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Mari Katayama: la disabilità tra bellezza e vulnerabilità.

CAPITOLO TERZO

3.1 Mari Katayama: la disabilità tra bellezza e vulnerabilità.

Mari Katayama è una delle artiste più interessanti del panorama dell’arte contemporanea, conosciuta sia per la partecipazione alla Biennale d’arte del 2019 sia per le sue ultime esposizioni personali, come ad esempio al Museo di Arte Moderna dell’Università del Michigan.

Nata a Saitama nel 1987 con una rara malformazione genetica detta Emimelia tibiale, che colpisce lo sviluppo della tibia e nel suo caso anche di una mano, è cresciuta in un villaggio vicino a Gunma, in Giappone200. All’età di nove anni decise di sottoporsi all’amputazione di entrambi gli arti: «Therefore I had to choose between having prosthetic legs, or being in a

wheelchair without amputating my legs»201, per poter camminare autonomamente grazie all’uso di protesi, piuttosto di utilizzare la carrozzina. In un’intervista racconta di essere cresciuta in un contesto multiculturale, frequentando una scuola dell’infanzia per bambini stranieri.202 Capì successivamente che la sua cultura internazionale era atipica se confrontata con quella dei suoi coetanei di altre città infatti, racconta: «I was surprised when I realized

that there were only Japanese in Tokyo or other places I visited after growing up. It took longer for me to realize that my upbringing was unusual»203. Fu vittima di bullismo e come ci rivela: «Per anni nessuno voleva avere a che fare con me. I momenti trascorsi da sola mi hanno fatto capire che esistevano modi diversi di comunicare oltre alle parole e ai gesti»204, pertanto la sua arte diventa un modo per comunicare e instaurare un rapporto con gli altri. Si avvicinò alla fotografia all’età di quattordici anni, contestualmente creò un sito web dove pubblicava le sue creazioni. Il pubblico però non comprendeva la presenza di alcuni oggetti quindi decise di farsi ritrarre per spiegare la loro funzione e motivare la loro esistenza. Da

200 Cfr.,CNN Style: edition.cnn.com/style/article/mari-katayama-self-portrait/index.html, (18.30, 13 Febbraio

2020).

201 Ibidem. 202 Ibidem. 203 Ibidem.

204 Germano D’Acquisto, L’armonia imperfetta di Mari Katayama, 13 Novembre 2019: www.rivistastudio.com/,

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quel momento si appassionò alla fotografia ed imparò ad utilizzare la macchina fotografica e il processo creativo della fotografia205.

Mari Katayama spesso si avvale nei suoi autoritratti e per le sue installazioni di oggetti cuciti da lei, abilità appresa durante l’infanzia dalla nonna e dalla madre. Prima dell’amputazione infatti utilizzava delle ortesi206, particolarmente invasive, per tale motivo la nonna e la madre le cucivano abiti a mano: è merito dell’osservazione del loro lavoro che l’artista imparò a cucire. «I grew up watching that, so making something with a needle and

thread was more familiar to me than holding a pencil»207.

Nelle serie di fotografie intitolate I have child’s feet e I’m wearing little high heel del 2011, l’artista esprime un interesse sia per la moda sia per le scarpe con il tacco.

When I was a graduate student, I was working as a jazz singer at a bar in order to pay my tuition. One night, a drunk customer harassed me saying “a woman is no longer a woman when not wearing high-heels”. I was so sad and rushed into the prosthetic limb works and that’s how I started creating high-heels that are wearable with my artificial legs208.

L’episodio influenzò Mari Katayama che si sentì offesa dalla frase dello sconosciuto, pertanto ideò The High Heels project, progetto in cui l’artista realizza speciali scarpe con il tacco che può indossare nonostante le protesi, con le quali si sente più indipendente e femminile. Il progetto accende un dibattito sull’importanza dell’abbigliamento per le persone con disabilità e su alcuni bisogni molto spesso lasciati in secondo piano. Mari Katayama a riguardo sostiene:

In the field of social welfare, the importance of "clothing" is not well recognized, even now. If there were clothes that a handicapped person could wear and take off themselves, they may be able to go to the toilet or change their clothes without the help of other people, a factor previously required. Moreover, if the patient or a handicapped person

205 Cfr., Emilia Jacobacci, Fotosintesi. Oltre i limiti del corpo: la bellezza imperfetta di Mari Katayama, 19

Dicembre 2019: www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2019/12/intervista-mari-katayama/, (10.30, 26 Gennaio 2020).

206 Le ortesi sono dispositivi medici molto comuni, utilizzati per correggere, contenere o compensare un deficit

fisico.CNN Style: edition.cnn.com/style/article/mari-katayama-self-portrait/index.html, cit.

207Ibidem.

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could choose their own clothing by their own tastes, clothing could become a big first

step toward their social rehabilitation and increased independence209.

L’artista, che in prima persona ha subito queste difficoltà, asserisce che per una società maggiormente inclusiva e proiettata verso l’indipendenza delle persone con disabilità sia necessario dare valore al tema dell’abbigliamento, assicurandosi che questo permetta di svolgere le attività quotidiane in autonomia, valorizzando in contemporanea l’estetica della persona. Mari Katayama si fa portavoce di questo particolare aspetto, creando delle scarpe con il tacco per le sue protesi che indossa in occasioni pubbliche, mentre si esibisce nel canto, oppure sfila in passerella e nelle sue fotografie210. Inoltre, produce anche dei video in cui insegna a camminare con i tacchi, che diventano delle effettive performance dell’artista211. Nelle sue opere il corpo viene percepito come una scultura vivente, elemento fondante della sua ricerca artistica. Viene ritratto sempre in primo piano, circondato da oggetti da collezione o creati dall’artista, e inserito in contesti differenziati, ma legati alla sua infanzia. Mari Katayama traduce in arte il suo mondo: «la mia stanza è realmente la mia stanza e tutti gli oggetti sono creati da me»212. Sono soprattutto le conchiglie, le perline, i cristalli di Swarovski e gli oggetti cuciti da lei, ad arricchire le sue fotografie, le sue cornici e le sue installazioni.

L’artista tuttavia sostiene che la corporalità non è la tematica principale del suo lavoro, ma dipende da ciò che vuole trasmettere in quel contesto:

People would prominently regard physicality as my theme, but I'd rather create without thinking of anything specific at all. The theme depends on what I feel for the moment. Because I believe being an artist is a job for those who live in the era, they're in. I feel like I respond to the currents or trends to create something that fits in this era213.

209 Ibidem. 210 Cfr., fig. 12.

211Cfr., Jacobacci, Fotosintesi. Oltre i limiti del corpo, cit., www.artribune.com/arti-

visive/fotografia/2019/12/intervista-mari-katayama/.

212 Ibidem.

213 CNN Style: edition.cnn.com/style/article/mari-katayama-self-portrait/index.html, cit. 213Ibidem.

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La presenza preminente del corpo nei suoi lavori viene così da lei spiegata: «I use my body as

material simply because it's handy»214, tratta il suo corpo come un materiale adatto a

trasmettere ciò che per lei è importante esprimere.

L’arte di Mari Katayama è una ricerca della sua identità attraverso la corporalità, infatti il corpo protagonista delle sue opere e gli oggetti esempi della vita dell’artista trasmettono all’osservatore la sua dimensione personale e le sue esperienze. Nelle sue opere percepiamo la forza con cui ha combattuto e affrontato i limiti che la disabilità le ha imposto. Non nasconde la sua invalidità ma la ostenta, esaltandone la vulnerabilità, la fragilità, ma anche la bellezza, la sensualità215. Molti dei suoi scatti sono caratterizzati da una forte carica erotica, sono ammalianti, contemporaneamente esprimono armonia, delicatezza216. L’osservatore ha la percezione di una donna forte, conscia dei suoi limiti e delle sue possibilità, capace di andare oltre agli ostacoli dalla sua disabilità.

Le opere di Mari Katayama presentano una estetica nuova opposta all’ideale stereotipato di bellezza, riconosciuta dalla società contemporanea che rifiuta i canoni fisici richiesti dalla società moderna217. La sua arte rientra perfettamente in quell’ ‘estetica disabile’ definita da Tobin Siebers in cui si rifiuta l’ideale di corpo legato solamente al concetto di perfezione e armonia e si considera la disabilità e le sue peculiarità come elementi fondanti218.

L’artista afferma: «Credo che la bellezza sia qualcosa di personale, diversa per ognuno di noi. In quello che faccio non cerco la bellezza, ognuno di noi vede le cose in modo diverso»219, e ancora: «La libertà è il processo creativo. Tutto quello che metto nelle foto riflette quello che sento. La foto riflette la ricerca di un sentimento universale. Mentre lavoro mi sento felice e mi sento libera. Questa è la mia libertà.»220.

L’infanzia sicuramente ha influito sia sullo sviluppo della sua personalità221 che sulla sua dimensione artistica, infatti opere come quelle già citate I have child’s feet e I’m wearing little

high heel (fig.13 e fig. 14) l’artista si ritrae circondata da oggetti ed elementi che riconducono

alle passioni ed esperienze infantili. In queste due fotografie la vediamo nella sua camera,

214 Ibidem.

215 Cfr., University of Michigan: umma.umich.edu/exhibitions/2019/mari-katayama, (14.30, 14 Febbraio 2020). 216 Cfr., D’Acquisto, L’armonia imperfetta, cit., www.rivistastudio.com/.

217 Cfr., Barbara Picci, Venezia – La disabilità rielaborata di Mari Katayama @ Biennale Arte 2019, 12 Luglio

2019: barbarapicci.com/2019/07/12/mari-katayama-biennale-arte-2019/, (11.30, 26 Gennaio 2020).

218 Cfr., 2.1 Il corpo disabile e lo sguardo: alla ricerca di un’estetica della disabilità, primo paragrafo del secondo

capitolo.

219Jacobacci, Fotosintesi,, cit., www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2019/12/intervista-mari-katayama/. 220 Ibidem.

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accanto alle protesi di quando era bambina e indossa i tutori rosa che utilizzava prima dell’amputazione222. La scarpa minuscola indossata con le protesi da bambina e gli oggetti creati e collezionati dall’artista creano un’atmosfera fiabesca, una reminiscenza dell’infanzia con cui però l’artista esprime la sua tristezza per avere rinunciato ai sogni infantili223.

La dimensione intima delle fotografie di Mari Katayama si riallaccia anche con la realtà sociale e culturale della società odierna.

L’artista affronta la disabilità e la relazione con gli altri, in modo da colmare la profonda lacuna tra la comprensione di sé e le categorizzazioni che la società contemporanea impone224. Il corpo è un concetto limite tra l’esperienza della disabilità e le imposizioni e gli ideali della società dominante che l’artista impiega per ridefinire le nozioni di disabilità e femminilità. In questo modo Mari Katayama destabilizza le norme vigenti, rielabora la disabilità in modo da superare i limiti che normalmente vengono imposti dalla disabilità stessa e dalla società225. Si può dire quindi che diventa un modello di femminilità e bellezza. Diplomata nel 2012 a Tokyo in un master in belle arti, Mari Katayama inizia ad esporre le prime fotografie già nel 2005 in mostre generali con altri artisti e dal 2008 nelle sue mostre personali: ad esempio, nel 2009 fu protagonista alla Galleria J a Gunma, dove espose per la prima volta gli oggetti da collezione e fatti a mano insieme a opere di arte informale. Un’esibizione che lascia presagire l’evoluzione delle sue mostre negli anni a seguire226. Nel 2015 alla Galleria Traumaris a Tokyo fu allestita una personale, You’re mine, la quale si sviluppa in un’ambiente quasi asettico227, in cui l’autoritratto domina il contesto. L’artista nella fotografia si ritrae con un completo intimo, distesa in un letto bianco, con lo sguardo rivolto allo spettatore in una posa sensuale. La cornice del ritratto è decorata con conchiglie e sassi. Sotto all’opera principale, vi è posta una bambola in tessuto patchwork (fig. 16), cucita dall’artista in un letto bianco, disposta nella stessa posizione della fotografia a cui fa riferimento228. Mari Katayama crea un suo alter-ego: la parrucca racchiude il volto rappresentato da un oggetto circolare illuminato, lo stesso che si trova accanto all’altra fotografia che compone la mostra. Il corpo riproduce nei minimi particolari quello di Mari,

222 Cfr., La Biennale di Venezia. 58ª Esposizione internazionale d’arte. May you live interesting times,I-II,

Venezia, Marsilio, I, 2019, p. 278.

223Cfr., CNN style, cit., https://edition.cnn.com/style/article/mari-katayama-self-portrait/index.html. 224 Cfr., University, cit., https://umma.umich.edu/exhibitions/2019/mari-katayama.

225 Cfr., Picci, Venezia – La disabilità rielaborata, cit., barbarapicci.com/2019/07/12/mari-katayama-biennale-

arte-2019/.

226 Cfr., Katayama, cit., http://shell-kashime.com/ . 227 Veduta della mostra in fig. 15.

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con la deformazione alla mano e le gambe amputate. La bambola rappresenta una delle tante personalità dell’artista, come potrebbe suggerire anche il titolo dell’opera e la mostra. Infatti, in un’intervista disse: «Tutto è vero ma tutto è realizzato per creare quest’immagine,

compresa me stessa. Quindi io sono nella foto, ma non sono io»229, tutto quello che espone la riguarda, mette in mostra se stessa, ma allo stesso tempo sembra incarnare un’altra dimensione, un’altra se stessa rappresentata dalla bambola. Il contesto è arricchito da altre fotografie in formato più piccolo e da scaffali con dei contenitori in cui sono assemblati oggetti di varia natura, come conchiglie e perline, oggetti che l’artista impiega sia negli autoritratti e nelle esposizioni.

Nel 2016 nella sua personale Shadow puppet230 propone in un ambiente intimo con sedie, tavolini, scaffali, una serie di fotografie in cui l’artista crea degli effetti tra luce e ombra con il suo corpo e con gli oggetti estensione della sua corporalità. Lo stesso effetto viene ripreso anche dalle decorazioni che arricchiscono la sala, proiettate nella parete sembrano quasi fronde degli alberi mosse dal vento231. Inoltre, in parte della parete sono poste delle fotografie, dei poster che esprimono la dimensione privata dell’artista. Sono presenti degli scaffali contenti le sue collezioni, che si intravedono sia nelle sue fotografie che nelle sue installazioni precedenti.

Di tematica differente risulta essere la mostra Bystander232(2016), serie in cui l’artista, contestualizzando le sue fotografie in un ambiente marittimo, crea un rapporto tra sé, il mare e la fauna marina, in particolare assumendo le sembianze di un granchio. La malformazione della sua mano, infatti, sembra assomigliare ad una chela, similitudine sulla quale gioca l’artista233.

In una delle ultime personali On the way home234(2017), in un’ambientazione più asettica e meno familiare, Mari Katayama espone delle fotografie che riprendono il tema dell’infanzia e delle sue origini. L’installazione prevede l’esposizione della bambola patchwork, posta al centro della sala, come se indicasse la presenza dell’artista. Dal soffitto scende una rete, richiamante anche questa volta l’ambiente marino, in cui l’artista pone dei manichini, le cui fantomatiche braccia sono sospese e alla fine delle quali sono accumulati oggetti come

229 Jacobacci, Fotosintesi, cit., https://www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2019/12/intervista-mari-

katayama/.

230 Mostra alla Galleria 3331 di Chiyoda (fig. 17).

231 Cfr., Katayama, cit., http://shell-kashime.com/ (fig.18).

232 Esposta alla Gallery rokku di Naoshima nel 2016. (fig.19-20)Cfr., Ibidem.

233 Cfr., Jacobacci, Fotosintesi, cit., www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2019/12/intervista-mari-katayama/. 234 Cfr., Katayama., http://shell-kashime.com/, (fig.21).

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conchiglie e perle, elementi legati al mare e alla sua infanzia235. On the way home è un viaggio personale nella vita dell’artista, in cui ritroviamo le tematiche più importanti.

Dopo la nascita di sua figlia, gli autoritratti di Mari Katayama riflettono una diversa percezione del proprio corpo, una maggiore consapevolezza di sé e della realtà che la circonda:

Inizialmente nel mio lavoro ero integrata dagli oggetti e mi nascondevo, ora, dalla nascita di mia figlia in poi, ho iniziato a far foto al mio corpo in modo differente, sto cercando di affrontare me stessa, di svelarmi. L’amore incondizionato di mia figlia mi ha insegnato ad amarmi, anche se ancora non riesco ad accettarmi del tutto236.

Nella prima serie di scatti White legs del 2009, Mari Katayama si ritrae in varie posizioni e angolazioni, in un ambiente luminoso in cui il colore predominante è il bianco. Lo stesso colore viene ripreso negli abiti dell’artista: infatti oltre al corsetto bianco che indossa in alcuni scatti, si presenta in tutte le foto con delle protesi di tessuti diversi che coprono le sue gambe, quasi come se ne fossero il reale prolungamento. Ad esempio, in White legs #3 (fig.22) l’artista si ritrae seduta in un ambiente in cui la luce illumina la figura presa nell’atto di sistemarsi le scarpe, indossa solamente le sue protesi e il corpo nudo è coperto dai lunghi capelli, con in testa un copricapo bianco in pizzo. Gli elementi, di questa e delle altre opere della stessa serie, sembrano ricondurre ad una sua simbologia del matrimonio e soprattutto del ruolo della sposa, in particolare, attraverso le sue pose, l’artista vuole esaltare la sensualità e la femminilità che differiscono dall’idea tradizionale237.

In Ophelia del 2013 (fig.23) l’artista si autoritrae sdraiata su un letto, circondata da oggetti e ricordi personali. Nello sfondo ritroviamo tessuti patchwork, con varie decorazioni. Mari Katayama indossa una parrucca bionda e rivolge allo spettatore uno sguardo diretto, che attrae l’attenzione e sembra cercare un confronto238. La posa dell’artista, come anche il titolo della fotografia, ricorda Ophelia di John Everett Millais: le due protagoniste sembrano quasi galleggiare e riposare in un ambiente suggestivo.

235 Cfr., Ibidem.

236 Jacobacci, Fotosintesi, cit., www.artribune.com/arti-visive/fotografia/2019/12/intervista-mari-katayama/. 237 Cfr., Ibidem.

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La serie You’re mine, da cui deriva il nome dall’omonima mostra, presenta delle fotografie, come You’re mine #001 e You’re mine #002 (fig.24), in cui si nota un’evoluzione del modo in cui l’artista concepisce il suo corpo. Infatti, nelle fotografie precedenti, Mari Katayama rielabora la disabilità con l’impiego di protesi e oggetti, in questi scatti invece l’artista si espone in tutta la sua bellezza e ostenta la sua vulnerabilità e la sua sensualità. L’abbigliamento e la posizione esaltano la sua femminilità: in You’re mine #002 l’artista è seduta in un letto bianco, in una posizione che denota grazia e armonia senza le decorazioni e gli oggetti che arricchivano l’opera Ophelia. In un contesto essenziale sono presenti esclusivamente degli elementi cuciti dalla stessa artista, tra cui il volto della bambola ripreso dall’installazione della mostra alla galleria Traumaris a Tokyo, per creare continuità tra le due opere239.

In una seconda opera invece mette in scena il rapporto tra la sua identità e il suo alter-ego, rappresentato da una bambola fatta a mano. In Thus I exist #2 (fig.25)240, l’autrice si ritrae sdraiata a terra circondata da cuscini ed insieme alla sua bambola, riproduzione esatta del suo corpo, disposta in modo speculare rispetto all’artista. La bambola, che rappresenta il suo riflesso in uno specchio, è composta da una rete di tessuto che racchiude perline, conchiglie, cristalli di Swarovski.

In Shell (fig. 26), esposta anche alla Biennale di Venezia 2019, l’artista troneggia al centro della composizione circondata da bambole fatte a sua immagine e somiglianza, insieme a protesi e altri elementi. Alle sue spalle troviamo un’installazione composta da barattoli di vetro pieni di scarti di cucito e incarti di dolciumi, il tutto conservato nell’olio da cucina, elementi che ricorrono spesso nelle sue mostre e nelle sue fotografie. Interessante in questo scatto è come l’artista mostri allo spettatore il processo creativo: organizzata la scena, disposte le luci, l’artista scatta la fotografia tramite l’autoscatto collegato ad un cavo nella sua mano. Tutta la composizione racconta l’arte e la personalità di Mari Katayama, dalla sua disabilità alle protesi, dalle bambole al suo alter-ego e agli oggetti da collezione.

Per rendere nota la modalità con cui l’artista si autoritrae, nella parte superiore della composizione si vede riflessa in uno specchio la macchina fotografica241. Anche in questo scatto, la luce artificiale della stanza crea un’atmosfera fiabesca, luminosa, oltre ad esaltare la

239 Cfr., Katayama, cit.,http://shell-kashime.com/ . 240 Cfr., Ibidem.

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figura di Mari Katayama che si presenta allo spettatore in tutta la sua vulnerabilità e austera