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Joseph Pine e James Gilmore, nel loro “L’economia delle esperienze”, sostengono che, una volta giunta a maturità l’economia delle esperienze, è tempo di passare all’economia delle trasformazioni (Pine & Gilmore, 2000). Quella trasformazione di cui parla anche Kotler, per giustificare la trattazione di un marketing che definisce 3.0, in cui le imprese offrono un’esperienza in grado di cambiare la vita del consumatore. Un marketing che si preoccupa di cambiare il modo in cui le persone fanno le cose nella loro vita quotidiana. Per intenderci, un po’ quello che ha fatto Steve Jobs con l’iPod e l’iPhone.

Il Marketing 3.0 è un’espressione volutamente coniata, per l’appunto, da Philip Kotler, guru e padre del marketing moderno, che definisce così la maturazione concettuale del marketing. Il marketing che stiamo vivendo ora. La cosa più interessante, rispetto al ragionamento di Kotler, è la profondità con cui si vanno a scavare alcuni elementi che

caratterizzano la nostra epoca, senza mai soffermarsi alla superficie. Un po’ lo stesso slancio che il marketing sta avendo o quantomeno ricercando: “[…] il marketing si trova

dunque di fronte al cambiamento più radicale della sua storia, una trasformazione che non sarà né facile né breve, come tutte le “rivoluzioni culturali” che si sono succedute nel mondo.

Se le imprese dovranno realizzare prodotti e servizi sempre più capaci di soddisfare le esigenze profonde di partecipazione, creatività, comunità e idealismo dei consumatori – anzi, delle persone -, i modelli organizzativi sin qui applicati dovranno essere rivisti da cima a fondo al fine di renderli idonei a operare nella nuova realtà” (Kotler, Kartajaya,

& Setiawan, 2010). Il marketing 3.0 continua ad avere come obbiettivo primario quello di soddisfare il consumatore ma ciò che lo differenzia, ciò che distingue le imprese che lo applicano, è il fatto che le stesse possiedano anche la missione, la visione e i valori finalizzati a dare un contributo al mondo. Si vogliono fornire delle soluzioni concrete ai problemi della società. “Il Marketing 3.0 eleva il concetto di marketing alla sfera delle

aspirazioni, dei valori e dello spirito (l’anima) dell’umanità. […] Dunque, il Marketing 3.0 integra marketing emozionale e marketing umano” (Kotler, Kartajaya, & Setiawan,

2010). In altre parole il marketing comincia a delinearsi come una sorta di “buona prassi”. Di fronte alla crisi economica globale, ai cambiamenti sociali e ambientali, le imprese che praticano il marketing forniscono (o dovrebbero fornire) delle risposte ma soprattutto delle ragioni di speranza.

L’elemento di differenziazione è il valore di cui sono portatrici le imprese, dunque. Valore reale e concreto, capace di conseguire sia il massimo di bene comune sia il pieno soddisfacimento degli interessi e delle aspettative dei singoli.

Di pari passo a questa nuovo atteggiamento delle imprese aumenta in maniera consistente, in strati sempre maggiori della popolazione, la sensibilità connessa alla qualità sociale e ambientale delle merci, caratteristiche intimamente legate al successivo atto di acquisto e quindi alla sua motivazione. Il consumatore è ormai divenuto autonomo, scrollandosi di dosso la tradizionale sudditanza rispetto alla produzione. È diventato decisamente più critico e quindi predisposto al dialogo e all’instaurarsi di una relazione. È più competente, attraverso la propria esperienza e una cassetta degli attrezzi che mano a mano viene arricchita di nuovi elementi. È di conseguenza molto esigente a livello qualitativo, per ciò che riguarda la strategia di attenzione alle sue esigenze, sapendo districarsi e selezionare in mezzo all’iper-offerta del mercato. Allo stesso tempo ha la capacità di distacco dal mercato, dimostrando un crescente pragmatismo e realismo nei confronti dello stesso. Ma soprattutto, è più responsabile e riflessivo. Due elementi intimamente legati e che si rifanno ad una crescente sensibilità, come detto prima, rispetto ai significati sociali dei

prodotti e al loro riflesso sull’ambiente, una più elevata percezione dell’incertezza e delle paure globali, una sensibilità nei confronti dell’orientamento ecologico e della sostenibilità ambientale più in generale.

Insomma, il consumatore non solo ha consolidato il suo potere contrattuale nei confronti della produzione e rafforzato il suo potere discrezionale di scelta, ma oggi gli viene riconosciuta, sempre più, una conoscenza dei prodotti che acquista e consuma, quantomeno di pari livello a quella del mondo della produzione. Va sempre più prendendo consistenza un consumatore competente e sempre meno legato a logiche finalizzate all’esclusivo aumento del suo potere. Questa nuova coscienza del consumatore, in netto contrasto con l’idea di assoluta passività di cui godeva fino a poco tempo fa, è stata aiutata da una legislazione che ha fatto importanti passi in favore della difesa dei consumatori e da una sensibilità forte dell’opinione pubblica. Il consumatore è divenuto un reale punto di riferimento dialettico, capace di prendere autonomia e distanza, di dotarsi e sapere utilizzare gli strumenti che gli danno modo di contrastare - o di giocare ad armi pari con - la produzione. L’individuo non si sente più il destinatario passivo di una proposta di consumo, soprattutto ora che sempre più inquietanti e imprevedibili scenari futuri stanno prendendo consistenza. L’individuo vuole intervenire anche su questi, inviando segnali precisi sulla salvaguardia dell’ambiente. L’attenzione nei confronti dell’eticità dei comportamenti all’interno delle imprese cresce, così come l’attenzione sulla correttezza dei rapporti di lavoro fino ad ampliarsi all’attenzione nei confronti delle zone del mondo da cui provengono le materie prime.

Giovanna Gadotti si pone un’interessante quesito, in questo caso retorico: “Occorre

nuovamente chiedersi se tale crescente attenzione alla valenza etica dei prodotti e il loro consumo critico sia una moda […] o piuttosto l’indicatore di una “mobilitazione invisibile” capace cioè di una trasformazione profonda del mondo del consumo e i suoi significati […]. In tal caso avrebbe senso chiedersi se ci troviamo di fronte a nuove modalità di partecipazione che si attuano attraverso pratiche di consumo basate su un senso di solidarietà e di ‘appartenenza comunitaria’” (Gadotti, 2006). Sembra dunque

che gli atti di consumi si colorino di valenze etiche, scoprendo i vantaggi collettivi di agire per il bene comune. Questa nuova sensibilità è un elemento di rottura con il passato e si concretizza in una attenzione crescente alle azioni che permettono di evitare lo spreco, alle forme di raccolta differenziata, all’interesse e predilezione proprio verso quelle imprese che sono socialmente responsabili nei fatti e non solo nelle parole. Il bisogno edonistico, ego riferito da sempre associato al consumo viene meno o, per meglio dire, ne viene delegittimato il ruolo primario. C’è sicuramente una componente egoistica nel comportamento altruista, ma in questo caso tale soddisfazione o piacere personale si

traduce nella consapevolezza che le proprie scelte possono influire sulla qualità della vita e sull’esistenza stessa di molti altri soggetti e, dunque, nel piacere di mettere in atto comportamenti a tutela del proprio e dell’altrui ambiente. Fabris, a tal proposito, si esprime in questo modo: “L’emergere di un consumatore critico rientra a pieno titolo in

questa nuova sensibilità etica. Critico vuol dire guardare oltre. Estendere l’orizzonte al di là del tradizionale repertorio dei significati tangibili e intangibili dei prodotti sino a investire il mondo delle responsabilità sociali di chi produce. Critico non significa oppositivo, antagonista. Sottende, semmai, la richiesta di confrontarsi con la marca, e di valutarla, anche su dimensioni diverse da quelle abituali. Significa anche l’assunzione, in prima persona, di responsabilità sociali e non soltanto la richiesta alla marca di agire in tal senso.” (Fabris, 2010). Anche in questo caso dunque, una dinamica virtuosa in cui

nessuno può esimersi da responsabilità. Consumatori e produttori sono attori di uno stesso sistema e agiscono sullo stesso piano. Il consumatore in particolare, consapevole del proprio potere e dei propri diritti, non ha paura e non si sottrae ai propri doveri e alle proprie responsabilità, compiendo scelte critiche. Non c’è paura a penalizzare le imprese che non sottostanno alla sostenibilità di marchi e prodotti, eticamente non qualificati. L’edonismo tipico della società dei consumi, assume nuove caratteristiche e sfumature. Il consumo perde il suo ruolo di fonte di appagamento principale, si spoglia delle sue caratteristiche più ciniche per essere affiancato dal piacere della rinuncia, della procrastinazione. Il piacere di vivere in un ambiente ecologicamente confortevole. “Edonismo oggi coesiste con un costante confrontarsi con i nuovi principi di realtà che

indicano che l’eccesso, con tutti i suoi corollari, contraddice l’idea stessa di piacere”

(Fabris, 2010).