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Parte II: Casi di studio – divinità assire e babilonesi nei corpora aramaici

4. La Triade di Hatra alla luce dei culti mesopotamici

4.1. Maren/ Šamš

4.1.3. Maren/Šamš e il culto babilonese di Bēl

Un’ulteriore conferma del ruolo di Maren/Šamš quale divinità principale del pantheon hatreno deriva dall’utilizzo dell’epiteto bl. Pur considerata una particella asseverativa in alcune edizioni (Caquot 1952, 103; “wahrlich” in Beyer 1998), essa è più plausibilmente un’epiclesi, attestata di frequente in iscrizioni di genere commemorativo: a bl, grafia aramaica del teonimo mesopotamico Bēl, il fedele si appella in qualità di dio più potente del pantheon, affinché coloro che sono menzionati nel testo vengano ricordati, solitamente lṭb wlš(n)pyr “in bene e in bellezza”.

Il teonimo Bēl è originariamente un epiteto, “signore”: il semitico nord-occidentale bʿl, così come l’accadico bēlu, è un epiteto di grandissima diffusione e versatilità, abbondantemente attestato nella titolatura divina in riferimento a molteplici prerogative, che possono spaziare dalla signoria su una determinata area geografica alla supremazia in ambito militare o altro. L’epiteto può però riferirsi a una divinità anche senza ulteriori specificazioni ed essere pertanto inteso in senso assoluto: in questo caso con Bēl si identifica la divinità che detiene la supremazia assoluta e riveste il ruolo di capo del pantheon. In questa accezione, Bēl fu stabilmente a capo del pantheon babilonese dal I mill. a.C., quando a partire dal regno di Nabucodonosor I (1124-1103) divenne sempre più frequente utilizzare questo epiteto in riferimento al dio Marduk, già divinità principale del pantheon (Sommerfeld 1987-1990, 360-361). Questa identificazione non dipese solo da speculazioni teologiche, ma si inserì in un preciso quadro politico e ideologico, volto ad affermare la superiorità di Babilonia su Nippur quale città santa di riferimento per la Mesopotamia. Nella tradizionale concezione cosmologica mesopotamica, Nippur era sede dell’assemblea divina, presieduta da Enlil. Questo ruolo della città si affermò nel III mill. a.C., e costituì un imprescindibile punto di riferimento per la determinazione del concetto di regalità sul paese di Sumer e Akkad. Al progressivo modificarsi degli equilibri politici dall’inizio del II mill., che comportarono l’ascesa di Babilonia nel panorama politico basso-mesopotamico, si affiancò l’ascesa di Marduk al rango di dio nazionale babilonese, caratterizzato dall’indiscussa preminenza sulle altre divinità del pantheon. La concezione che si riscontra pienamente sviluppata con Nabucodonosor I alla fine del II mill. quindi ha le sue radici in un’età precedente, probabilmente già in età cassita

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(Abusch 1999b, 545-546). La produzione letteraria, in primo luogo il poema Enūma Eliš, consacra l’equivalenza dei nomi Bēl e Marduk: l’epiteto Bēl è riservato al dio che in occasione della celebrazione del Nuovo Anno sconfigge il caos, come narrato nel poema (Dalley 1995, 144). Allo stesso modo, l’Esagila, il santuario di Marduk a Babilonia, nel corso del I mill. fu costantemente designato quale il santuario di Bēl. L’autorità suprema di Marduk/Bēl esercitata sul pantheon era pertanto unita a quella di Babilonia in campo politico e culturale, ed è proprio Bēl il teonimo in cui si preservò la memoria di questo culto, indissolubilmente legato al nome stesso della città. Come visto nel cap. 3.2.1., Dalley (1995, 141-143) elenca alcune fonti che illustrano il ruolo che il tempio di Bēl a Babilonia ricopriva nell’immaginario di culture diverse: Plinio il Vecchio (Naturalis Historia VI.121-122), a metà del I sec. d.C., cita il tempio di Juppiter Belus quale unica struttura ancora intatta e funzionante in una città sostanzialmente abbandonata; il Talmud babilonese (Avodah Zarah 11b), al contrario, testimonia come nella prima metà del III sec. d.C. il rabbino Rav lo considerasse una delle roccaforti per eccellenza dell’idolatria e come la sua vita cultuale fosse ancora florida.

Maren, oltre a godere dell’epiteto Bēl, è strettamente legato a un altro elemento che si riallaccia alla cultura babilonese. Il nome del suo santuario, sgyl-Sagil, riprende infatti il nome del santuario di Marduk a Babilonia, l’Esagila. Tutte le iscrizioni che nominano il Sagil sono state rinvenute in prossimità del santuario stesso329 e ne testimoniano la vivace vita cultuale (Aggoula

1998, 36-38). H 191, 192, 225, 240, 244 e 245 commemorano l’offerta di denaro per lavori edilizi nel santuario330; H 202q, che consiste del solo nome sgl dšmš “Sagil di Šamš”, fa invece parte di

una serie di brevissimi testi su stele rinvenute in un luogo di estrema sacralità e dedicate da importanti personaggi della vita religiosa e civile della città, tra cui il re Sanaṭrūk.

H 107 merita di essere analizzata in dettaglio, in quanto fornisce importanti dati sulla natura del santuario di Šamš e sul pantheon hatreno. Se ne propone una traduzione che si discosta leggermente da quelle sinora pubblicate (commento epigrafico e linguistico in Appendice, cap. 12.1.1.1.).

1. [ʾ]nʾ [gdy] br ʾb[y]gd [br]

2. gdy br [ʾ]bygd br kbyr[w] mn bny 3. rpšmš ʿdryt

329 H 107, su stele proveniente dall’iwan 4; H 191 e 192, sul muro meridionale dell’Iwan sud; H 202q, nella forma sgl, su una stele facente parte di un gruppo di 17 stele di piccole dimensioni, disposte in fila dinanzi alla nicchia lungo il muro ovest della cella del tempio quadrato di Šamš; H 225, incisa sul lato esterno del muro divisorio tra l’Iwan nord e l’iwan 9; H 240, 244 e 245, incise sul muro meridionale dell’Iwan nord; H 246, rinvenuta fra i detriti associati all’Iwan nord.

330 Anche le iscrizioni H 241, 242 e 243, rinvenute nella stessa area, commemorano offerte di denaro; il nome del Sagil non vi è attestato ma presumibilmente fanno sempre riferimento a questo tempio.

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4. lšmš ʾlhʾ rbʾ ʿbd 5. ṭbtʾ byt ḥdyʾ ʿlyʾ d[y] 6. sgyl hyklʾ rbʾ dy bnʾ 7. brmryn lšmš ʾbwhy ʿl

8. ḥyy wʿl ḥyy mn dy rḥym ly k[lh]

“Io, [Gadday], figlio di Ab[ī]-Gad, [figlio di] Gadday, figlio di [A]bī-Gad, figlio di Kabīr[u], dei Bani Rap- Šamš, ho aiutato Šamš, il grande dio, il benefattore: (nel)l’elevata Casa della Gioia d[el] Sagil, il grande tempio che ha costruito Barmaren per suo padre Šamš. Per la mia vita e per la vita di tutti coloro che mi amano.”

L’iscrizione fu rinvenuta nell’iwan 4, un ambiente del Sagil, e commemora probabilmente il rifacimento di una sua parte anziché la costruzione dell’intero edificio. Sulla base dell’integrazione della prima riga, i lavori furono promossi da un certo Gadday, di cui si indicano la genealogia, che consta di cinque generazioni, e l’appartenenza al gruppo tribale dei Bani Rap-Šamš. Il verbo ʻdryt “ho aiutato”, alla riga 3, fa riferimento al sostegno offerto da Gadday ai lavori svolti nel tempio. Trattandosi del più importante santuario cittadino e considerando il carattere monumentale dell’iscrizione, il suo luogo di rinvenimento e la lunga e prestigiosa genealogia del protagonista, è probabile che si riferisca a un cospicuo contributo finanziario. Il passo “il grande tempio che ha costruito Barmaren per suo padre Šamš” è stato interpretato come una dedica fatta da un dio a un altro dio (Milik 1972, 377 e segg.) o come espressione del patrocinio offerto da Barmaren, ossia Nabû, alle arti e in particolare all’architettura (Tubach 2013, 203-204). In realtà, considerando la natura di Hatra quale città sacra e il significato religioso conferito a qualsiasi atto ufficiale compiuto al suo interno, è più probabile che la formula intenda che la costruzione del santuario fu finanziata dal tempio di Barmaren. È quindi possibile, sebbene il testo non lo indichi esplicitamente, che Gadday e i Bani Rap-Šamš fossero affiliati al tempio di Barmaren. La partecipazione attiva dei gruppi tribali nella vita religiosa urbana, del resto, è testimoniata per esempio da H 463 e 464, che celebrano la fondazione del tempio di Nanaya (Tempio XIV) da parte dei Bani Taym-Nay (al- Jubouri 2010b).

Il nome del santuario è parte di un’espressione più complessa: byt ḥdyʾ ʿlyʾ d[y] sgyl “(nel)l’elevata Casa della Gioia d[el] Sagil” (righe 5-6). La lettura di Beyer (1998, 53) è byt ḥryʾ “das Haus der hohen Adligen (= der Versammlungsraum des Senats?)”; Aggoula (1998, 38-39; 66) “la maison (salle) haute de réjouissance” e ipotizza che “alto” faccia riferimento a un ambiente destinato a celebrazioni e collocato a un piano superiore, cui ne corrispondeva uno analogo ma “inferiore”. Healey (2009, 277) traduce “House of the Joyous”, considerando ḥdyʾ l’aggettivo ḥḏāyā anziché il sostantivo ḥaḏwā “gioia” (CSD, 128; Sokoloff 2009, 414), e facendo riferimento al nome del tempio del dio lunare Sīn a Harran, l’Eḫulḫul (E2.ḪUL2.ḪUL2), accadico Šubat Ḫidāti “House

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nel panorama religioso hatreno di concetti e termini religiosi provenienti da regioni più settentrionali, processo testimoniato dalle attestazioni del teonimo Māralāhē a Saʿdīya331. Tuttavia,

il nome stesso del santuario, sgyl-Sagil, consente un’interpretazione diversa. La serie babilonese Tintir, che elenca le principali città sante mesopotamiche e ne celebra il prestigio enumerandone i luoghi sacri, riporta E2.ḪUL2.[...], probabilmente da integrarsi E2.ḪUL2.[LA], nome di un santuario

minore facente parte del complesso dell’Esagila a Babilonia (Tintir II:5’’; George 1992, 50-51 tradotto “Joyful House”332; 1993, 99). Il nome del tempio di Šamš a Hatra riprende proprio l’Esagila

babilonese, per cui colpisce che H 107, rinvenuta nell’iwan 4, un ambiente di dimensioni relativamente contenute che avrebbe potuto svolgere la funzione di sacello, nomini proprio una “Casa della Gioia”. È molto plausibile che questo non fosse un secondo nome dato all’intero santuario, quanto piuttosto il nome di una sua parte, con ogni probabilità lo stesso iwan. Nel caso in cui alla riga 5 dell’iscrizione non sia espressa la preposizione di luogo b- e si adotti la traduzione “nell’elevata Casa della Gioia”, la corrispondenza sarebbe ancora più evidente. Gadday non si sarebbe, dunque, limitato a finanziare il restauro della “Casa della Gioia”, l’iwan 4, ma vi avrebbe anche posto questa importante stele per commemorare il contributo suo e del suo gruppo tribale333. Prendendo le mosse dal forte legame attestato fra la caratterizzazione di Maren e Babilonia, Tubach (2013, 207-210) sostiene che a capo del pantheon hatreno non vi sarebbe stato Šamš, bensì il babilonese Marduk con attributi solari. I fattori da cui dipenderebbe tale identificazione sono: il nome del santuario; l’epiteto del dio Nabû spʾ dy mrn “lo scriba di Maren” attestato in H 389, che riprende la relazione che nella teologia mesopotamica è ben attestata tra Nabû e Marduk; l’epiteto Bēl che, come visto, in alcune iscrizioni dedicatorie è associato a Maren o viene usato in sua vece; il carattere essenzialmente conservativo della religione mesopotamica, che renderebbe poco plausibile l’identificazione tra Šamš e Bēl, mai attestata nella letteratura religiosa assira e babilonese, a favore invece della corrispondenza tra Marduk, Bēl e Maren. Un ulteriore elemento a sostegno di questa tesi risiederebbe nell’identificazione di Barmaren con Nabû in virtù del patrocinio offerto da entrambi all’architettura (H 107 e 280). Tuttavia, va rilevato come l’autore presupponga per Hatra una continuità di insediamento a partire dal periodo achemenide, che si sarebbe interrotta solo con la caduta della città nel 240/1 d.C. Ciò non è dimostrato archeologicamente, in quanto le uniche tracce di insediamento anteriori al I sec. a.C., rinvenute nel Temenos dalla Missione archeologica

331 La possibilità di contatti fra Hatra e Harran era già stata sostenuta da Sima (1995-1996, 319). Per questa iscrizione si vedano la trattazione del legame tra Barmaren e i sogni infra (4.2.3.); il cap. 6.2.3.; commento epigrafico e linguistico in Appendice, cap. 12.1.1.2.

332 Il nome sumerico non consente di stabilire se l’epiteto sia costruito con l’aggettivo “gioioso” o il sostantivo “gioia”. 333 Si veda il cap. 10.2. per l’analisi di questo elemento babilonese in prospettiva storica.

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italiana, testimoniano un’occupazione di natura sporadica e legata con tutta probabilità a gruppi seminomadi che predisponevano accampamenti stagionali (Venco Ricciardi 2000, 94-95). Sul piano storico-religioso, invece, è da sottolineare come Tubach privilegi i tratti di continuità e sembri anzi rifiutare la stessa possibilità di innovazioni nella storia religiosa assira e babilonese. Ad esempio, Tubach propone che sgyl sia, anziché un prestito, una trascrizione in forma abbreviata del sumerico E2.SAG.IL2 “Tempio la cui sommità è elevata”: lo studioso ritiene che il morfema E2 “tempio”

sarebbe stato omesso nella resa in aramaico perché ancora correttamente compreso, e perciò sottinteso (Tubach 2013, 207 nota 57). Tubach sposa pienamente l’ipotesi di Geller (1997) secondo cui la lingua accadica e la scrittura cuneiforme sarebbero state in uso fino al III sec. d.C.334. Tale ricostruzione, però, non considera che il nome del santuario di Marduk è attestato in aramaico quale sngl in una tavoletta datata all’anno 6 di Alessandro (Delaporte 1912 n°99:2). Il termine faceva quindi parte del lessico aramaico mesopotamico sin dalla seconda metà del I mill. a.C.

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