2.1.5 Diagnosi differenziale
2.1.7 Terapia della Malattia di Parkinson Terapia neuroprotettiva
Per neuroprotezione si intende la capacità di un dato trattamento di prevenire o rallentare la progressione di malattia. Negli ultimi venti anni sono stati fatti grandi sforzi per individuare eventuali trattamenti neuroprotettivi, ma nessun agente farmacologico ha dimostrato avere un’efficacia certa (de la Fuente-Fernandez et al. 2010). Il primo trial clinico sulla neuroprotezione risale al 1989, quando lo studio DATATOP dimostrava che la selegilina era in grado di ritardare l’utilizzo di Levodopa (endpoint principale dello studio) rispetto al placebo. Gli autori concludevano che la seleginina, ritardando l'inizio della disabilità, potesse avere un certo effetto neuroprotettivo nella Malattia di Parkinson ('DATATOP: a multicenter controlled clinical trial in early Parkinson's disease. Parkinson Study Group' 1989). In seguito, tuttavia, i risultati dello studio sono stati reinterpretati in luce del noto effetto sintomatico della selegilina. Bisogna in ogni caso riconoscere allo studio DATATOP l’importanza di aver rappresentato il vero primo tentativo di testare la neuroprotezione nella Malattia di Parkinson (de la
Fuente-Fernandez et al. 2010). Negli anni successivi sono stati condotti tre grandi studi di Neuroimaging funzionale per stimare la progressione nella Malattia di Parkinson in terapia con dopamino agonisti e Levodopa: lo studio CALM-PD-CIT (2002); lo studio REAL-PET (2003); lo studio ELLDOPA (2004). Lo studio CALM-PD-CIT ha rilevato, nei pazienti con PD iniziale, una maggiore percentuale di captazione striatale di I-123-FP-CIT a indagini SPECT nel gruppo trattato con pramipexolo rispetto a quello trattato con Levodopa. Gli autori concludevano che il pramipexolo potesse avere un effetto neuroprotettivo ('A randomized controlled trial comparing pramipexole with levodopa in early Parkinson's disease: design and methods of the CALM-PD Study. Parkinson Study Group' 2000), ma tali conclusioni sono state in seguito rivedute considerando la variabile regolazione del legame del DAT, bersaglio del marcatore I-123-FP-CIT, da parte dei diversi trattamenti dopaminergici (de la Fuente-Fernandez et al. 2010). Nell’anno successivo (2003) lo studio REAL-PET si prefiggeva di individuare un putativo effetto neuroprotettivo del ropinirolo rispetto alla Levodopa, analizzando indagini seriali di tipo PET con 18F- Fluorodopa. Dopo due anni di follow-up, il gruppo trattato con ropinirolo mostrava una riduzione di uptake del 18F-Fluorodopa striatale significativamente minore rispetto al gruppo trattato con Levodopa (13.4% vs. 20.3%; P = 0.022). Gli autori dunque conclusero che il ropinirolo si associasse a un rallentamento della progressione di malattia (Whone et al. 2003). Tuttavia, anche in questo caso, i risultati sono stati rivisti in luce della variabile regolazione dell’uptake di 18F- fluorodopa in funzione di differenze farmaco-mediate (de la Fuente-Fernandez et al. 2010). Lo studio ELLDOPA (2005), infine, è stato un grosso studio clinico multicentrico sviluppato per determinare se la Levodopa potesse avere effetto sulla progressione della Malattia di Parkinson. 3060 pazienti con Malattia di Parkinson de novo vennero assegnati in modo randomizzato a quattro gruppi di trattamento: carbidopa/levodopa 50/12.5 mg; carbidopa/levodopa 100/25 mg; carbidopa/levodopa 200/50 mg; placebo. Il trattamento veniva mantenuto fino a 40 settimane per poi essere sospeso, e dopo 2 settimane di wash-out veniva valutata la variazione rispetto al tempo 0 della severità clinica di Malattia (UPDRS) e della degenerazione nigrostriatale (SPECT con I-123-FP-CIT). Lo
studio rilevò che dopo due settimane di sospensione il gruppo trattato con Levodopa, specie con dosaggi più alti, aveva punteggi clinici più elevati, pur associandosi a una maggiore incidenza di discinesie. I risultati di imaging, invece, mostravano una più marcata riduzione di captazione striatale del radiofarmaco nel gruppo trattato. La discordanza di risultati clinici e di neuroimaging non permise dunque agli Autori di attribuire alla Levodopa un effetto neuroprotettivo (Fahn 2006). Lo studio ADAGIO (2009) è stato un grosso studio controllato, randomizzato, a doppio cieco, di tipo delayed-start, postulato specificatamente per valutare un possibile effetto neuroprotettivo della rasagilina nella Malattia di Parkinson. Un disegno di tipo “delayed-start” è composto da due stadi: nello stadio I i pazienti sono randomizzati per ricevere il placebo (P) o il farmaco attivo (A); nello stadio II tutti i pazienti ricevono il farmaco attivo (A). Un effetto neuroprotettivo può essere evidenziato qualora, alla fine dello studio, il braccio A- A mantenga un vantaggio rispetto il gruppo P-A. Con un “delayed-start” di 9 mesi, lo studio ADAGIO trovava che il gruppo rasagilina-rasagilina (1mg) aveva alla fine dello studio una differenza nel punteggio UPDRS di 1.68 punti rispetto al gruppo trattato con placebo-rasagilina (P = 0.02). Il gruppo trattato con rasagilina- rasagilina (2mg) non mostrava invece differenze negli score clinici rispetto al gruppo placebo-rasagilina. Gli autori conclusero, anche in questo caso, che la rasagilina (1mg/giorno) potesse avere un effetto neuroprotettivo nel PD (Olanow et al. 2008). Diverse critiche sono state in seguito fatte allo studio. Per cominciare, uno studio di tipo “delayed-start” non è realmente a doppio-cieco, in quanto nella fase II è universalmente riconosciuto l’utilizzo del farmaco attivo; inoltre, dato l’effetto sintomatico della rasagilina, i pazienti dovrebbero essere in grado di riconoscere a quale gruppo appartengono in fase I. In questo modo, all’esordio della fase II, l’effetto placebo verrebbe a mancare nel gruppo P-A e si realizzerebbe nel gruppo A-A, potendo spiegare l’incremento dei punteggi UPDRS rilevato in questo gruppo di pazienti (de la Fuente-Fernandez et al. 2010). Molti altri agenti hanno suscitato in fase preclinica grandi speranze su un loro potenziale effetto neuroprotettivo nella Malattia di Parkinson; speranze che poi non sono state attese nei trials clinici. Di recente studi su animali e studi clinici hanno indicato un possibile ruolo neuroprotettivo di farmaci antidiabetici orali
quali la metformina e l’exenatide. Nel 2012 uno studio epidemiologico retrospettivo condotto su una popolazione di soggetti taiwanesi ha mostrato una riduzione dell’incidenza di Malattia di Parkinson di circa 2 volte in soggetti con DMT2 in terapia cronica con metformina (Wahlqvist et al. 2012). La metformina induce un ambiente simile a quello dato dalla restrizione calorica, con un miglioramento dell’omeostasi glucidica e una riduzione dello stress ossidativo, tuttavia i meccanismi alla base del supposto effetto neuroprotettivo non sono del tutto noti (Bayliss et al. 2016). Anche l’exenatide ha dimostrato avere effetti neuroprotettivi in diversi studi pre-clinici e di recente un grosso studio clinico randomizzato a doppio cieco ha evidenziato un effetto benefico del farmaco sulla sintomatologia clinica della Malattia di Parkinson rispetto al placebo (Athauda et al. 2017).
Terapia sintomatica
Terapia farmacologica delle manifestazioni motorie
Principali agenti terapeutici:
Levodopa: La Levodopa è considerata il gold standard per il trattamento delle manifestazioni motorie della Malattia di Parkinson. L’efficacia della Levodopa è stata ampiamente riconosciuta sin dalla sua introduzione in pratica clinica, oltre 40 anni fa, quando l’FDA ne ha approvato l’utilizzo (1970). Quando assunta per os, la Levodopa è rapidamente decarbossilata all’interno dei tessuti extracerebrali, per cui viene comunemente somministrata in associazione agli inibitori delle dopa-decarbossilasi (DDCI) carbidopa o benserazide. Queste associazioni riducono la conversione periferica della Levodopa a dopamina, minimizzando gli effetti dati dall’immissione in circolo della dopamina (nausea, vomito e ipotensione) e aumentando la disponibilità del farmaco a livello cerebrale. Il dosaggio terapeutico di levodopa è variabile, e la maggior parte dei pazienti risponde inizialmente a dosaggi di 300-600 mg/die. Una mancata risposta alla terapia con Levodopa (dimostrabile solo in caso di trattamento di almeno 8
settimane con dosaggi di 1000mg/die di LD+DDCI) suggerisce solitamente una diagnosi alternativa. Negli anni ‘80 sono state sviluppate formulazioni di Levodopa CR (control release), che hanno dimostrato avere effetti simili sul controllo della sintomatologia clinica rispetto alla formulazione standard. Effetti collaterali della terapia dopaminergica includono: sonnolenza, modifiche del comportamento, complicanze motorie (fluttuazioni motorie e discinesie), alterazioni gastrointestinali e cardiovascolari (Ferreira et al. 2013).
Dopamino agonisti: Sono dieci in tutto i dopamino agonisti sviluppati nel tempo per il trattamento della Malattia di Parkinson. Di questi abbiamo cinque agenti ergot derivati (bromocriptina, cabergolina, diidroergocriptina, lisuride e pergolide) e cinque agenti non ergot derivati (apomorfina, piribedil, pramipexolo, ropinirolo e rotigotina). A parte l’apomorfina e la rotigotina, che sono rispettivamente utilizzati per via sottocutanea e transdermica, i dopamino agonisti si assumono per os. Esistono formulazioni di tipo CR per il pramipexolo e il ropinirolo. I dopamino agonisti si sono dimostrati efficaci nel trattamento della Malattia di Parkinson, sia in monoterapia nelle fasi iniziali, sia in terapie di associazione nelle fasi avanzate di Malattia. Rispetto alla Levodopa tutti i dopamino agonisti hanno dimostrato di avere un’efficacia minore, una minore incidenza di complicanze motorie e una maggiore incidenza di allucinazioni, sonnolenza diurna, edema agli arti inferiori e sindrome discontrollo degli impulsi. I dopamino agonisti ergot derivati, inoltre, possono indurre fibrosi polmonare, retroperitoneale e valvolare (Ferreira et al. 2013).
Anticolinergici: I farmaci anticolinergici sono stati i primi ad essere utilizzati nel trattamento della Malattia di Parkinson. Studi clinici sull’utilizzo di anticolinergici in monoterapia e in terapie di associazione hanno mostrato risultati inconcludenti sul miglioramento dei sintomi motori (Ferreira et al. 2013). In pratica clinica hanno una specifica indicazione nel caso di tremore parkinsoniano (Connolly and Lang 2014). Gli effetti collaterali includono deterioramento cognitivo e sintomi neuropsichiatrici (Ferreira et al. 2013).
Amantadina: L’amantadina blocca i recettori NMDA del glutammato e potrebbe avere un certo ruolo anticolinergico e sul release della dopamina. Studi hanno dimostrato che l’amantadina, sia in monoterapia che in terapia di associazione, possa avere un effetto benefico sulla sintomatologia della Malattia di Parkinson. Effetti collaterali includono: vertigini, ansia, insonnia, vomito, edema, cefalea, incubi, atassia, confusione/agitazione, stipsi/diarrea, anoressia, xerostomia e livedo reticularis (Ferreira et al. 2013).
Inibitori delle MAO-B (MAOBI): La selegilina, la rasagilina e la safinamide inibiscono l’enzima MAO-B, prevenendo la metabolizzazone della dopamina. Gli effetti collaterali della terapia includono effetti avversi di tipo dopaminergico e sindrome serotoninergica, quest’ultima soltanto in caso di associazione con altri agenti serotoninergici (Ferreira et al. 2013).
Inibitori delle COMT: Gli inibitori delle catecol-O-metiltransferasi entacapone e tolcapone riducono il metabolismo periferico della levodopa, incrementando la sua emivita e prolungandone la azione. Il loro utilizzo è approvato soltanto in associazione alla terapia con Levodopa. Effetti collaterali includono effetti dopaminergici; diarrea (3-5% dei pazienti); incremento degli enzimi epatici (tolcapone) (Ferreira et al. 2013).
Strategie terapeutiche
La scelta delle strategie terapeutiche è complessa e dipende da diversi fattori quali l’età del paziente, lo stadio di Malattia, il tipo di sintomatologia clinica sperimentata e altri fattori (Ferreira et al. 2013). La Malattia di Parkinson è un disordine progressivo e la fase sintomatica di Malattia può essere suddivisa in una fase precoce e una avanzata; dal punto di vista clinico la transizione dall’una all’altra è data dal peggioramento della severità clinica, dalla comparsa di complicanze motorie di terapia (fluttuazioni motorie e discinesia) e da un progressivo arricchimento della clinica da parte di sintomi non motori (Salat and Tolosa 2013). La terapia sintomatica andrebbe iniziata quando il paziente
sperimenta impegno funzionale o imbarazzo sociale a causa dei sintomi di Malattia. Se i sintomi motori sono lievi si potrebbe pensare di utilizzare un inibitore delle MAOB, prima di passare a trattamenti più potenti quali dopamino agonisti o Levodopa. Nel caso di tremore parkinsoniano trovano specifica indicazione i farmaci anticolinergici. Anche la clozapina si è dimostrata in grado di migliorare il tremore; tuttavia è utilizzata soltanto laddove il tremore sia gravemente disabilitante e resistente alle altre terapie. Nei casi di severo impegno funzionale di solito il trattamento farmacologico si inizia con Levodopa o dopamino agonisti. La Levodopa, rispetto ai dopamino agonisti, si è dimostrata essere più efficace nell’apportare beneficio sulla sintomatologia parkinsoniana e inoltre si associa a minore incidenza di freezing, sonnolenza diurna, edema alle caviglie, allucinazioni e rischio di disordini da discontrollo degli impulsi. Tuttavia i dopamino agonisti, che pure si sono dimostrati efficaci in monoterapia nella Malattia iniziale, inducono meno frequentemente complicanze motorie, in particolare le discinesie. Poiché l’età di esordio in giovane età è un fattore di rischio per lo sviluppo di discinesie, di solito nei casi di esordio inferiore ai 60 anni si inizia il trattamento farmacologico con dopamino agonisti, tuttavia vi è una crescente evidenza che l’efficacia dei dopamino agonisti tende a diminuire nel tempo (di solito nel giro di 10 anni). Al contrario, i soggetti con età di esordio più tardivo sono maggiormente predisposti a sviluppare effetti avversi di tipo psichiatrico, per cui in questo gruppo di pazienti il rapporto rischio/benefici è maggiormente spostato a favore dell’utilizzo di Levodopa (Connolly and Lang 2014). All’inizio del trattamento, la terapia dopaminergica è generalmente in grado di controllare i sintomi in modo prolungato durante il giorno. Con il passare del tempo, tuttavia, questa risposta di lunga durata diventa meno marcata, la durata dell’efficacia del farmaco si fa più breve e il controllo dei sintomi diventa dipendente dalla presenza di adeguati livelli plasmatici di Levodopa, i quali sono altamente erratici vista la breve emivita e il variabile assorbimento del farmaco. Fluttuazioni nella concentrazione plasmatica si associano a fluttuazioni motorie, cioè la comparsa di periodi in cui la terapia non è pienamente efficace (periodi di “off”). Allo stesso modo, tendono a comparire movimenti involontari (discinesie) (Salat and Tolosa 2013). Strategie terapeutiche per ridurre i periodi di off sono:
incremento del dosaggio del farmaco dopaminergico, aggiunta di un secondo farmaco dopaminergico, frazionamento del dosaggio della Levodopa, aggiunta di un COMTI o di un MAOBI (Connolly and Lang 2014). Per quanto concerne la gestione delle discinesie si rimanda al capitolo dedicato.
Terapie Complesse
Nelle fasi avanzate di Malattia, la somministrazione continua di agenti dopaminergici per via parenterale permette di evitare fluttuazioni nell’assorbimento del farmaco dovute a un ritardo nello svuotamento gastrico o a influenze da parte della dieta (Nyholm 2012).
Le due strategie terapeutiche più utilizzate sono:
-Infusione sottocutanea continua di Apomorfina;
-Infusione duodenale continua di Levodopa/carbidopa – Duodopa: Il trattamento mediante infusione continua di formulazioni gel a base di Duodopa si è dimostrato in grado di ridurre le complicanze motorie associate alla Levodopa e di migliorare in modo significativo la qualità di vita (Nyholm 2012).
Neurochirurgia funzionale
Pallidotomia: La pallidotomia unilaterale si è dimostrata in grado di ridurre la discinesia nel lato controlaterale del 50-80%; il miglioramento clinico a un anno è inferiore rispetto alla stimolazione STN bilaterale. La mortalità della procedura raggiunge l’1.2% e può associarsi a un infarcimento emorragico sintomatico nel 3.9% oltre che associarsi a deterioramento cognitivo e a depressione (Ferreira et al. 2013).
Talamotomia: La talamotomia è in grado di migliorare tremore e rigidità, mentre non ha effetti sostanziali sul tremore. Procedure bilaterali si associano a severa disartria fino al 30% dei casi (Ferreira et al. 2013).
Stimolazione profonda (Deep Brain Stimulation – DBS) del nucleo subtalamico di Luys (STN) e del globo pallido interno (GPi): Il DBS è un potente intervento terapeutico nei casi di Malattia avanzata. La stimolazione profonda è in grado di apportare una sostanziale riduzione della sintomatologia motoria, delle complicanze motorie e della disabilità, con un miglioramento persistente fino a 10 anni dalla procedura (Coelho and Ferreira 2012). Il DBS dovrebbe essere utilizzato soltanto in pazienti relativamente giovani e in assenza di demenza e sintomi psichiatrici (Nyholm 2012).
Terapie ristorative: Approcci neurochirurgici sperimentali, quali strategie di “rigenerazione” o “reinnovazione”, icludono l’impianto di cellule della midollare surrenale, la terapia genica e l’utilizzo di fattori trofici (Thanvi, Lo, and Robinson 2007).
Gestione terapeutica delle manifestazioni non motorie
La corretta gestione della Malattia di Parkinson non può prescindere dal trattamento delle manifestazioni non motorie di Malattia. La demenza ha una prevalenza stimata del 30-40% dei casi di Malattia di Parkinson (PDD), e può trarre beneficio clinico dall’utilizzo di inibitori delle colinesterasi (rivastigmina, donezepil e galantamina) e di memantina. Fino al 40% dei pazienti con Malattia di Parkinson sviluppa allucinazioni, in questo caso la gestione terapeutica include la sospensione di farmaci offendenti (dopamino agonisti) e la ricerca e il controllo di eventuali comorbilità (infezioni o disordini metabolici). Diversi studi hanno documentato l’efficacia della clozapina e della quietiapina nel controllo della psicosi nella Malattia di Parkinson, mentre studi sull’olanzapina hanno fornito risultati scadenti oltre che un peggioramento della sintomatologia motoria. Allo stesso modo il risperidone, pur essendo in grado di migliorare la psicosi, non è raccomandato per via del peggioramento del parkinsonismo. Circa il 40% dei pazienti con Malattia di Parkinson soffre di depressione. Effetti antidepressivi sono stati dimostrati per il pramipexolo, la nortriptilina, la desipramina, il citalopram e la sertralina. Altri studi clinici, invece, non hanno dimostrato una
reale efficacia di altri SSRI (paroxetina o fluoxetina). Fino al 90% dei pazienti con Malattia di Parkinson manifesta disturbi del sonno, quali sonnolenza diurna, insonnia, frammentazione del sonno e RBD. Nella gestione della sonnolenza diurna possono essere usati con successo Modafinil e Metilfenidato. L’RBD interessa fino al 50% dei pazienti con PD; il clonazepam (0.5-2mg) si è dimostrato efficace nel controllo dei sintomi, pur avendo come effetti collaterali sedazione, aumento delle apnee notturne e incremento del rischio di cadute. La maggior parte degli antidepressivi, quali SSRI e mirtazapina, possono invece peggiorare l’RBD e la sindrome delle gambe senza riposo (restless leg syndrome – RLS). Un miglioramento del pattern ipnico è stato riportato nel caso di utilizzo di preparati a base di melatonina in assenza di significativi eventi avversi (Ferreira et al. 2013).