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Il museo di comunità »

1. Scommettere sulla comunità.

In questo contributo si ragiona di un approccio community oriented al mu- seo. L’ottica è quella della Pedagogia di comunità e della Pedagogia del Patri-

monio, le quali concepiscono i beni culturali non tanto come occasione di sva-

go o di intrattenimento, ma come un’opportunità per definire meglio l’identità di una comunità e per fornire, attraverso il rapporto con il passato, la base su cui fondare la trasformazione del presente in vista di un futuro in cui ci si possa continuare a riconoscere. In questo senso, lavorare con la comunità nell’ottica della presa di consapevolezza e valorizzazione del patrimonio culturale costi- tuisce un intervento dalle straordinarie potenzialità educative, che qualificano educativamente i contesti non formali con interventi a livello superindividuale, potremmo dire olistico, se la parola non fosse frusta e soggetta ad equivoci.

Nel campo delle scienze sociali, il termine “comunità” è piuttosto ricorren- te: se ne parla nell’ambito della teoria del servizio sociale, in psicologia, in so- ciologia, in pedagogia. Ciò che accomuna i diversi sguardi disciplinari è l’idea di fondo che le istituzioni che sviluppano azioni che impattano sulla vita delle persone dovrebbero avere la preoccupazione di renderle partecipi al processo decisionale, sia come singoli sia come soggetti facenti parte di una comunità, che trova la capacità di auto-organizzarsi per far valere il proprio punto di vista e la propria volontà. Si tratta di una tendenza che si è affermata a seguito delle riflessioni che dagli anni Sessanta del secolo scorso in avanti si sono moltipli- cate a proposito del potere, delle istituzioni totali, del welfare, ecc. Sicuramente un passaggio decisivo in questo senso è costituito dall’antipsichiatria, in Italia mirabilmente interpretata da Franco Basaglia1. Egli propone di rivedere l’idea e la pratica di comunità per poter realmente incidere sulla malattia mentale, considerando che ogni soggetto aspira ad avere il controllo della propria vita, ancor più chi non possiede gli strumenti.

Scommettere sulla comunità è immaginare che sia possibile promuovere modi di vita in cui la preoccupazione per il benessere psico-fisico delle perso- ne, la coesione sociale sono visti come obiettivi prioritari, che giustificano la presenza delle istituzioni, che, ove esistano di per se stesse, esprimono, invece,

forme di burocratizzazione autoreferenziale e di alienazione della soggettività. La pedagogia di comunità mira, quindi, alla “umanizzazione della vita”, lavora pertanto per conseguire l’estensione delle forme di vita comunitarie, per determinare l’allargamento degli spazi di democrazia e di dialogo, per corresponsabilizzare tutti i soggetti e per favorire la lotta contro ogni forma di visione gerarchica, autoritaria ed elitaria della prassi politica.

La pedagogia del patrimonio vi appare strettamente connessa poiché assu- me il patrimonio culturale come un’opportunità per promuovere azioni in gra- do di indurre sviluppo di comunità2, come una riserva di senso a cui i soggetti possono attingere nei processi di costruzione della loro identità, un capitale da valorizzare per realizzare opportunità economiche, un grumo di valori, che lega le generazioni presenti alle passate impegnandole in un vincolo di respon- sabilità che deve guidare le azioni di conservazione e tutela.

La questione quindi è come realizzare un’efficace attività di educazione al patrimonio in un’ottica di valorizzazione della comunità che quel patrimonio ha avuto in eredità e che costituisce parte essenziale e fattore vitale dell’iden- tità collettiva, tale proprio perché si riconosce in quell’eredità, la assume e la perpetua, più o meno consapevolmente.

2. I compiti della pedagogia del patrimonio.

Per sua stessa costituzione, la pedagogia del patrimonio richiede che la scuola si autoconcepisca come strettamente connessa con la vita della comuni- tà, si renda disponibile a immaginare il patrimonio culturale come un laborato- rio permanente per la realizzazione di una pluralità di azioni educative, stringa patti con l’ente locale, le associazioni, i professionisti del territorio affinché il progetto educativo della scuola si potenzi di tutti gli apporti che possono ve- nire dall’esterno, mettendo così in connessione il dentro col fuori, l’ambiente scolastico col più ricco ambiente circostante, pregno di segni da interpretare, di relazioni da scoprire e coltivare, di esperienze a cui fare riferimento. La pedagogia, facendosi pedagogia del patrimonio, diventa in grado di attivare tutti i sensi, di avvalersi delle opportunità della molteplicità dei linguaggi, di valorizzare le diverse intelligenze dei bambini e dei ragazzi, e pertanto di re- alizzare appieno il compito che le è assegnato, ossia di formare la personalità dei soggetti che le sono affidati, in modo che essi possano pervenire ad essere individui dentro un solido sistema di relazioni sociali, che li contestualizza e offre loro il senso pieno della realtà, sottraendoli al rischio di forme di impro- duttivo narcisismo.

2 Clinard, Slums and community development: experiments in self-help, in “Free Press”, New York,

1970; noto, lavanCo, Lo sviluppo di comunità. Esperienze, strategie, leadership e partecipazione: ana- lisi di un modello di democrazia attiva, Milano, 2000.

La pedagogia del patrimonio è disciplina piuttosto recente e, tutto som- mato, acerba. La sua nascita è stata in qualche modo sollecitata dal lavoro di sensibilizzazione compiuto dal Consiglio d’Europa, che ha spronato i sistemi scolastici dei paesi membri a proporsi di considerare il patrimonio culturale come risorsa educativa e ha sostenuto iniziative volte alla sua valorizzazione, provenienti sia da istituzioni che dal mondo associazionistico. Troviamo traccia nella raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 5 del 1998, in cui si offrono delle indicazioni su cosa debba intendersi per pedagogia del patrimonio e su come la si possa realizzare. Raccomandazione che, recepita a livello nazionale, ha riconosciuto il diritto di ogni cittadino ad essere educato alla conoscenza del patrimonio culturale e al suo corretto uso, dentro una prospettiva di esercizio attivo e responsabile della cittadinanza. Recentemente la “Conferenza di Faro” e gli atti che ne sono conseguiti hanno rafforzato il ruolo dei cittadini nella individuazione della propria eredità culturale, nella definizione degli strumenti per conservarla, tutelarla e valorizzarla.

Nonostante la giovane età della pedagogia del patrimonio, cominciano a cumularsi esperienze e buone prassi, il che lascia ben sperare per lo sviluppo della disciplina. Ciò che da talune di queste esperienze emerge è il complessi- ficarsi del concetto di “comunità”, in ragione del fatto che oggi, sotto la spinta dei processi della globalizzazione, le comunità appaiono meno coese di un tempo, luogo spesso di convivenza di sotto-comunità, caratterizzate da culture anche molto differenti fra di loro, sospettose l’una dell’altra, che non agevol- mente trovano la possibilità di dialogare e di riconoscersi reciprocamente. In tal modo la pedagogia del patrimonio non può esimersi dal considerare la questione dell’educazione interculturale.

Proprio la domanda su cosa conservare e tutelare come valori comunitari diventa un terreno di confronto interessante che può dinamizzare le relazioni fra i gruppi sociali, attivando processi di coesione sociale a punti di equilibrio più avanzati.

Per rispondere a quella domanda, è indispensabile un investimento di ener- gie al fine di definire quali siano gli elementi di una memoria collettiva da tra- mandare intenzionalmente, in grado di identificare la comunità segnalando le sue specificità. E laddove si riscontri, in relazione ad alcune questioni divisive, una memoria fratturata, si tratterà di stabilire in che termini dare questa rifra- zione della memoria muovendo da un’etica della differenza, che riconosca la possibilità di una memoria plurale e non forzatamente condivisa, senza che ciò debba tradursi in conflitto insanabile, ma possa invece proporsi come una forma di biodiversità culturale3. Se memoria collettiva è “l’insieme delle rappresentazio- ni sociali riguardanti il passato che ogni gruppo produce, custodisce e trasmette

3 cfr: Parolari, Cultura, diritto, diritti. Diversità culturale e diritti fondamentali negli stati costituzio-

attraverso l’interazione dei suoi membri tra loro.”4, è la ricorsività e la qualità delle relazioni sociali che stabiliscono quale grado di articolazione interna e complessità della memoria collettiva una comunità può gestire.

Questa prospettiva di indagine e di intervento, maturata – sia pure mino- ritariamente – in ambito pedagogico, appare compatibile con gli sviluppi della

Nuova museologIa, la quale ribadisce la necessità di ricercare un nesso non

estrinseco del bene culturale con il contesto, affinché esso possa diventare en- zima di ulteriore produzione culturale a beneficio della crescita del territorio5.

3. Il museo di comunità.

Sottostante all’epistemologia delle due discipline (pedagogia di comunità e nuova museologia), vi è la convinzione che la dimensione regionale e locale costituiscono “la sfera privilegiata di produzione di sentimenti identitari fondati sul meccanismo strutturale dell’intimità culturale”6. La costruzione delle iden- tità collettive necessitano di un versante intimo, caratterizzato da dimensioni identitarie locali e differenziate, che si pone in dialogo (anche conflittuale, tal- volta) con le rappresentazioni ufficiali di un’identità più ampia ed estesa, quale può essere l’identità nazionale7.

Nella produzione di artefatti culturali all’interno di una configurazione sociale, alcuni di questi sono avvertiti come carichi di valenze tali da pre- tendere di essere tramandati quali intenzionali testimonianze di momenti di particolare significatività per la vita sociale della comunità che li ha pro- dotti, sì da meritare che vengano segnalati all’attenzione delle generazio- ni successive, affinché li facciano oggetto di cura e li utilizzino nella defi- nizione della loro identità. Accanto a questi artefatti presenti, una comunità si esprime rispetto all’eredità ricevuta dal passato e assume decisioni in me- rito a ciò che di essa ha avuto un senso per la costruzione della sua iden- tità attuale, istituendo delle relazioni di senso tra il presente, il passato e il futuro. Gli attuali artefatti culturali che si intendono trasmettere alle gene- razioni future cosa e quanto devono alle consegne che le generazioni passa- te hanno affidato a quelle attuali? Cosa del passato val la pena perpetuare? Le istituzioni culturali locali, tra cui possiamo immaginare il museo di comuni-

tà, devono poter rispondere a questa domanda, devono caricarsi di un compito

riflessivo, senza il quale non vi può essere costruzione (progettuale) di identità. “A causa della selezione di cui è il frutto, la distruzione, l’oblio e il silenzio fanno parte integrante delle operazioni necessarie alla creazione del patrimo-

4 geertz, Interpretazione di culture, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1998, 375. 5 deSvalléeS, MaireSSe, Concetti chiave di Museologia, Parigi, Edizione ita. 2016, 69.

6 PaluMBo, Il vento del Sud-Est. Regionalismo, neosicilianismo e politiche del patrimonio nella Sicilia di

inizio millennio, “Antropologia”, 2006, vol. 7, 45.

nio culturale”8. L’importante è capire chi è il soggetto che procede a definire in concreto quale sia il patrimonio culturale di un soggetto collettivo.

L’identità è, dal nostro punto di vista, un processo e perciò è fatta insieme di conservazione e innovazione, anzi di innovazione nella conservazione, ossia di interpretazione dell’eredità del passato che in tal modo viene funzionalizza- to alle esigenze che le nuove generazioni avvertono come impellenti. Identità è memoria, nel senso che essa concreta gli specifici modi attraverso cui viene significata la realtà nel succedersi delle generazioni in una data comunità o gruppo. Come ha scritto Ragonese, “il presente è sempre un modo di rilettura orientata di un passato attraverso un punto di vista situato”9. Aggiungiamo: una rimemorazione del passato da parte di un attore che, nel mentre guarda al passato, ha dinnanzi a sé una qualche immagine del futuro. Egli opera una “ricostruzione nel ‘qui ed ora’ a posteriori, di un ‘là e allora’ (memoria) e che contiene anche le ipotesi di replicazione e continuazione del posizionamento del soggetto (progetto) nello scenario di riferimento”10.

Pertanto può dirsi che riguardo al patrimonio culturale si gioca sempre una partita politica. Durante il periodo coloniale, i paesi europei recuperavano i re- sti delle civiltà locali e, impadronendosene, facevano dei musei, i quali stavano evidentemente a significare la condizione di dominio esercitata dai colonizza- tori sui colonizzati. Era la rappresentazione di un’asimmetria di potere, che gli europei trovavano il modo di legittimare con la supposizione di una superiorità culturale e civile su tutti gli altri popoli, in ritardo sulla storia.

Ma, una volta che gli europei hanno abbandonato le colonie, proprio la valorizzazione del patrimonio locale è diventata rivendicazione di un potere autoctono, che si è legittimato anche come riscatto dalla subordinazione cultu- rale imposta da forze esogene. Spesso quel processo di valorizzazione, però, ha dato luogo a contese culturali all’interno dello stesso Stato, fra etnie, comunità, gruppi, poco propensi a riconoscersi dentro un’idea di nazione, vista anch’essa come portato culturale dell’occidente, poco consona ai modelli organizzativi della vita, consolidati da tradizioni millenarie.