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Mary Duffy: la narrazione del corpo disabile in performance

CAPITOLO TERZO

3.3 Mary Duffy: la narrazione del corpo disabile in performance

La performance è una rappresentazione dell’arte che si fa reale, un mezzo molto diretto per esprimere dei concetti, tipologia che sconvolge e attrae lo spettatore. Per questo molti artisti disabili si esibiscono in spettacoli o in performance toccando tematiche che normalmente non vengono affrontate. Mary Duffy, insieme ad altri artisti, si esibisce per attenuare la presenza del modello medico nella società e nella concezione di corpo disabile: non vuole più essere considerata una malattia319.

Mary Duffy320 è un’artista e performer irlandese nata senza braccia, che ha imparato ad accettare le proprie peculiarità, per sfruttarle al meglio. Oltre alla performance si dedica alla pittura, dipingendo opere con i propri piedi. Attivista per i diritti umani, recitò nel film Fur con Nicole Kidman e partecipò a vari programmi radiofonici321.

Duffy appare come una donna cosciente del proprio corpo, emana sicurezza e determinazione e considera non esatta la definizione di ‘persona con disabilità’ per il fatto che implicitamente sottende la loro invalidità come un attributo, mentre preferisce l’uso del termine ‘persona disabile’ poiché esprime un senso di unità, di appartenenza ad un gruppo.322 La sua prima performance avvenne nel 1987 s’intitolava Cutting the ties that bind commissionata da Arts councils of Ireland in cui l’artista si presentò come una Venere, coperta da un drappeggio a più strati che progressivamente vennero tolti fino a lasciarlo nuda. Inoltre, venivano presentate fotografie e testi323.

In un’altra performance del 1990, Stories of the body, commissionata e realizzata alla

Rochdale art gallery di Manchester, Duffy si presenta con un monologo in cui racconta le sue

esperienze come donna disabile artista e sul sentimento di sentirsi inadeguata, non desiderabile. L’artista mentre recita mostra il suo corpo nudo e contemporaneamente scorrono immagini che simboleggiano l’ideale che la società e i media costruiscono sul corpo disabile324. Risentono dei pregiudizi e degli ideali errati che contraddistinguono ancora la società odierna. La nudità dell’artista attrae, sconvolge e incuriosisce e Duffy in questo modo attira l’attenzione generale sul dibattito in corso.

319 Cfr., Mitchell, Snyder, Vital signs, cit. http://medhum.med.nyu.edu/view/10094. 320 Figure 46 e 47

321 Cfr., Mary Duffy, cit., https://www.maryduffy.ie/section771230.html

322 Cfr., Mitchell, Snyder, Vital signs, cit. http://medhum.med.nyu.edu/view/10094. 323 Millet-Gallant, The disabled body, cit., p. 39.

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Nel 1995 si esibì nel Michigan in una performance325 simile alla precedente, che affronta le dinamiche della disabilità ponendo il suo corpo al centro della discussione.

In uno sfondo scuro l’artista appare dinanzi al pubblico con una luce che modella il suo corpo completamente nudo: essa si presenta come una scultura classica creando una versione contemporanea della Venere di Milo. Il suo corpo attrae e, allo stesso tempo, respinge lo sguardo dello spettatore che prova sia un sentimento di empatia, sia un senso di avversione nei confronti della diversità incarnata dall’artista326. L’esibizione consiste nella recita di un monologo in cui Duffy esprime il bisogno di affermare la sua identità, distaccandosi dalla concezione di disabilità dal punto di vista medico.

You have words to describe me that I find frightening. Every time I hear them they are whispered or screamed.

Silently, wordlessly, from the front to the middle-spreads of newspapers. Only you dare to speak them out loud.

I look for them in a dictionary, and I only find some. The words you use to describe me are

Congenital malformation.

In my child’s dictionary I learn that the fist part means “born with.” How many times have I answered that question?

Were you born like that? Or did your mother take them dreadful tablets?

How come I always felt ashamed when answering those big staring eyes and gaping mouths?

Did you have an accident? Or did your mother take them dreadful tablets?

With those big words, those doctors used, they didn’t have any that fitted me properly. I felt even in the face of such opposition that my body was the way it was supposed to be That it was right for me

As well as being whole, complete, and functional (…)

Today, I’m winning battles everyday against my own monster— my inner critic Who has internalized all my childhood oppressions

The oppression of constantly trying to be fixed, to be changed, to be made more whole327.

325 Figure 48, 49, 50.

326 Cfr., Garland-Thomson, Staring back, cit., p.335. 327 Eisenhauer, Just looking, cit., pp. 14-15.

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Inizialmente l’artista spiega di sentirsi costernata dal modo in cui le persone con disabilità vengono etichettate dalla società, che tacitamente li esclude, li emargina e li marchia per la loro ‘mancanza’. Questa visione è amplificata dal modello medico che influisce tuttora sulla concezione del corpo disabile considerato come espressione della malattia, la quale identifica la persona stessa, «The words you use to describe me are /Congenital malformation»328. Mary Duffy ripropone le domande che le rivolgono ripetutamente in modo da sottolineare l’assiduità, la pesantezza e lo sconforto nel dover rispondere a quesiti che mirano ad ampliare il suo senso di inadeguatezza. Nonostante i tentativi di svalutare la sua identità, l’artista, cosciente della sua diversità, sente che attraverso il suo corpo può sopperire alle mancanze sviluppando forme e strategie differenti per affrontare la quotidianità. Nel video Vital signs:

Crips culture talks back, è significativo il modo in cui l’artista, mentre parla, gesticoli con i

piedi, compensando l’assenza delle braccia. Di conseguenza Duffy non si identifica con l’analisi medica che i dottori le hanno diagnosticato negli anni, ma percepisce il suo corpo completo e funzionale, ovvero adatto a lei e alle sue necessità. «Framed as a work of art, her

body is paradox incarnate, leaving her viewers’ sense of the order of things in ruins. Hers is the art that transforms consciousness, that grants a new way of seeing the known world»329. La performance instaura una relazione con il pubblico: l’artista mostra se stessa con la consapevolezza del suo corpo, acquisita attraverso un percorso interiore che ridimensiona i suoi limiti, sfruttandoli a suo vantaggio. Lo spettatore inizialmente prova un senso di smarrimento dinnanzi alla diversità di Mary Duffy, successivamente riflette sull’esperienza dell’artista, rielaborando un nuovo modo di concepire la disabilità e più in generale il contesto sociale in cui l’uomo agisce.

Il corpo dell’artista rappresenta un paradosso: lo sfondo nero in contrasto con la sua carnagione chiara rievoca il marmo della Venere di Milo, considerata la quintessenza della bellezza canonica femminile, allo stesso tempo nell’esibire la sua disabilità, Duffy presenta il cosiddetto ‘rejected body’330, un corpo non accettato, non considerato. Mette in discussione le rappresentazioni tradizionali del corpo femminile, mostrando invece una bellezza non convenzionale. Reclama il suo diritto di mostrare la sua nudità, per non sentirsi più

328 Eisenhauer, Just looking, cit., p.15.

329 Garland-Thomson, Staring back, cit., p.336. 330 Cfr., Eisenhauer, Just looking, cit., p.15.

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sessualmente inadeguata e per non provare più vergogna per il proprio corpo; non vuole più nascondere la sua presenza attiva in società331.

Si impone come un nuovo modello di bellezza femminile poiché «The templates culture has

supplied her audience are inadequate to make sense of her body»332, ovvero la cultura dominante propone dei concetti e degli esempi di corpo che non sono adatti per spiegare e dare un senso a quello dell’artista, considerato per questo motivo ‘anormale’ e sbagliato. L’esibizione di Mary Duffy si può inserire in due diverse ottiche di interpretazione: la prima è il legame tra passato e presente che l’artista crea esibendosi davanti agli spettatori come una scultura antica vivente, una riproduzione reale dei marmi che rappresentano nella loro fragilità la magnificenza degli antichi. Una nuova Venere di Milo, con pelle candida e una posa che esprime sicurezza, determinazione. La seconda invece richiama l’atmosfera Freak, il suo esporsi al pubblico per il fatto di rappresentare l’alternativa a ciò che le persone considerano normale, un corpo che attira l’attenzione per la sua particolarità333.

Duffy vuole essere guardata, e soprattutto ascoltata: la sua performance diventa un dialogo con lo spettatore, un’occasione per esprimere il suo pensiero e i suoi desideri. In un’intervista spiega che per anni non ha avuto la possibilità di controbattere le scelte imposte dagli altri, i dottori parlavano di lei e del suo futuro senza coinvolgerla, come se fosse un semplice caso da analizzare, si sentiva invisibile334. La sua arte è un modo per comunicare e per attirare l’attenzione che non le è mai stata dedicata in passato, per essere considerata finalmente una persona.

Le sue performance, come quelle di Carrie Sandhal335, nascono dal movimento artistico femminile degli anni Settanta, periodo in cui artiste come Carolee Schneeman, Hannan Wilke, Adrian Piper si esibivano per proporre al pubblico un nuovo modo di concepire il corpo femminile in arte e di conseguenza nella società336. Anche Carrie Sandhal nella sua performance The reciprocal gaze, del 1999, mette in discussione il modello medico della disabilità: «She invites her audience to examine and read her medical history, and in so doing

questions the cultural positioning of her own body as a medical specimen»337, attraverso la rappresentazione delle operazioni chirurgiche subite e le domande, le quali Duffy, è costretta

331 Cfr., Millet-Gallant, The disabled body, cit., p. 39 . 332 Garland-Thomson, Staring back, cit., p.337. 333 Cfr., Ibidem.

334 Cfr., Mitchell, Snyder, Vital signs, cit. http://medhum.med.nyu.edu/view/10094. 335 Cfr., secondo capitolo.

336 Cfr., Millet-Gallant, The disabled body, p. 38. 337 Eisenhauer, Just looking, cit., p.13

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ad ascoltare nella vita quotidiana, invita ad osservare la sua storia clinica per esprimere i limiti del modello medico338.

By manipulating the stare-and-tell ritual so fundamental to disability experience, Duffy mounts a critique of the politics of appearance and an inquiry into what it means to be an embodied person. Her selfrepresentation raises the issue of what is appropriate looking,

queries what constitutes beauty, and asks what is the truth of the body339.

Mary Duffy, con la sua arte, critica la cultura dominante e la conseguente politica dell’apparenza; attraverso il corpo si inserisce nelle dinamiche dello sguardo, del muto dialogo tra spettatore e artista. La sua performance risponde a tutti i quesiti sulla sua esperienza individuale, soprattutto mette in discussione i concetti cardini su cui si basano gli ideali di normalità e di bellezza. Rappresenta un nuovo modello in cui tutte le persone con disabilità si immedesimano e trovano il coraggio e la forza per imporsi sulla società per renderla maggiormente inclusiva. Per Duffy la disabilità non è una mancanza ma una risorsa. Come recita anche nella sua performance più nota, il suo corpo è quello che doveva essere, è adatto a lei, ha imparato a conoscerlo, a capirlo, sfruttando le mancanze per trovare un modo alternativo per preservare la sua indipendenza e la sua individualità.

338 Cfr., Eisenhauer, Just looking, cit., p.13 339 Garland-Thomson, Staring back, cit., p. 337

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