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1. Gallery of Lost Art.

Nel 2012 la Tate Modern di Londra e Channel4, con il supporto dell’Arts&Humanities Research Council, hanno promosso un affascinante pro- getto curato da Jennifer Mundy e disegnato dallo studio ISO. Si tratta di un “ghost museum”. Non ha nulla in comune con i consueti siti dei musei, che si limitano a esibire il loro patrimonio, è un archivio immaginario, impossibile. E, insieme, un catalogo in divenire che, settimanalmente, è stato arricchito. Si chiama Gallery of Lost Art, e vive solo nel web. Seleziona significativi momenti dell’“arte fantasma” del XX secolo. Vi scopriamo opere che tutti conosciamo, ma che non si possono più vedere, per varie ragioni. Sono opere che “esistono” solo nelle fotografie o grazie a racconti e testimonianze. In filigrana, si posso- no intuire gli echi di un’epica segreta: ogni “tassello” di questo museo virtuale suggerisce spy stories, stimolando narrazioni e affabulazioni. Basta collegarsi al sito www.galleryoflostart.com, per assistere alla riproposizione della sceno- grafia del film Dogville di Lars Von Trier, dove gli attori si destreggiavano in una piccola città dove i quartieri erano demarcati da linee bianche tracciate a terra. Il medesimo artificio ritorna nella Gallery of Lost Art. Dapprima, si guarda dall’alto un lungo tavolo, simile a quelli che si trovano nei laboratori di restauro. È possibile andare in ogni direzione, senza preoccuparsi di cronolo- gie e di gerarchie. Sul tavolo, tante miniature. Poi, ci si può avvicinare. È allora che la prospettiva cambia. E, grazie allo zoom, si può scegliere una delle opere custodite nel Museo dell’Arte Perduta. Ciascuna “figurina” è accompagnata da puntuali testi critici. In un’ideale flânerie, si incontrano tra gli altri Braque e Duchamp, Tatlin e Schwitters, Miró e de Kooning, Beuys e Bacon, Freud e Bal- dessari, Haring e Buren, la Emin e la Witheread.

La Gallery of Lost Art raccoglie quel che nessun museo del mondo potrà mai esporre: dipinti perduti, distrutti o rubati, sculture di cui si è persa ogni traccia, installazioni andate a fuoco, lavori censurati, creazioni disperse durante le guerre. E, soprattutto, opere pensate per non essere “tramandate”.

Dinanzi a questo materiale, siamo invitati a riflettere sul diverso rapporto intrattenuto dagli artisti del Novecento con il tempo. Che viene inteso non più come dimensione da superare, vincere – o addirittura cancellare. Ma come ge- ografia da abitare, frequentare, percorrere. Molti sperimentatori del XX secolo non vogliono più provare a sconfiggere questa divinità di cui non conosciamo il volto. Per loro, infatti, dipingere un quadro o scolpire una scultura non è

più un modo per edificare monumenta aere peremnius: per sottrarsi all’ine- sorabile destino terreno. A orientare le loro opzioni non è più l’idea secondo cui il creatore rimane un “errore biologico” rispetto alla creazione: “Ars longa,

vita brevis est”. Al contrario, gli artisti del “ghost museum” si curvano su quella

imprendibile divinità che è Chronos, varcando la soglia classica della corni- ce e violando la specificità dei generi artistici. Sorretti da un profondo cupio

dissolvi, si sottraggono alla fascinazione del “respiro lungo”. Concepiscono le

loro architetture immaginarie come territori sensibili all’irruzione del vissuto, plasmate da quello che, con Foucault, potremmo chiamare il pensiero del fuori: recinti dove si determina la convergenza tra l’anima e le forme, tra il linguaggio e la vita, tra il metodo e il caos.

Nel rimandare a questi passaggi, la Gallery of Lost Art si fa specchio di un secolo che ha sospeso parole d’ordine “definitive” come progresso, trascenden- za, verità e assoluto, per offrirsi come non-sistema, governato da indetermina- zione, provvisorietà, parzialità, desiderio di istantaneità. Un secolo che, nella storia dell’arte, è stato costellato di alcune permanenze – e anche di tante di- menticanze. Da un lato, sculture e quadri che, in linea con la tradizione, voglio- no “rimanere” ed essere ammirate dalle generazioni future. Dall’altro lato, in- stallazioni, performance e multipli che – feticci moderni – scelgono di svanire.

La Gallery of Lost Art è proprio questo: un défilé di feticci moderni. Innanzi- tutto, ci imbattiamo in prototipi oramai leggendari: opere fondate sulla centralità dell’atto ideativo-concettuale, di cui esistono solo repliche (in molti casi, si sono smarriti i modelli originali). Si pensi a Fountain di Duchamp, matrice di tutti i “concettualismi” novecenteschi. Un igienico capovolto, trasformato in fontana o, per dirla con Apollinaire, in un “Buddha della stanza da bagno”: un ready made esposto nel 1917, e mai più ritrovato. Poi, ammiriamo alcune sculture “irrepe- ribili”: come la fragile Paper Sculpture Construction di Braque (del 1914) e il

Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin (del 1919). E ancora, installazioni site specific andate distrutte: come il Merzbau di Schwitters. Un ambiente in sono

accatastate reliquie private. Una scultura incompiuta, non-finita, fatta di cascami accumulati dall’artista nella sua casa di Hannover, tra il 1924 e il 1932: un’opera aperta, interrotta, distrutta e ricostruita per tre volte (ad Hannover, in Norvegia e nel Westmoreland).

Poi, in un’immaginaria sala, sono radunati i quadri “irrintracciabili”: un dipinto di de Kooning (del 1950), l’omaggio di Freud a Bacon (del 1952), il col- lage Creation Project di Baldessari (del 1970). Siamo all’epilogo: i lavori spariti in seguito a eventi improvvisi, come la tenda di Tracey Emin, distrutta nel 2004, dopo l’incendio del deposito dove era conservata parte della collezione di Charles Saatchi. La lista potrebbe estendersi ulteriormente, accogliendo le pro- vocazioni “effimere” dei protagonisti di movimenti come Fluxus, happening, azionismo, graffitismo; gli esercizi sonori di John Cage; i wall drawings di Sol LeWitt, progettati per essere imbiancati subito dopo la chiusura delle mostre.

Dinanzi a noi sono artisti che hanno realizzato creazioni destinate a “sfu- mare” nel nulla – involontari eredi degli imperatori egiziani, i quali avevano

la consuetudine di lasciare il mondo facendosi seppellire insieme con i loro tesori, sotto le piramidi.

La Gallery of Lost Art ha “rispettato” solo in parte questa volontà. Per un verso, ha messo insieme opere che si sono sottratte alla “lunga durata” (per un gioco del caso o per decisione dei loro autori). Per un altro verso, ha scelto anch’esso di non farsi ingabbiare nella “lunga durata”: il 31 dicembre 2012 il sito è stato chiuso. Forse, proprio per assecondare il bisogno sotteso a molte costruzioni contemporanee: evaporare, dissolversi, non lasciare tracce. Meravi- gliosi simulacri. Miti di un secolo di mitologie declinanti1.

2. Contro il museo: la lezione delle avanguardie.

La Gallery of Lost Art documenta la ricerca di importanti artisti delle avan- guardie e delle neoavanguardie novecentesche, autori di opere che sembrano andare contro il museo. All’origine delle loro costruzioni poetiche, vi è innan- zitutto una riflessione radicale sull’identità, sul ruolo e sul destino dei musei nella modernità. Tessuti connettivi, che tengono insieme creazioni disparate, questi luoghi sono la terraferma dove si placa la tempestosa ansia racchiusa nelle pieghe di quadri e sculture. Lì, ha ricordato Giorgio Agamben, le opere cessano di essere la “misura essenziale dell’abitare dell’uomo sulla terra”, per iniziare una seconda e interminabile vita, che ne accresce il valore metafisico e intemporale. Inoltre, nel momento in cui vengono esposte, le opere rinunciano al proprio carattere energetico, per entrare in una condizione di dorato esilio – e stimolare la fruizione estetica2.

Il museo, ha sottolineato Boris Groys, potrebbe essere interpretato come un momento di “eternità materialista” e di “messa in sicurezza” per l’arte. In esso, gli uomini hanno la possibilità di abbandonare – anche se provvisoria- mente – il flusso della vita activa, per dedicarsi alla contemplazione di imma- gini create in altre epoche e già osservate da generazioni diverse3.

E, tuttavia, i musei sembrano avvolti dentro un’aura polverosa. Come aveva ricordato Paul Valéry in uno dei suoi pièce sur l’art: “Non amo eccessivamente i musei. Ve ne sono di molto ammirevoli, ma non ce n’è alcuno piacevole. Le idee di classificazione, di conservazione e di utilità pubblica, che sono giuste e chiare, hanno poco a che fare con il piacere. […] Mi muovo in un tumulto di creature congelate, ciascuna delle quali esige, senza ottenerla, l’inesistenza di tutte le altre. […] Sono preso da un orror sacro. Il mio passo diventa religioso. […] Il museo esercita un’attrattiva costante su tutto ciò che fanno gli uomini. L’uomo che crea, l’uomo che muore, l’alimentano. Tutto finisce alle pareti o nelle bacheche. […] I

1 trione, Il museo delle opere perdute, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 23 agosto 2012. 2 agaMBen, L’uomo senza contenuto, Macerata, 1979, Quodlibet, 1994 (2ª ed.), 50-51.

nostri tesori ci opprimono e ci stordiscono. La necessità di concentrarli in un luo- go ne esaspera l’effetto stupefacente e triste. Per quanto vasto sia il palazzo, per quanto capace e ordinato, ci troviamo sempre un po’ persi e desolati in quelle gallerie, soli di fronte a così tanta arte. […] Venere trasformata in documento4”.

Con finezza e lucidità, Valéry coglie alcuni tratti essenziali del museo tra- dizionale: ambiente silenzioso, oscuro, non amichevole; mancanza di contesto per le singole opere; abbondanza di opere e difficoltà a percepirle e memoriz- zarle tutte5.

Il j’accuse valeriano è stato ripreso da Adorno in un saggio del 1953. I musei? Hanno qualcosa di anacronistico. Evocano in noi “oggetti con i quali l’osservatore non ha più un rapporto vivo e diretto”. Alludono a contesti statici come mausolei o come “tombe di famiglia”, dove si contemplano tesori di vario tipo. I musei, scriveva Adorno, sono “luoghi dell’incoerente, dove morte visioni sono allineate come in bare”. Ricordano da vicino “i gabinetti di scienze natu- rali dello spirito”, nei quali le opere sono trasformate in geroglifici della storia. “Contro tale processo non si può erigere alcun concetto dell’arte pura, preso in prestito dal passato ad esso inadeguato6”.

In filigrana, i rilievi critici di Valéry e di Adorno rivelano assonanze primo- novecentesche. Dando voce a un vitalismo sfrenato, si sa, le avanguardie hanno pronunciato giudizi molto severi nei confronti delle Case delle Muse, istituzioni storiche, fondate sulla centralità della conservazione. Chi non ricorda il veemente attacco marinettiano? “Musei: cimiteri!… Identici, veramente, per la sinistra pro- miscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitori pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese! Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti… ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo… Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire? E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell’artista, che si sforzò di infrangere le in- superabili barriere opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno7?”. Dietro questo attacco “storico”, si nasconde il bisogno di compiere un de- ciso cambio di paradigma. Perché occorre continuare a considerare il passato

4 valéry, Il problema dei musei,1923, in Scritti sull’arte, 1934, postfazione di E. Pontiggia, Milano, TEA,

1996, 112-114.

5 eCo, Il museo del terzo millennio, conferenza tenuta al Museo Guggenheim di Bilbao il 25 giugno

2001 (www.umbertoeco.it).

6 adorno, Valéry, Proust e il museo, 1953, in Prismi,1955, Torino, Einaudi, 1972, 175-188.

7 Marinetti, Fondazione e Manifesto del futurismo,1909, in L. Scrivo, Sintesi del futurismo, prefazione

più prezioso del presente? Perché continuare a celebrare i fasti della Storia, investendo risorse nella tutela e nel restauro, senza misurarsi con la disturbante bellezza del presente?

Le medesime domande sono all’origine dello scandaloso gesto ducham- piano: assumere un prodotto qualsiasi, estraniarlo dal suo ambiente originario, defunzionalizzarlo, e introdurlo con forza nella sfera dell’arte, in modo da far passare quel prodotto da uno statuto di riproducibilità tecnica a quello di uni- cità estetica. Nel ready made, lo spettatore incontra un oggetto esistente che, quasi per incanto, si carica di un inatteso potenziale di autenticità poetica. Con una mossa ardita, Duchamp, secondo Groys, potenzialmente estende “il privi- legio della conservazione museale a tutte le cose includendo tutti gli oggetti contemporanei8”.

All’apparenza, un atto profondamente iconoclasta. Che, in realtà, confer- ma, riattiva e amplifica il ruolo legittimante della cornice museale. Solo perché si compie in quella cornice l’esercizio alchemico duchampiano ha un senso e un valore.

Questa sottile aporia rivela le contraddizioni sottese alle intenzioni delle prime avanguardie novecentesche, cui ha dedicato un’acuta analisi Edoardo San- guineti in Ideologia e linguaggio, dove si sottolinea come il momento eroico e quello cinico convergano nelle proposte dei futuristi e dei dadaisti. I quali oscil- lano tra atteggiamenti antitetici: si lanciano contro la mercificazione dell’arte e, insieme, vi precipitano dentro. Per un verso, vorrebbero distruggere quei luoghi di contemplazione disinteressata, dove si effettua la neutralizzazione totale del fatto estetico. Per un altro verso, riaffermano la centralità e l’importanza di quei templi. Da un lato, mirano a restituire all’arte mercificata la sua realtà ideale e vogliono salvare “una qualunque patente di nobiltà nell’oceano degli strumenti della comunicazione di massa”. Dall’altro lato, considerano il museo come il solo territorio dove l’arte può riscoprire la propria autonomia linguistica e, insieme, la sua eteronomia mercantile. “L’ingresso […] di ogni […] avanguardia […] tra le pareti asettiche del museo, è parallelo e complementare al suo ingresso sopra i sudici banchi del mercato”. Perché, spiega Sanguineti, “il museo e il mercato sono assolutamente contigui e comunicanti, anzi sono le due facciate di un me- desimo edificio sociale: il prezzo e il pregio si identificano9”.

3. Il museo “senza pareti”.

Nel nostro tempo, quelle aporie si stanno forse risolvendo. Stiamo assisten- do a un fenomeno diverso. Si pensi al lavoro di alcuni protagonisti dell’arte del XXI secolo, i quali spesso accettano le regole e le liturgie imposte dall’artworld

8 groyS, In the Flow, cit.,7.

che, come ha scritto Simon Schama, è “ronzio incessante, tendenze, soldi, inau- gurazioni sensazionali, galleristi-modaioli che si studiano a vicenda; robaccia di più alto livello, rappresa di teorie, che fa di tutto per collegare un’esperienza critica a ciò che è insignificante e irrilevante, pornografia all’asta, […] arte in- tesa come qualcosa in cui investire, più che da capire, carosello di miliardari ansiosi e smaniosi di spendere10.

Nonostante il bisogno di adeguarsi a certe liturgie mercantili consolidate, questi artisti sembrano misurarsi con una certa insofferenza nei confronti dei limiti imposti dalle istituzioni museali classiche. Come emerge dalla scelta di dar vita a installazioni che trasformano quelle istituzioni da luoghi con colle- zioni permanenti in teatri di esperienze, dove si investiga sull’“ontologia de- gli eventi” e sul valore del contingente e dell’irreversibile nella “nostra civiltà controllata digitalmente”, fondata “sul rintracciare e sul mettere in sicurezza le tracce della nostra esistenza individuale nella speranza di rendere qualsiasi cosa controllabile e reversibile11.

Talvolta, però, quelle installazioni sembrano forzare gli involucri architet- tonici dentro cui sono ospitate, neutralizzandoli e trasgredendoli. Grazie a con- sapevoli aumenti di scala. “La grandezza è una specie di prova, per accertare se l’immaginazione in grado di resistere a simili ingrandimenti”, è stato detto12.

Si tratta di installazioni monumentali e, insieme, anti-monumentali, dense di rinvii soprattutto al Merzbau di Schwitters. Gigantesche, eppure plurali, dissonanti, eterogenee. Talvolta, addirittura epiche. Fatte di tanti frammenti, inorganiche, non utilitarie, ricche di dimensioni simboliche, che straboccano al di fuori di se stesse, acquisendo una “esternità radicale ed estrema”. Queste in- stallazioni non si arrestano all’ambiente dentro cui sono contenute. Hanno un carattere spesso temporaneo. Sono legate a circostanze specifiche. Somigliano, potremmo dire servendoci delle parole di Mario Perniola, a happening messi in scena da cose anziché da persone. Eventi i cui protagonisti sono “entità straripanti ed eiaculanti, condensati di informazioni e di messaggi che ci inva- dono e ci sommergono”. Non chiedono di essere solo contemplate. Sentono il visitatore: lo accolgono, lo ospitano, lo inglobano, lo penetrano, lo possiedono, lo inondano, lo fanno smarrire. “Nel mondo inorganico sono le cose senzienti che ci vedono e ci concupiscono: noi non possiamo far altro che offrirci alla loro libidine sospesa13”.

Si pensi ai Sette palazzi celesti di Kiefer, a The Nose di Kentridge, al Mu-

seo dell’innocenza di Pamuk, a tante installazioni di Boltanski, Take Care of Yourself di Calle, a Cremaster di Barney, alla mostra-evento di Hirst a Venezia

(del 2017), al profetico Teatro delle orge e dei misteri di Nitsch, a Mount Olym-

10 SChaMa, Why the New Whitney is About Art – not Artworld, in “The Financial Times”, 8 maggio 2015. 11 groyS, In the Flow, cit., 24.

12 wind, Arte e anarchia (1969), Adelphi, Milano, 2007 (4ª ed.),125. 13 Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994, 135.

pus di Fabre, alla mostra-opera Anywhere, Anywhere Out of the World di Philip-

pe Parreno, ai monumenti di Hirschhorn e forse anche all’installazione virtuale

Carne y Arena del Premio Oscar Iñárritu.

Si tratta, spesso, di opere-mondo che assumono su di sé la propria “im- potenza a possedersi nella fine14”. Non opere, ma dùnamis, disponibilità e potenza. Vi si celebra la centralità non del non-finito ma della frammentarietà: il frammento implica una incompiutezza e un’imperfezione che eliminano ogni possibile finitezza e sanciscono, in maniera categorica e incondizionata, l’im- possibilità di compiere e di risolvere la forma15.

In molti esiti attuali, l’arte, ha osservato ancora Groys, a differenza di quel che era avvenuto in passato, non svolge più “le funzioni di una sorta di simu- lacro secolare e materialista”, impegnato a reagire alla “decadenza della fede nelle idee eterne e nello spirito divino”. E non si dà più come strumento per invitare alla contemplazione di immagini destinate a sopravvivere ai loro cre- atori. È diventata liquida, perché non fa più resistenza al divenire del tempo, ma collabora con esso: sembra voler “prefigurare e imitare quel futuro in cui le cose a noi contemporanee si eclisseranno”. Per interpretare questi scenari mo- bili, conclude il filosofo tedesco, occorrerà richiamarsi alla scienza che studia tutti i tipi di fluidi. Ed elaborare una specie di “reologia dell’arte, ovvero una trattazione dell’arte in quanto flusso16”.

Queste installazioni sfidano anche le logiche del mercato e del collezioni- smo: non possono essere acquistate né collezionate nella loro interezza. Inol- tre, violano la logica della permanenza e della lunga durata, sottraendosi ogni tentativo di restauro. Sono come libri che non si fanno sintetizzare. Non si fan- no guardare nel loro insieme. Impossibili da postare – se non per brandelli – su Instagram o su Facebook, si sottraggono a ogni esaustiva ripresa fotografica o video. Impossibili da contemplare, da preservare e da riprodurre fedelmente, a differenza dei quadri e delle sculture, possono solo essere parzialmente do- cumentate e tramandate solo attraverso fotografie e video, che ne tramandano la memoria imperfetta: informazioni parziali su quegli eventi artistici. Ne sono autori artisti che intendono portarsi al di là di una consuetudine largamente diffusa nel XX secolo, di cui si parla in Arte e anarchia: molti artisti, ricordava Wind, hanno sviluppato “un’immaginazione pittorica e scultorica decisamente tesa verso la fotografia”, realizzando “opere talmente fotogeniche, da farci sup- porre che esse non possano raggiungere la loro indiretta compiutezza se non attraverso la riproduzione meccanica”, come se “la massima speranza di un pittore o di uno scultore, a parte quella di vedere le proprie opere esposte in un museo, fosse quella di vederle riprodotte e diffuse17”.

14 agaMBen, L’uomo senza contenuto, cit., 99.

15 Perniola, Disgusti, Milano-Genova, Costa&Nolan, 1999,106. 16 groyS, In the Flow, cit., 7-12.

Si tratta di installazioni sottilmente anti-museali che si sottraggono a punti di vista privilegiati e praticano una sistematica perdita del centro. Costruzioni che sfidano la nozione modernista di specificità del medium per sperimentare ardite ipotesi di intermedialità e di transmedialità, superando la vocazione mul-