Armentero, 2012).

2.1.3 Manifestazioni cliniche

La Malattia di Parkinson è un disordine neurologico progressivo caratterizzato da un’ampia gamma di manifestazioni cliniche di tipo motorio e non. Tremore di riposo, bradicinesia, rigidità e instabilità posturale sono considerati i segni cardine della Malattia di Parkinson, altre manifestazioni includono sintomi motori secondari (ipomimia, disartria, disfagia, scialorrea, micrografia, festinazione, freezing, distonia, riflesso glabellare positivo) e sintomi non motori (disfunzione autonimica, disturbi cognitivo-comportamentali, disturbi del sonno e anomalie sensitive quali anosmia, parestesie e dolore). Diverse scale cliniche sono utilizzate per valutare l’impegno motorio e la disabilità nei soggetti con Malattia di

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Parkinson, tra queste:

• La scala di Hoehn and Yahr (H&Y): utilizzata per fornire una grossolana valutazione della progressione di malattia, da 0 (assenza di segni di malattia) a 5 (paziente costretto a letto o in sedia a rotelle);

• La Unified Parkinson’s Disease Rating scale (UPDRS): la scala meglio validata nella valutazione della disabilità e dell’impegno clinico.

Altre scale sono utilizzate per valutare manifestazioni psichiatriche (ad esempio la depressione) e la qualità di vita (Jankovic 2008).

Manifestazioni motorie

Bradicinesia

La bradicinesia, dal Greco bradi <<lento>> e kinesis <<movimento>>, significa rallentamento del movimento. La bradicinesia è un segno chiave dei disordini dei nuclei della base e si accompagna a difficoltà nella pianificazione, nell’inizio e nell’esecuzione di movimenti e di compiti sequenziali e simultanei. La manifestazione iniziale di bradicinesia è solitamente un rallentamento nell’esecuzione delle normali attività di vita quotidiana, specie in quelle che richiedono un fine controllo motorio (ad esempio abbottonarsi o utilizzare utensili). Altre manifestazioni della bradicinesia consistono nella perdita di movimenti spontanei e della gesticolazione, nella scialorrea a causa di un impegno della degutizione, nella disartria monotonica e ipofonica, nella perdita di espressione facciale (ipomimia), nella diminuzione dell’ammiccamento e nella riduzione del pendolarismo degli arti durante la deambulazione. Per la valutazione della bradicinesia di solito si chiede al paziente di eseguire movimenti rapidi, ripetitivi e alternanti dell’arto superiore (movimenti ripetuti delle dita – “finger tapping”, movimenti ripetuti e di prono-supinazione della mano) e inferiore (movimenti ripetuti del piede – “foot tapping”), osservando la lentezza, la diminuzione dell’ampiezza del movimento, l’irregolarità del ritmo e l’arresto del movimento (Jankovic 2008). La tachicinesia è invece un movimento più rapido e piccolo del normale. Chiedendo al paziente di incrementare l’ampiezza del

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movimento, è possibile rendere evidente la bradicinesia (Hobson 2003). In comune con altri sintomi parkinsoniani, la bradicinesia dipende dallo stato emotivo del paziente. Ad esempio, pazienti immobili possono diventare improvvisamente capaci di far movimenti rapidi come prendere una palla al balzo se stimolati. Questo fenomeno, detto “kinesia paradoxica”, suggerisce che i pazienti con Malattia di Parkinson abbiano intatta la capacità della programmazione del movimento e nel contempo una difficoltà nell’accesso a questa in assenza di stimoli esterni (ad esempio un forte rumore, una musica marciante o un aiuto visivo quale un ostacolo da superare nella marcia). Anche se la fisiopatologia della bradicinesia non è stata pienamente definita, sembra che sia il segno cardine di Malattia meglio correlato alla carenza di dopamina a livello striatale. Dal punto di vista anatomico, il deficit sembra essere localizzato nel putamen e nel globus pallidus, esitando in una riduzione della forza prodotta nel movimento e dell’inizio del movimento stesso. Analisi elettromiografiche hanno dimostrato che i pazienti con bradicinesia non sono in grado di sviluppare sufficiente forza muscolare tale da iniziare e mantenere movimenti ampi e veloci (Jankovic 2008).

Tremore

Il tremore è la manifestazione di Malattia di Parkinson più comune e facilmente riconoscibile. Il tremore è tipicamente di riposo, scompare durante l’azione e durante il sonno. Il tremore della mano è solitamente descritto come un tremore in prono-supinazione (“pill-rolling”) caratterizzato da una contrazione alternante di muscoli agonisti e antagonisti con una frequenza tra 4 e 6 Hz. Solitamente all’esordio il tremore è asimmetrico e unilaterale, può inizialmente interessare soltanto le dita, o anche soltanto il pollice; con il tempo il tremore tende a peggiorare nel lato dove è esordito prima di diffondersi (solitamente nel corso di anni) nella parte controlaterale (Hobson 2003). Il tremore parkinsoniano può inoltre interessare la bocca, il mento, la mandibola e gli arti inferiori mentre, a differenza del Tremore Essenziale, raramente interessa il testa/collo o la voce. Alcuni pazienti riferiscono inoltre una sensazione “tremore interno” che non si

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associa a manifestazioni visibili dall’eterno. Il tremore parkinsoniano differisce da quello del Tremore Essenziale per una serie di caratteristiche; quest’ultimo di solito si manifesta come un tremore d’azione in flesso-estensione, di 4-12 Hz, caratterizzato da una co-contrazione di muscoli agonisti e antagonisti (Hobson 2003). Alcuni pazienti con Malattia di Parkinson hanno una storia di tremore posturale, fenomenologicamente identico a quello del TE, di anni o decadi prima della comparsa del tremore parkinsoniano o di altre manifestazioni Parkinson-relate e vi è una crescente linea di evidenza che il TE sia un fattore di rischio per la Malattia di Parkinson. In aggiunta al tremore di riposo, molti pazienti con Malattia di Parkinson manifestano anche tremore di tipo posturale, il quale può essere più evidente e debilitante del tremore di riposo e talora essere la prima manifestazione di Malattia. Il tremore posturale parkinsoniano è tipicamente un tremore “riemergente” che si differenzia da quello del TE per il ritardo di comparsa in seguito all’assunzione della posizione di Mingazzini agli arti superiori. Poiché il tremore riemergente insorge con la stessa frequenza del classico tremore di riposo ed è responsivo alla terapia dopaminergica, è probabile che rappresenti una variante del classico tremore di riposo. Diversi indizi suggeriscono la coesistenza di un TE in un paziente con MP, quali una lunga storia di tremore di azione, una storia familiare positiva per tremore, la presenza di tremore del capo e della voce, l’assenza di latenza nella comparsa di tremore quando viene assunta la posizione di Mingazzini agli arti superiori, il tremore della scrittura e il miglioramento della sintomatologia mediante assunzione di alcol o beta-bloccanti (Jankovic 2008).

Rigidità

La rigidità costituisce un incremento della resistenza offerta a una serie di movimenti passivi (flessione, estensione o rotazione di segmenti attorno a un’articolazione), solitamente accompagnata dal fenomeno della “troclea” o “ruota dentata”. La rigidità può manifestarsi a livello prossimale (a livello del collo, delle spalle e delle anche) o a livello distale (polsi e caviglie). Manovre di sensibilizzazione, note come manovre di Froment’s (ad esempio movimenti

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volontari dell’arto controlaterale), incrementano la rigidità e sono particolarmente utili nell’esaminazione di casi più lievi di rigidità. La rigidità può associarsi al dolore, e il dolore alla spalla è una delle principali manifestazioni di esordio della Malattia di Parkinson, frequentemente misdiagnosticata come artrite, borsite o lesione della cuffia dei rotatori (Jankovic 2008).

Disturbi posturali

La rigidità del collo e del tronco (rigidità assiale) possono esitare nell’assunzione di posture anormali (quali anterocollo, laterocollo o scoliosi). Deformità posturali esitanti in flessione del collo e del tronco, flessione dei gomiti e delle caviglie si associano frequentemente alla rigidità. La flessione della postura compare tardivamente nel decorso di Malattia. Alcuni pazienti, e soprattutto i più giovani, possono manifestare le cosiddette deformità “striatali” degli arti (“mano striatale” e “piede striatale”). La mano striatale è caratterizzata da deviazione ulnare della mano, flessione delle articolazioni metacarpofalangee, estensione delle articolazioni interfalangee prossimali e flessione di quelle distali; il piede striatale invece si manifesta con estensione o flessione delle dita dei piedi. Altre anomalie scheletriche includono un’estrema flessione del collo, detta “sindrome della testa cadente”, la flessione del tronco (camptocormia) e la scoliosi. La camptocormia è caratterizzata da un atteggiamento in flessione della colonna toraco-lombare. La condizione è esacerbata dal cammino e può essere rilevata nell’atto di far sedere il paziente, facendolo stendere in posizione supina o facendo estendere volontariamente il tronco. Altre cause di camptocormia includono la distonia e la miopatia degli estensori del tronco. Un’altra deformità del tronco è la “sindrome di Pisa”, caratterizzata da una deviazione laterale del tronco, particolarmente evidente durante il mantenimento della posizione seduta e della stazione eretta (Jankovic 2008). L’instabilità posturale, dovuta alla perdita dei riflessi posturali, è una manifestazione solitamente tardiva di Malattia di Parkinson. Il “pull test”, nel quale il paziente viene afferrato per le spalle e spinto rapidamente in dietro o in avanti, è una manovra clinica che viene utilizzata per valutare la stabilità posturale e il grado di retropulsione o anteropulsione. Un’instabilità si rileva laddove il

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paziente faccia, nel tentativo di mantenere la posizione eretta, più di due passi all’indietro o laddove vi sia l’assenza di una qualsiasi risposta posturale. L’instabilità posturale, insieme al freezing della marcia, è una delle cause più frequenti di caduta nel paziente parkinsoniano e contribuisce in modo significativo al rischio di subire traumi e fratture. La lunga latenza dall’esordio delle manifestazioni cliniche di Malattia all’insorgenza dell’instabilità posturale differenzia la Malattia di Parkinson da altri disordini neurodegenerativi quali la Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP) e l’Atrofia Multisistemica (MSA), in cui il tempo medio intercorrente dall’esordio della sintomatologia clinica alla prima caduta è solitamente inferiore. Diversi altri fattori influenzano l’insorgenza di instabilità posturale nel paziente con Malattia di Parkinson. Questi includono altri sintomi parkinsoniani, quali l’ipotensione ortostatica, cambi della sfera sensitiva età-indotti e dell’abilità di integrare insieme stimoli di natura visivi, vestibolari e propriocettivi (kinesesia). La terapia dopaminergica, la pallidotomia e la DBS possono migliorare alcuni dei segni assiali, ma solitamente non agiscono in maniera rilevante sull’instabilità posturale (Jankovic 2008).

Freezing

Il freezing, o blocco motorio, è una forma di perdita di movimento (acinesia) ed è una delle manifestazioni più fortemente debilitanti della Malattia di Parkinson, accompagnandosi a importanti limitazioni di tipo sociale e clinico e a un aumento del rischio di cadute. Il freezing nteressa più frequentemente gli arti inferiori durante la marcia (“freezing della marcia”), ma può interessare anche gli arti superiori o le palpebre. Esso si manifesta generalmente come un’improvvisa e transitoria impossibilità di eseguire il movimento e comprende un’esitazione nell’inizio della marcia (“start hesitation”), o un’improvvisa impossibilità nel muovere il piede in specifiche situazioni (camminare attraverso uno spazio ristretto, girarsi, attraversare strade affollate, avvicinarsi a destinazione). Fattori di rischio per lo sviluppo del freezing comprendono la presenza di rigidità, di bradicinesia, di instabilità posturale e una lunga durata di malattia. Al contrario, la presenza di tremore all’esordio clinico di Malattia si associa a una riduzione del

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rischio di manifestare freezing. Poiché essa è una manifestazione tardiva e neppure una delle manifestazioni principali di Malattia, una sua precoce comparsa deve suggerire la possibilità di diagnosi alternative. Gli episodi di freezing si fanno più severi nelle fasi di OFF, tuttavia tendono a rispondere poco alla terapia dopaminergica. Esistono dei trucchi per poter superare gli attacchi di freezing quali la marcia a comando, il superamento di ostacoli durante il cammino (utilizzando il bastone o le linee del pavimento), la marcia cantata o lo spostamento del baricentro corporeo (Jankovic 2008).

Altre manifestazioni motorie

I pazienti con Malattia di Parkinson possono sperimentare una serie di altri disturbi motori in grado di impattare sul normale svolgimento delle attività quotidiane. Alcuni pazienti possono manifestare la riemergenza di riflessi primitivi, quali il riflesso glabellare o il palmo-mentioniero, in seguito a un crollo dei meccanismi inibitori di tipo frontale. In particolare il riflesso palmo-mentoniero compare meno frequentemente del riflesso glabellare ma è più specifico di quest’ultimo. I riflessi primitivi sono caratteristici di tutte e tre le sindromi parkinsoniane principali (MP, PSP e MSA); allo stesso modo il “segno dell’applauso”, in passato ritenuto specifico della PSP, si può frequentemente ritrovare anche in altri disordini parkinsoniani, specie nella degenerazione corticobasale (DCB). In alcuni casi durante l’esecuzione di un movimento in una parte del corpo possono presentarsi i cosiddetti “movimenti specchio”, movimenti non intenzionali nella parte controlaterale. Manifestazioni bulbari quali la disartria, l’ipofonia, la disfagia e la scialorrea, frequentemente osservabili in pazienti con Malattia di Parkinson, possono essere ugualmente o anche più debilitanti delle manifestazioni cardine di Malattia. I disordini della parola nel paziente parkinsoniano sono caratterizzati da un eloquio monotono, debole e sussurato, con una occasionale e variabile difficoltà nel trovare le parole, fenomeno detto della “punta della lingua”. La logopedia può migliorare i sintomi della disartria. La disfagia di solito è causata da un’incapacità di iniziare il movimento della deglutizione; essa è generalmente subclinica, specie nelle fasi

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iniziali di Malattia, ma può esitare in scialorrea. Diverse manifestazioni neuro-oftalmologiche si accompagnano alla Malattia di Parkinson, quali una riduzione della frequenza di ammiccamento, l’irritazione congiuntivale, l’alterazione del film lacrimale, allucinazioni visive, blefarospasmo e diminuita convergenza. Il grado di anormalità nei movimenti oculari di inseguimento e nelle saccadi e antisaccadi dipende dal grado di progressione di Malattia. In genere la terapia dopaminergica è in grado di migliorare queste anomalie. Altri disordini neuro-oftalmologici associati alla Malattia di Parkinson comprendono: aprassia dell’apertura degli occhi, limitazione dello sguardo sul piano verticale e crisi oculogire. I pazienti con Malattia di Parkinson possono, inoltre, manifestare disturbi respiratori di tipo restrittivo o ostruttivo. Tali complicazioni si associano a importante mortalità, e la polmonite è un elemento predittivo indipendente di mortalità. Quadri di tipo ostruttivo possono associarsi alla rigidità, all’artrosi o alla ridotta motilità del collo; quadri di tipo restrittivo, invece, possono dipendere da una rigidità del tronco. La respirazione, inoltre, può essere compromessa da discinesie respiratorie Levodopa indotte in pazienti in terapia dopaminergica (Jankovic 2008).

Sintomi non motori

I sintomi non motori sono manifestazioni comuni e spesso sottostimate di Malattia di Parkinson. Essi comprendono: disfunzione autonomica, disordini cognitivi/neurocomportamentali, anormalità sensitive e del sonno (Jankovic 2008).

Disfunzione autonomica

L’insufficienza autonomica può essere una delle manifestazioni della Malattia di Parkinson, anche se tende ad associarsi più frequentemente alla MSA.

Essa si presenta con ipotensione ortostatica, alterazione della sudorazione, disfunzione sfinteriale e disfunzione erettile (Jankovic 2008).

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Disturbi cognitivi e comportamentali

È stato rilevato che oltre l’80% dei pazienti con Malattia di Parkinson sviluppano un declino cognitivo, e oltre il 40% sviluppano demenza. La demenza associata alla Malattia di Parkinson, inoltre, si associa a una serie di altre comorbilità neuropsichiatriche - tra queste depressione, apatia, ansia e allucinazioni. Oltre a manifestazioni cognitive e disordini dell’umore, i pazienti con PD possono manifestare comportamenti di tipo ossessivo-compulsivo e sindrome da discontrollo degli impulsi, quali ricerca patologica (“craving”) per i dolci, alimentazione incontrollata (“binge eating”), accumulo compulsivo, ipersessualità, gambling patologico, shopping compulsivo e “punding”, quest’ultimo caratterizzato da una forte attrazione per lo svolgimento di compiti ripetitivi e meccanici quali ordinare e catalogare oggetti. Tali manifestazioni comportamentali, talora riferite come “disregolazioene omeostatica edonistica”, sono stati attribuiti a una sindrome da disregolazione dopaminergica associata all’utilizzo di farmaci dopaminergici, in particolare dopamino agonisti, ma i meccanismi alla base di tali comportamenti aberranti non sono completamente noti (Jankovic 2008).

Disturbi del sonno

Mentre in passato disordini del sonno quali eccessiva sonnolenza diurna o attacchi di sonno sono stati largamente attribuiti alla terapia farmacologica della Malattia di Parkinson, ad oggi alcuni Autori ritengono che questi possano essere parte integrante della Malattia. Il disturbo comportamentale del sonno REM (Rapid eye movement sleep Behavior Disorder -RBD) è un disturbo motorio e comportamentale che caratterizza circa 1/3 dei pazienti con Malattia di Parkinson, e ne costituisce un fattore di rischio. L’RBD è caratterizzato da sogni violenti e vividi accompagnati da sonniloquio, urla, imprecazioni, pugni, calci, salti e altre attività motorie violente e potenzialmente dannose verso il paziente e verso il partner. Un’altra anormalità del sonno è l’insonnia, e in particolare la frammentazione del sonno notturno, con una prevalenza di oltre il 50% nei

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pazienti parkinsoniani (Jankovic 2008).

Disturbi sensitivi

Sintomi sensitivi quali iposmia, dolore, parestesie, acatisia, dolore orale e genitale sono frequenti ma spesso non riconosciuti come manifestazioni parkinsoniane. L’iposmia può essere considerato un marker precoce di Malattia di Parkinson e si associa a un rischio del 10% di sviluppare Malattia nei due anni successivi alla sua comparsa (Jankovic 2008).

2.1.4 Diagnosi clinica

Una diagnosi certa di Malattia di Parkinson richiede il riscontro istopatologico di specifiche alterazioni a livello encefalico:

• Deplezione neuronale e gliosi della SNpc; • Presenza dei corpi di Lewy;

• Assenza di segni degenerativi in altre strutture.

Ad oggi non esiste un marker o test definitivo e standardizzato di diagnosi, e nella pratica clinica la Malattia di Parkinson è diagnosticata sulla base dell’osservazione e della progressione di segni e sintomi di Malattia.

Diversi criteri diagnostici sono stati sviluppati per fornire un ausilio nel processo di diagnosi della Malattia, tra questi i più utilizzati sono quelli della Parkinson’s Disease Society Brain Bank del 1988, la cui accuratezza raggiunge il 90% (Hughes, Daniel, and Lees 2001), e i criteri di Gelb et al. del 1999.

Criteri della UK Parkinson’s Disease Society Brain Bank per la diagnosi di Malattia di Parkinson, 1988:

• Bradicinesia e almeno uno dei seguenti: - Rigidità

- Tremore di riposo (4-6 Hz)

- Instabilità posturale non causata da una primitiva disfunzione visiva, vestibolare, cerebellare o propriocettiva

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• Esclusione di altre cause di parkinsonismo

• Almeno tre delle seguenti manifestazioni di supporto - Esordio unilaterale

- Asimmetria persistente

- Tremore di riposo (capo, arto inferiore o mento; bassa frequenza [4-5 Hz], asimmetrico, scompare con l’azione)

- Eccellente risposta alla Levodopa (70-100%) - Disordine progressivo

- Discinesie indotte da Levodopa (Levodopa-induced dyskinesias – LID)

- Risposta alla Levodopa per cinque o più anni - Decorso clinico di dieci o più anni

Criteri di Gelb per la diagnosi di Malattia di Parkinson (Gelb, Oliver, and Gilman 1999)

Manifestazioni del Gruppo A (caratteristiche di Malattia di Parkinson): • Tremore di riposo

• Bradicinesia • Rigidità

• Esordio asimmetrico

Manifestazioni del Gruppo B (suggestive di diagnosi alternative): • Precoce comparsa di manifestazioni insolite

• Prominente instabilità posturale nei primi tre anni dall’esordio clinico • Freezing nei primi tre anni

• Allucinazioni non legate alla terapia nei primi tre anni

• Demenza precedente il disturbo motorio o nel primo anno di malattia • Paralisi sopranucleare dello sguardo o rallentamento delle saccadi

verticali

• Severa e sintomatica disautonomia non legata alla terapia

• Documentazione di una condiziona nota in grado di produrre parkinsonismo e plausibilmente connessa ai sintomi del paziente (ad esempio lesioni focali encefaliche o utilizzo di neurolettici nei

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precedenti 6 mesi)

Criteri per Malattia di Parkinson definita:

• Tutti i criteri di Malattia di Parkinson probabile e • Conferma istopatologica della diagnosi all’autopsia Criteri per Malattia di Parkinson probabile:

• Sono presenti almeno tre delle manifestazioni del gruppo A e

• Non è presente nessuna delle manifestazioni del gruppo B (nota: per poter soddisfare questa richiesta è necessario che i sintomi durino da almeno tre anni) e

• Documentazione di una sostanziale e sostenuta risposta alla terapia con Levodopa o dopamino agonisti

Criteri per Malattia di Parkinson possibile

• Sono presenti almeno due delle manifestazioni del gruppo A; almeno una di queste è tremore o bradicinesia e

• Nessuna delle manifestazioni del gruppo B è presente oppure i sintomi sono presenti da meno di tre anni e nessuna delle manifestazioni del gruppo B è presente e

• Non è stata documentata una sostenuta e sostanziale risposta alla Levodopa o a dopamino agonisti oppure il paziente non ha fatto un tentativo terapeutico con Levodopa o con dopamino agonista

2.1.5. Diagnosi differenziale

La diagnosi differenziale della Malattia di Parkinson è ampia si pone soprattutto nei confronti di: TE, tremore distonico, parkinsonismi atipici e secondari. I disordini parkinsoniani possono essere classificati in quattro categorie: parkinsonismo primitivo (idiopatico), parkinsonismi secondari (acquisiti, sintomatici), parkinsonismi genetici e parkinsonismi atipici (o parkinsonismi plus). Differenziare la Malattia di Parkinson da altri parkinsonismi può essere una sfida, specie nelle fasi iniziali di malattia, quando esiste una maggiore sovrapposizione tra segni e sintomi delle varie sindromi parkinsoniane. Manifestazioni cliniche quali le caratteristiche del tremore, un precoce disturbo

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della deambulazione (ad esempio freezing), l’instabilità posturale, la presenza di segni di tipo piramidale e il tipo di risposta alla Levodopa possono aiutare nella diagnosi differenziale. I parkinsonismi atipici tendono ad avere una scarsa risposta alla terapia dopaminergica, tuttavia spesso i pazienti con MSA presentano inizialmente un’eccellente risposta alla terapia per poi sviluppare rapidamente discinesie orofacciali ed esaurimento dell’efficacia terapeutica. Dunque, nonostante il miglioramento della sintomatologia in seguito ad assunzione di Levodopa sia un fenomeno suggestivo di Malattia di Parkinson, questo non può essere utilizzato come criterio per differenziare in modo definitivo il PD da altri disordini parkinsoniani. Tecniche di diagnostica per immagini possono essere utili nella diagnosi differenziale tra PD e TE e tra PD e altri disordini parkinsoniani, tra questi studi di Risonanza Magnetica, di sonografia transcranica, studi PET con 18F-fluorodopa e SPECT per i siti striatali di reuptake della DA. Le cause più comuni di misdiagnosi sono date dal TE, dalla Malattia di Alzheimer e dal parkinsonismo vascolare (Jankovic 2008).

2.1.6. Indagini strumentali e Diagnostica per immagini

Imaging strutturale

Risonanza Magnetica (RM)

Substantia Nigra

Nella Malattia di Parkinson idiopatica le immagini di RM convenzionale T1 e T2-pesate mostrano una normale struttura nigrale e non servono dunque per la diagnosi di malattia. Tuttavia sequenze di RM standard permettono di rilevare condizioni potenzialmente in grado di sottendere un parkinsonismo secondario: lesioni strutturali quali neoplasie dei nuclei della base, granulomi e calcificazioni; patologie di natura vascolare; alterazioni del segnale a livello dei nuclei della base legate a Malattia di Wilson o avvelenamento da Manganese; idrocefalo normoteso. La RM gioca un ruolo rilevante nella discriminazione tra sindromi

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parkinsoniane atipiche, quali l’AMS e il PSP, dalla Malattia di Parkinson (Brooks 2010).

Imaging funzionale

Imaging dopaminergico

La Malattia di Parkinson è caratterizzata da degenerazione nigrostriatale e deplezione di DA a livello dello striato (Brooks 2010). L’imaging della funzione dopaminergica differenzia soggetti con Malattia di Parkinson da controlli sani con elevata specificità e sensibilità, ed è in grado di differenziare i parkinsonismi degenerativi da condizioni che li mimano, quali TE, tremore distonico, parkinsonismi vascolari, iatrogeni e post-traumatici (Cummings et al. 2011). La funzione dei terminali dopaminergici può essere studiata in vivo in tre modi:

(1) Identificazione della disponibilità di trasporatori della DA presinaptici (DAT) mediante l’utilizzo di diversi traccianti PET e SPECT, quali: 123I-(2)-2b- carbometossi-3b-(4-iodofeil)tropano (123I-b-CIT) (Dopascan; Guilford Pharmaceuticals Inc.), 123I-N-3-fluoropropil-2b-carbometossi-3b-(4-iodofenil)tropano (123I-FP-CIT) (DaTSCAN; GE Healthcare), 123I-altropano, e 11C-2-carbometossi-3-(4-18F-fluorofenil)tropano (11C-CFT).

(2) PET con 18F-3,4-diidrossifenilalanina (18F-dopa): lega la DOPA decarbossilasi ed è un marker dell’attività della sintesi e del turnover della DA.

(3) PET con 11C- o 18F-diidrotetrabenazina, per il trasportatore vescicolare delle monoamine di tipo 2 (VMAT2); il suo uptake nello striato rappresenta la densità dei terminali nervosi ed è il meno soggetto a modifiche di tipo compensatorio (Wile, Sossi, and Stoessl 2016). E’ stato dimostrato che la 18F-diidrotetrabenazina è probabilmente il marker che meglio riflette l’entità del il danno nigrostriatale in pazienti con Malattia di Parkinson (Lee et al. 2000).

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