CREARE VALORE ATTRAVERSO IL MARKETING INTERNO
Il modello di marketing interno visto fino ad ora, compresi i suoi aspetti pratici, ci è servito per comprendere quali siano le politiche che l’organizzazione deve porre in essere per far sì che le proprie risorse umane marcino nella giusta direzione e si comportino in maniera corretta. Non ci rimane quindi che trattare due particolari argomenti.
• Cosa vuol dire marciare nella giusta direzione e comportarsi in modo corretto.
• Dove ci si deve dirigere (e ciò lo esamineremo nel prossimo paragrafo).
Qualsiasi missione si dia un’impresa, qualsiasi visione essa abbia, qualsiasi tipologia di valori (morali, ecc.) essa incarni e qualsiasi struttura, piano e pratica essa adotti, il suo fine ultimo sarà quello di creare valore. Per la sua clientela, ma anche, e soprattutto, per se stessa. Per un’impresa capitalistica ciò vorrà dire guadagnare quanto basta per continuare il proprio operato (gli utili, infatti, le serviranno
per gli investimenti, per la remunerazione dei proprietari, siano essi o no degli azionisti); d’altronde, per un’impresa del cosiddetto terzo settore (il settore no profit), creare valore vorrà dire soddisfare le esigenze ultime dei propri “clienti” utilizzando fino all’ultimo centesimo le proprie risorse economiche. Un’impresa che non riesca a creare valore attraverso i suoi prodotti, è destinata a fallire. Infatti, creare valore non vuol dire semplicemente riuscire a produrre un output da vari input, ma affinché ciò avvenga, è necessario che questi output abbiano un mercato che dimostri di saperli apprezzare.
Se questo è il fine ultimo dell’impresa, ciò vuol dire che ogni azione da lei intrapresa dovrà essere vista nell’ottica della creazione del valore, e, addirittura, della massimizzazione nella creazione del valore. Anche il marketing interno, essendo formato da una serie di politiche messe in atto dall’organizzazione, non potrà esimersi dall’essere uno strumento di valorizzazione dell’impresa.
La differenza che, da questo punto di vista, passa tra marketing interno e tutte le altre politiche dell’impresa, compresa quella di marketing esterno, è però notevole. Se volessimo racchiudere questa differenza in uno statement (che ha il sapore di uno slogan, ma che fa capire senza equivoci quale sia il senso del discorso), si potrebbe dire:
il marketing interno non deve aiutare le risorse umane a creare maggior valore (cosa che, di fatto, è lasciata ad altre politiche imprenditoriali quali la formazione), ma deve aiutare loro a diventare, giorno dopo giorno, dei creatori di valore. In altri termini, e con un altro slogan, si potrebbe affermare che il marketing interno non deve aiutare il lavoratore a fare carriera, ma a reinventare continuamente la propria carriera.
CREARE VALORE ED ESSERE UN CREATORE DI VALORE
La differenza, tra i due concetti di creazione del valore e di trasformazione in creatori di valore, può apparire solo un sofisma linguistico; in realtà non è così. La distanza tra questi due concetti non potrebbe essere più ampia. Inoltre sono due concetti logicamente non assimilabili, dato che si trovano su due piani diversi e che, scendendo un po’ più in dettaglio, uno implica l’altro. Infatti, bisogna essere dei creatori di valore per creare del valore.
Questa differenza è la stessa che passa tra due dei possibili problemi che si può porre un soggetto che ha ricevuto l’incarico di svolgere un compito: uno sarà “cosa fare”, l’altro sarà “come farlo”. Il primo problema se lo porrà un soggetto cui è stato insegnato come creare
valore; in effetti, ci potrebbero essere varie possibilità, più o meno ottimali, di svolgimento di un dato compito (il cosa fare, o scegliere).
La seconda domanda se la porrà invece chi sarà preoccupato, una volta che è stata scelta la via ottimale, di capire quali sono le modalità ottimali per seguire quella via; cioè sarà preoccupato di capire come si può creare il maggior valore possibile, semplicemente seguendo quella data scelta (il come fare, appunto). Costui sarà il vero creatore di valore; fine ultimo di costui non sarà svolgere un compito, bensì fornire un determinato, utile e tempestivo servizio.
Il motivo per il quale il primo soggetto non è un creatore di valore, a differenza del secondo, è presto detto: tutte le possibili scelte davanti alle quali si ritrova un membro dell’organizzazione sono, almeno in potenza, in grado di creare valore, purché i piani e, soprattutto, le pratiche adottate all’interno della stessa organizzazione siano concepite e redatte in maniera corretta. Quindi i problemi conseguenti al fallimento di una determinata azione non possono essere solamente ricercati nell’aver fatto la scelta sbagliata, ma sarà necessario anche chiedersi se quell’azione, svolta secondo canoni diversi, avrebbe portato al medesimo risultato, oppure se avrebbe avuto effetti più positivi.
La disciplina del marketing interno, vista nell’ottica della formazione di creatori di valore, parte dal presupposto che il secondo dilemma di cui sopra abbia risposta positiva.
Ciò detto ci si può chiedere quali siano questi canoni ottimali di svolgimento di un servizio. Una delle cose su cui si è insistito finora è stata la necessità di cambiare il modo di considerare ogni individuo dell’organizzazione; in particolare si è affermato che era necessario trasformarlo da semplice dipendente a fornitore/fruitore di servizi, da semplice subordinato a gestore di possibili relazioni con tutti i restanti membri dell’organizzazione (leader e manager compresi).
Questo cambiamento di ottica implica un totale ripensamento di atteggiamento e abilità, giacché talvolta dovranno essere acquisite nuove competenze da parte dei fornitori e, nello stesso tempo, una maggiore consapevolezza da parte dei fruitori di ogni singolo servizio.
LA PARTE DEI FORNITORI: CAMBIAMENTO DI CONSAPEVOLEZZA E ABILITÀ
Il marketing esterno ha avuto il pregio di forzare un cambiamento nelle aziende che probabilmente non sarebbe mai avvenuto:
l’avvicendamento, tra abbattimento dei costi e ascolto del cliente, al vertice delle politiche aziendali. L’ascolto del cliente ha provocato vari stravolgimenti all’interno dell’impresa: ha costretto la stessa a dare molta più importanza alle funzioni di confine rispetto ai periodi precedenti, il che ha significato dover formare le proprie risorse, poste in quegli ambiti, secondo criteri totalmente diversi. In particolare si è dovuto far sì che queste risorse imparassero a fornire dei feedback non solo numerici (la quantità venduta per esempio), ma anche qualitativi (le proprie impressioni sulla soddisfazione dei clienti) sul proprio operato; si è dovuto insegnare agli addetti al marketing (che nel frattempo stava diventando una branca completamente sciolta dalla funzione vendite) a reinterpretare questi risultati e a fornire risposte puntuali sull’effettiva competitività dei prodotti, ancora, si è dovuto loro insegnare a comunicare ciò alla funzione di produzione, e a
quest’ultima si è dovuto insegnare ad ascoltare i suggerimenti che venivano dal marketing.
Come si vede ognuna di queste diverse politiche delle risorse umane implicava una calibrazione e un adattamento sia delle abilità sia della consapevolezza. L’accresciuta importanza delle informazioni e la necessità del continuo cambiamento, in base ad esse, di ogni aspetto della vita dell’impresa, fa sì che queste politiche oggi debbano essere strutturate in modo da rendere tutti continuamente pronti al cambiamento. È per questo che oggi le politiche di marketing interno sono diventate una necessità: ogni fornitore di servizi deve essere, infatti, pronto ad applicare le scelte migliori (quindi deve continuamente ingrandire la sfera delle proprie competenze a seconda dei problemi che gli si parano davanti) nel modo migliore (deve quindi essere capace di assumere la totale consapevolezza di operare per uno o più individui che potranno avere necessità sempre diverse).
Il marketing interno dovrà forzare in lui un cambiamento specifico:
dovrà riuscire a fargli gestire il proprio lavoro come se esso dovesse essere reinventato ogni momento per ogni proprio collega di lavoro.
La difficoltà che trovano queste idee, è la quasi assoluta indisponibilità dei vertici burocratici dell’impresa ad accettarle.
LA PARTE DEI CLIENTI/FRUITORI: L’AUMENTO DI CONSAPEVOLEZZA DELLE PROPRIE NECESSITÀ E DI ABILITÀ E IL CAMBIAMENTO DEGLI
ATTEGGIAMENTI
Una cosa è però necessaria affinché le politiche di marketing interno abbiano successo. Che anche i clienti interni facciano la propria parte.
È, infatti, scontata la considerazione che un individuo non potrà fornire il massimo valore possibile con il suo operato se il proprio cliente non è consapevole delle proprie necessità; sarebbe come chiedere ad un laureato in lettere classiche di decidere quale tra i due reattori nucleari è il più adatto alle proprie esigenze. La risposta di tale individuo non potrà che essere affetta da incompetenza e, al limite, da inesperienza.
Affinché un individuo diventi consapevole delle proprie necessità, è necessario che egli espanda la propria sfera di abilità fino ad incorporare tutti gli aspetti di sua competenza; ma questo è solo il primo passo, perché egli dovrà essere capace anche di esternalizzare queste competenze e renderle conoscibili al proprio fornitore di servizi, di modo che quest’ultimo possa poi comportarsi in maniera ottimale. Questo passaggio deve essere assolutamente rispettato se si
vuole che le politiche di marketing interno funzionino al meglio;
infatti, per fare un paragone con la disciplina del marketing esterno, è come se un cliente non attivasse un processo di feedback nei confronti del proprio fornitore, se ciò succede il fornitore non saprebbe come può migliorare i propri prodotti. Il cambiamento di atteggiamenti deve intervenire in questo momento, infatti, tutti i clienti interni devono essere pronti a dialogare con i propri fornitori, e questo dialogo deve essere basato su conoscenze che entrambi devono possedere (altrimenti, semplicemente, non si capirebbero).
Ritorniamo quindi al concetto sviluppato nel capitolo 1 in cui si descriveva la necessità di costruire una rete di relazioni che avviluppasse tutte le posizioni dell’impresa. Allora il discorso era però rimasto piuttosto sterile, in quanto non si capiva quali fossero i meccanismi che il marketing interno doveva utilizzare per apportare questa rivoluzione nell’ambiente lavorativo. Ora sappiamo anche quali sono le informazioni che ci servono per comunicare proficuamente con i propri colleghi e sappiamo come orientare le nostre scelte professionali.
UNA NUOVA FRONTIERA SI APRE: LA SFIDA DEI DESIDERI NON SODDISFATTI
Fino ad ora ci siamo messi da un particolare punto di vista:
quello dell’organizzazione; ora ci possiamo chiedere cosa significa tutto ciò per un singolo individuo, e perché per lui questo modo di produrre servizi può essere il migliore. La risposta a tutte queste domande sta nella considerazione che le politiche di marketing interno tendono a far diventare ogni risorsa unica e irripetibile, dato che essa seguirà un percorso formativo personale fatto sì di corsi formativi seguiti in comune con altri membri dell’organizzazione, ma anche di esperienze lavorative e, soprattutto, comunicative che non potranno essere replicate in futuro. Ognuna di queste esperienze dovrà essere indirizzata all’individuo in modo che egli possa chiedersi sempre se esiste una maniera ottimale di svolgere una data pratica dell’impresa.
Porre ogni risorsa in quest’ottica, fin dal primo giorno di lavoro, significa farla impegnare al massimo delle sue forze, non per finire un dato compito, ma per soddisfare date necessità.
Se ciò è corretto, allora il vero traguardo che si pone un individuo inserito in un’organizzazione che svolge politiche di marketing interno orientate alla creazione del valore sarà di soddisfare esigenze ancora
non soddisfatte. Questo è l’unico metodo oggettivamente valido per capire se un individuo riesce bene nel suo lavoro; far sì che egli stesso si chieda se i servizi che fornisce sono ottimali, oppure se non sarebbe in grado di svolgere meglio altri servizi. In altre parole ciò significa possedere, in tempi turbolenti in cui i cambiamenti arrivano repentinamente e senza preavviso, risorse umane in grado di adattarsi continuamente alle nuove esigenze, risorse umane, cioè, in grado di reinventare continuamente il proprio lavoro e la propria carriera.
LO SCOPO ULTIMO DEL MARKETING INTERNO: LA CREAZIONE DI UNA LEARNING ORGANIZATION
Una delle tecniche manageriali più apprezzate, ai nostri giorni, è quella del MBWA ovvero del management by wandering around (ovvero del dirigere andando in giro). Questa tecnica, introdotta da Walt Disney (Tom Peters: “Liberation management”; Londra, 1992;
tratto da Pier Mario Vello: “Da reattivi a creativi: come realizzare una learning organization”; Franco Angeli, 1995), è basata sull’interesse del manager non a farsi arrivare le informazioni e a lanciare feedback dal proprio posto di lavoro tramite freddi messaggi, ma a “consumare scarpe” a andando avanti e indietro per l’azienda alla ricerca continua
di problemi che devono essere risolti. Questa tecnica ha due grossi vantaggi:
favorisce la diminuzione della distanza gerarchica tra vertice e base aziendale e, contemporaneamente, non diminuisce lo spazio di iniziativa della base, dato che quella del capo non è una semplice attività di controllo fine a se stessa, ma è un’attività di sostegno mirata all’aiuto della base nel caso in cui essa si trovi in difficoltà;
favorisce la rapida e certa diffusione e la corretta somatizzazione delle conoscenze e dei valori lungo tutto l’arco imprenditoriale.
Il MBWA si connette molto strettamente alle nostre considerazioni, soprattutto per ciò che riguarda le finalità del marketing interno.
Sarebbe infatti inutile se le politiche di marketing interno fossero adottate solo per rendere felici più o meno tutti all’interno dell’organizzazione. Come abbiamo già detto, infatti, il marketing interno non si può permettere di seguire tutte le richieste degli individui interni all’organizzazione (a differenza del suo parente stretto marketing esterno), altrimenti sarebbe facile diagnosticare la fine repentina dell’organizzazione. Ma le richieste dei membri dell’organizzazione vanno mediate, o meglio indirizzate verso quelle che sono le finalità dell’organizzazione.
Oggi è quanto mai necessario riuscire a creare un’organizzazione nella quale i processi creativi siano ampiamente diffusi, e non rinchiusi tra i vari processi mentali di qualche manager; è inoltre necessario cambiare l’organizzazione in modo da rendere la sua struttura coerente con i continui cambiamenti che le si parano davanti, ossia renderla capace di anticipare il cambiamento e fare in modo che non lo subisca (attraverso cambiamenti repentini gestiti “per catastrofi” o, anche, senza un’adeguata programmazione). Ognuna di queste rivoluzioni è stata internalizzata da una particolare teoria dell’impresa che prevede la trasformazione della stessa da un’impresa che apprende a fare ad un’impresa che apprende ad apprendere attraverso gli stadi dell’apprendimento a migliorare e dell’apprendimento a cooperare. A questa particolare impresa è stato attribuito il nome di learning organization.
IL NUOVO RUOLO DELLA CONOSCENZA
Tutto ciò che è stato fino ad ora affermato risulterà più chiaro se si pensa al significato della parola conoscenza. In effetti, la conoscenza, dal punto di vista di un’impresa, può essere vista come forma di sapere composta da informazioni effettivamente possedute,
consapevolezza, abilità, atteggiamenti. In sostanza, dalle quattro leve di marketing interno che sono state descritte nel capitolo terzo. Un corretto apprendimento, nel campo imprenditoriale, non può tralasciare lo sviluppo di nessuna di queste dimensioni del sapere.
Innanzitutto i membri di un’organizzazione conoscono un dato business in misura direttamente proporzionale rispetto al numero delle informazioni che arrivano loro dalle funzioni di confine, ma anche da altri mezzi di informazione. Il vero problema delle organizzazioni, però, è che nessuna organizzazione può ottenere, o al limite non può permettersi di ottenere, tutte le informazioni disponibili su ogni determinato aspetto della vita imprenditoriale. Ciò, infatti, richiederebbe sprechi di tempo e di risorse tali da mettere velocemente e definitivamente l’impresa fuori dal mercato.
Per supplire alla carenza di informazioni, è necessario integrare le poche effettive notizie con altre forme di sapere che possono derivare volta per volta da una sintesi personale delle informazioni stesse (la consapevolezza), oppure da precedenti esperienze assimilabili alla situazione attuale (le abilità). A loro volta gli atteggiamenti rientrano in gioco se si pensa che, al fine di creare una learning organization, non basta sapere. Per poter apprendere ad apprendere, infatti, è
necessario anche che il sapere venga diffuso su tutta l’organizzazione.
Dato che però ciò è impossibile da compiere, la soluzione ottimale è far sì che ogni volta che viene attivato un flusso comunicazionale esso venga poi gestito nell’ottica dello scambio completo delle informazioni che sono di comune interesse a colui che questo scambio attiva e a colui che questo scambio si trova ad accettare. L’importanza della somatizzazione di atteggiamenti corretti in vista dell’attivazione di canali di comunicazione diventa allora una regola organizzativa di buonsenso: operare in modo che nessuno degli individui inseriti nell’organizzazione possa rinunciare a collaborare con i propri colleghi, significa aver diffuso le conoscenze.
Oltre che una dimensione operativa, allora, le quattro A del marketing interno assumono una dimensione strategica essenziale ai fini di una rivoluzione totale all’interno dell’azienda.
CHE COS’È UNA LEARNING ORGANIZATION
Gli step che conducono un’azienda normale lungo la via della learning organization sono questi: imparare a fare, imparare a migliorare, imparare a collaborare, imparare ad apprendere. Si può notare che in ognuno di questi passaggi entrano in gioco un poco alla volta tutti i concetti fino ad ora spiegati. Per imparare a fare sarà necessario possedere delle informazioni e delle abilità; non sarà possibile imparare a migliorare se non si possederà la consapevolezza di ciò che si fa e come lo si potrebbe fare meglio; imparare a migliorare, quindi, richiede ulteriori informazioni e ulteriori abilità. Imparare a collaborare implica che gli atteggiamenti disfattivi o comunque
egoistici vengano lasciati da parte; d’altra parte per collaborare si
A p p r e n d e r e a f a r e
A p p r e n d e r e a c o o p e r a r e A p p r e n d e r e a d a p p r e n d e r e
A p p r e n d e r e a m i g l i o r a r e
F i g u r a 1 : g l i s t e p v e r s o l a le a r n i n g o r g a n i z a t i o n
dovranno quanto meno conoscere le basi sulle quali si fonda il lavoro dei propri collaboratori o dei propri colleghi, ciò richiederà un miglioramento dei propri skill e un aumento della consapevolezza di ciò che si compie (in particolare di come ciò che si compie potrà influenzare il lavoro degli altri) nonché delle informazioni in proprio possesso. Infine per creare una learning organization (che impari ad apprendere) sarà necessario massimizzare ognuna di queste dimensioni ed aggiungerne altre due: la rimozione di qualsiasi ostacolo alla libera diffusione delle conoscenze, e l’esplicito incoraggiamento a che ciò avvenga.
Questo perché una learning organization sarà un istituto nel quale verranno soddisfatte tre particolari condizioni.
La prima è una condizione strutturale, ovvero l’intelligenza che essa possiede deve avere una massa critica: vale a dire che il pensiero deve essere diffuso all’interno di essa e non deve essere appannaggio di pochi eletti.
La seconda è una condizione funzionale, ovvero l’intelligenza deve essere esplicata in operazioni visibili tese al raggiungimento della qualità totale.
La terza è una condizione teleonomica, ovvero l’intelligenza deve attivare riflessioni di secondo grado; non sarà allora importante solamente imparare, ma sarà necessario imparare ad apprendere (Pier Mario Vello: op. cit.).
Per ciò che riguarda la prima di queste tre condizioni, essa sarà tanto più facilmente soddisfatta quanto più bassa sarà l’importanza data al fattore gerarchico all’interno dell’impresa e quanto più alta sarà la capacità di interazione tra i diversi membri dell’organizzazione. A questo proposito si potrà dire che la struttura più consona a raggiungere questo obiettivo sarà quella reticolare, nella quale ogni soggetto è, o fa parte di, un nodo che potrà attivare, al momento del bisogno, un canale interattivo con qualsiasi altro nodo dell’organizzazione. Ma essere un’impresa a rete non basta ad affermare di essere una learning organization.
La seconda condizione ci porta a sostenere che in una learning organization l’intelligenza debba essere esplicata dovunque, ed in particolare, nel modo di lavorare. Infatti, solo se tutte le operazioni aziendali saranno compiute in maniera “intelligente”, si potrà dire che si è in presenza di una learning organization. Inoltre la diffusione
dell’intelligenza all’interno dell’organizzazione sarà uno step fondamentale verso la qualità totale.
La terza condizione ci porta a dire che l’intelligenza all’interno dell’organizzazione non deve essere fine a se stessa, ma deve sempre e comunque avere un obiettivo: quello di attivare una seconda fase che
La terza condizione ci porta a dire che l’intelligenza all’interno dell’organizzazione non deve essere fine a se stessa, ma deve sempre e comunque avere un obiettivo: quello di attivare una seconda fase che