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Il patrimonio culturale come terreno di confronto politico »

Ciò mette in evidenza come proprio attraverso il patrimonio culturale si istituiscono percorsi di negoziazione politica fra attori sociali e istituzio-

8 MaFFi, Introduzione, “Annuario di antropologia”, vol. 7: Patrimonio Culturale, Meltemi, Roma, 2006,

13.

9 ragoneSe, Ritrovare il patrimonio scomparso: memoria e testo fra ICT e Design, Franco Angeli Editori,

2013, 13.

10 ManFreda, La dimensione metodologica: la mappatura dei bisogni per un intervento sociale capaci-

tante, in L. Binanti (a cura di), La capacitazione in prospettiva pedagogica, Pensa Multimedia, Lecce,

nali, alla ricerca di forme di legittimazione fondate sulla pretesa continuità storica fondante l’identità attuale di un certo gruppo, che pretende di poter vedere riconosciute le sue forme di vita e di poterle tramandare. Nel con- fronto tra la pretesa di un gruppo di dettare in forma egemonica la me- moria di un soggetto collettivo e la resistenza di chi, minoranza, difende la specificità della propria identità, si gioca una partita, a badar bene, sul- la rimozione (tentata vs evitata) e sull’oblio (imposto vs scongiurato). Noi assegniamo a queste forme di conflitto un significativo valore, poiché spo- siamo l’idea di una società basata sul dinamismo delle comunità locali e sulla loro capacità di auto-organizzarsi. Pertanto guardiamo favorevolmente a tutti i percorsi di valorizzazione delle pratiche sociali e culturali attraverso processi di

patrimonializzazione condotte a livello locale. Il museo comunitario rientra in

questi processi. Esso non è “luogo di conservazione inerte della cultura mate- riale riservato a un élite”, bensì è “mezzo di espressione civico e identitario”11, individuato da “attori situati in un tempo e in uno spazio determinato”12: dispo- sitivo educativo della comunità per la comunità che, attraverso processi parte- cipativi, mette in scena la propria cultura, cioè se stessa, anche in relazione alle narrazioni ufficiali rispetto a cui assume un punto di vista che, in taluni casi, può essere anche molto distante da quelle narrazioni.

La patrimonializzazione (il “fare patrimonio”) può essere intesa come un’attività di sensemaking (il “fare significato”), si tratta infatti di rendere il passato dotato di un significato valido per l’oggi, investe la realtà facendola diventare rappresentazione sociale. Da questa prospettiva non è significativo distinguere patrimonio materiale e patrimonio immateriale, qualsiasi monu- mento, qualsiasi oggetto hanno ragion d’essere nella misura in cui diventano narrazione. “Ogni elemento, visto nella sua complessità possiede nella sua strut- tura determinati aspetti tangibili e intangibili”13. Più importante è non cedere alla tentazione di una patrimonializzazione che enfatizzando eccessivamente il passato, impedisca di progettare il futuro. Di tale pericolo ha detto Françoise Choay, che dapprima propone una metafora, quella dello specchio, per cui la funzione del patrimonio è quella dello specchiarci nelle realizzazioni del pas- sato, per poi passare ad avvertire che “l’accumulo e la raccolta nello specchio del patrimonio di tutte le nostre realizzazioni del passato, sbocca in un narcisi- smo. È – passivamente – la somma dei nostri compimenti in quanto uomini in generale ed in quanto membri di comunità umane particolari che noi ci con- templiamo: immagine rassicurante, liberatrice dell’angoscia, federatrice”14. Ras- sicurante rispetto alla percezione della crisi in cui sentiamo di vivere: il passato

11 MaFFi, Introduzione, “Annuario di antropologia”, vol. 7: Patrimonio Culturale, Meltemi, Roma, 2006, 13. 12 Ibidem.

13 ragoneSe, Ritrovare il patrimonio scomparso: memoria e testo fra ICT e Design, Franco Angeli Editori,

2013, 26.

14 Choay, L’invenzione del patrimonio storico, in “Rivista di Architettura e Urbanistica”, 1993, n. 80-81,

accumulato “tranquillizza, pacifica, evita anche interrogativi troppo brutali”15. Perciò è proprio l’interrogare il passato, l’investire il patrimonio di un’ener- gia progettuale, che ci consentiranno di confrontarci con le sfide che l’oggi ci pone e di affrontarle, ritrovando ciò che del passato è vivo e può offrirci stimoli per immaginare il futuro, non perdendo di vista la memoria, ma neanche ido- latrandola, affinché essa possa continuare ad essere forza viva.

Dunque, facciamo musei, ma siano luoghi di vivo confronto e di scelte coraggiose e anche conflittuali. Non musei, che mostruosamente diventano elencazioni infinite di oggetti, ma musei-racconto, prese di posizione rispetto al passato, che significa prese di posizione rispetto al futuro. Apriamo i musei alla piena partecipazione degli utenti (che propriamente dovremmo concepire come prosumer). A livello locale, i musei già esistenti dovrebbero ripensarsi e quelli che nasceranno dovranno abilitare processi dal basso. Il museo, apren- dosi alla partecipazione della comunità, diventa agente in grado di creare co-

esione sociale, infittendo le relazioni, rendendo possibile la cooperazione fra

una pluralità di attori, aumenta la generatività sociale16.

Quest’apertura può avvenire in molti modi, trovando svariati equilibri tra la l’istanza tecnica e l’istanza partecipativa, affinché il museo possa qualificarsi come istituzione al servizio della crescita culturale e sociale (e indirettamente economica) della comunità, come agenzia propulsiva di sviluppo di comunità. Si tratta di un’apertura che, ove sia generosa, abilita l’analisi istituzionale17, che porta a interrogarsi sul senso dell’istituzione museo, sul ruolo concreta- mente svolto in passato per legittimare la gerarchizzazione sociale mediante la divisione in ceti produttori e fruitori di cultura “alta” e ceti sociali destinati a realizzare forme culturali di minore dignità, e innesca un processo di ricerca

azione18, che democratizzando la museologia la fa diventare luogo di formazio- ne della nuova cittadinanza, espressione dei patrimoni e delle memoria della comunità19.

15 Ibidem.

16 Dall’Archivio sulla Generatività Sociale dell’Università Cattolica di Milano, prendiamo la seguente de-

finizione, che ci sembra molto appropriata, di generatività sociale: “La generatività sociale è un nuovo modo di pensare e di agire personale e collettivo che racconta la possibilità di un tipo di azione social- mente orientata, creativa, connettiva, produttiva e responsabile, capace di impattare positivamente sulle forme del produrre, dell’innovare, dell’abitare, del prendersi cura, dell’organizzare, dell’investire, immet- tendovi nuova vita. È un dinamismo che vivifica e continuamente rinnova le forme sociali evitandone la stagnazione. Essere generativi significa “mettere al mondo” e “prendersi cura” di quanto generato così che questo possa crescere e fiorire. A quel punto è necessario ‘lasciarlo andare’, ovvero capacitarlo, autorizzarlo, renderlo libero. Tale dinamica, se letta in chiave sociale, può riguardare la nascita o la rina- scita di un prodotto o di un servizio, un’impresa, una relazione, una nuova forma sociale, un progetto. Possono dirsi generative quelle organizzazioni che allestiscono le condizioni per capacitare e abilitare la generatività personale e di gruppo”. All’indirizzo internet: http://www.generativita.it/it/generativity/.

17 laPaSSade, L’analisi istituzionale. Gruppi, organizzazioni, istituzioni, Isedi, Milano, 1974.

18 troMBetta, roSiello, La ricerca-azione. Il modello di Kurt Lewin e le sue applicazioni, Erickson, Trento,

2011.

19 La ricerca-azione, legando conoscere ed agire, sostiene che si conosce in quanto ci si propone di