Massimo Vico è nato ad Ancona, dove risiede, nel 1949. Di forma-zione tecnica, dopo il collocamento a riposo si è dedicato alla scrittura poetica, soprattutto nel dialetto della sua città. Ha pubblicato Poesie in dialetto anconetano (Versante, Eliografia Moderna Cionna, Falconara Marittima, 2016) insieme a Maria Gabriella Ballarini e la silloge J ultimi e ‘l primo nell’antologia Secondo repertorio di poesia contemporanea (Arci-pelago Itaca, Osimo, 2018).
In relazione a gran parte della tradizione dialettale di Ancona, basata su un vigoroso contrasto tra comicità e sentimentalismo, la poesia di Vico rappresenta invece l’altro lato dell’anconetanità, garbata, introver-sa e signorile e da poeta egli vive una condizione squisitamente apparta-ta, che in genere è una caratteristica comune ai marchigiani.
In questa ottica è fondamentale il rapporto che Vico stabilisce con la sua città, ripercorrendola nei vicoli, nelle piazzette, negli scorci rivi-sti come frammenti che rispecchiano il suo paesaggio interiore. Anche gli elementi con architetture più maestose non vengono enfatizzati e gonfiati di retorica, ma visti nella loro essenzialità e nella sapienza delle forme. Mentre altri autori giocano sulla metafora tra dato esterno e interno, lui si limita a descrivere, con linee brevi e nette, tracciando il profilo di una città dell’anima che vista nel suo insieme appare rarefatta, perché il poeta passa rapidamente da un luogo all’altro per cogliere dei sensi lasciati però allo stato embrionale.
Vico non tende mai a fornire una risposta al lettore, ma lo stimola ad avere un atteggiamento autentico di fronte alle cose, offrendo una pos-sibilità di interpretazione personale e sgombra da luoghi comuni. Così nella visione del mondo, ma anche nel linguaggio asciutto e delicato con cui lo esprime. Questo suo vedere la città per frammenti lo porta a una scrittura fatta di segni lievi e dunque anche il ritmo, piano e nitido, è funzionale alla comunicazione poetica e molto spesso, quando Vico pausa le descrizioni lasciandole in sospeso, invita il lettore a elaborare una propria interpretazione. Non si tratta quindi di una
rappresenta-zione compiaciuta, ma dell’occasione per porre ulteriori domande alle quali l’autore evita di dare risposta. Questo perché egli è consapevole che la verità non è pienamente comprensibile né tantomeno comuni-cabile attraverso le parole, le quali raramente esauriscono il significato.
È invece la rivisitazione dei luoghi da cui emergono queste domande l’obiettivo del poeta; ma pur frenando la sua ricerca metafisica, non di rado di fronte a certi momenti di intensa esperienza contemplativa, non rimane indifferente alle varie occasioni di bellezza e le risposte di stupo-re vengono espstupo-resse nuovamente in forma interrogativa: «una ròba nun zo / sarà ‘na libertà / o solo cunfusió?» (panta rei). In quei momenti in cui l’autore sembra cedere alla commozione interviene con una vena di ironia e sarcasmo, mostrando pudore nell’esprimere i sentimenti.
La città di Ancona nel suo groviglio di vie configura un labirinto esistenziale che causa una sensazione di smarrimento e di impossibilità di fuga. In questo dedalo inestricabile il dialogo con il paesaggio e con le persone diventa un monologo perché il poeta si trova in uno stato di solitudine totale. Allora Vico scorge spiragli e squarci nella visione del mare, il cui confine si sposta negli spazi del cielo non per un indugio metafisico, ma per aprirsi alla meraviglia.
La scrittura di Vico è molto calibrata e il tono talvolta appare pacato e perfino sommesso, però il poeta muove improvvisamente la scrittura con invenzioni lessicali inedite quali “celestinava”, “prencipiava a serà”
e con accorpamenti di parole che risultano essere dei composti come
“poveramoremio”, “manamà” e “grigiozózo”, che rivelano la capacità di creare suggestioni.
Adriano Calavalle, Dune 2, 1989, xilografia a colori, 200x220. Serie Dune/Miraggio, 1-3, 1986-1989.
Da Poesie in dialetto anconetano
stava facendosi sera - non era tutta / ne mancava un poco / non era rossa / colore arancione / sembrava un palloncino / era la luna // a poca distanza dal mare / timida e vergognosa / si lasciava guardare / come una sposa / che prima / di entrare in chiesa / si aggiusta il vestito // il suo velo / arrivava fino / alla spiaggia ormai vuota // ma gli ombrelloni chiusi / non potevano vederlo
legna da arde
so’ legna sciuca tirata su e butata
‘ntel fògo de la vita che brugia lènto che cure su pel muru
…ma che nun za ‘ndo’ ‘ndà
legna da bruciare - sono legna asciutta / presa e gettata / nel fuoco della vita // che arde lentamente // sono una promessa fatta / e non mantenuta / una strada perduta / che non riesco più a ritrovare // sono una parola non detta / quando avrei dovuto dirla / un pezzo di pane che ammuffisce / dentro una credenza / che non si riesce ad aprire // sono rimorso che morde / denti che tagliano in profondità / sono una paurosa lucertola / che corre lungo il muro // …ma che non / sa che direzione prendere
primi de marzo a me che te ‘spetavo e mentre te smiciavo
primi di marzo - povero amore mio / sotto la pioggia / che veniva giù a secchiate / l’ombrello come scudo / contro il vento gelido / cercando di tenerlo / con tutte due le mani / analisi del sangue / che dovevi andare a prendere / con l’ansia che qualcosa / poteva essere cambiato / poi sei ritornata indietro / a me che t’aspettavo / e mentre ti guardavo / mi sei sembrata indifesa / c’è stata poi l’attesa / per l’apertura della busta / lo sguardo tuo frettoloso / che girava quei fogli / per quello che volevo / sentirmi dire da te: / «tranquillo tutto bene»
primi de magio (a lì ‘ndo’ che se giòga)
platani ràgani lucèrtole erba póza rane
‘ntel’altalene fiòli se spigne le pigne séche
‘nte tèra dura se viè paura i dô fratèli se pia per mà chiama ‘na voce tròpo luntano nun ze pò ‘ndà
primi di maggio (al parco giochi) - platani ramarri / lucertole erba / stagno rane / nelle altalene / i bambini si spingono / pigne secche / su terra dura / se avvertono paura / i due fratelli / si prendono per mano / si sente un richiamo / troppo lontano / non si può andare
‘nte la strada ‘na fiòla…
el mare
udurava de vènto el vènto de piòva
‘nte la strada ‘na fiòla giugava da sola a setimana
l’aqua che sguciulava el disegno de géso je scancelava
in strada, una bambina… - il mare / odorava di vento / il vento di pioggia // in strada, una bambina / giocava da sola / al gioco della “settimana” //
l’acqua che cadeva lentamente / il disegno tracciato col gesso / cancellava
giorno prima buràsca
da ‘zuro ‘l cèlo se celestinava finànta che ‘ncuntrava l’urizonte fìta schiéra de nuvoléte bianche
‘n fìla cume cundanati a mòrte el mare da distante ‘zuro ‘céso celèste manamà che s’avanzava a lì vecino a la riva verde grigiozózo e bianco de schiuma de la londa che surmuntava alta la diga nera de ‘guzi scòj d’alga futografi de machinéte nere pruvava a registrà ‘sto panurama ma ‘l mare se muveva respirava nun c’era vèrzo de fisà la scèna
giorno prima, burrasca - da azzurro il cielo diventava celeste / fin dove incontrava l’orizzonte // fitta schiera di piccole nubi bianche / in fila come i condannati a morte // il mare da lontano di un brillante azzurro / celeste man mano che ci si avvicinava a riva // nei pressi proprio della riva verde / grigio sporco e bianco della schiuma // dell’onda che superava alta / la diga nera degli scogli aguzzi e ricoperti di alghe // uomini con le loro macchine fotografiche / provavano a registrare questo panorama //
ma il mare si muoveva respirava / non si riusciva a fissare la scena
Inediti
mese quatro
primavera cià vòja el verde che rigója
‘nti campi e bianco de cerasi e margherite ginèstre che cumincia a da’ fòri de gialo sparzo lì pe’ la strada el lila de j arboli de Giuda
quarto mese - primavera ha voglia di esplodere // il verde rigoglioso / dei campi e il bianco / di ciliegi e margherite // le ginestre iniziano / a colorarsi di giallo // distribuito lungo la strada / il color lilla degli alberi di Giuda
panta rei
el fiume scóre anza dòpo anza cuscì la vita anzia dòpo anzia
‘riverà ‘ntel zuo mare una ròba nun zo sarà ‘na libertà o solo cunfusió?
panta rei - il fiume scorre / ansa dopo ansa // così la vita / ansia dopo ansia / arriverà al suo mare // una cosa non so / sarà una libertà / o sola-mente confusione?
n’el zo!
‘ntel parco guasi sera
caminavo i penzieri el zole se ‘grapava
‘nte le case più alte pur de nun scumparì
‘n murmurà de voci sopro ‘l bordo de j arboli
‘n inzistito refrè po’ ‘l giardì s’è svutato
e ‘na pace ‘mpruvisa l’à fata da padró cus’era quel silènzio?
‘l sta’ ferma de tuta la natura?
n’el zo!
ma me sentivo strano natura ‘ncora io è durato ‘n mumènto
‘n gracidà de rana
non lo so! - nel parco / a tramonto inoltrato / camminavo pensieroso //
il sole si aggrappava / alle case più alte / pur di non scomparire definiti-vamente // un brusio di voci // sopra il bordo / degli alberi / un insistito refrain // poi il giardino / si è svuotato / e una pace improvvisa / è scesa // cosa rappresentava quel silenzio? / l’immobilità / di tutta la natura? //
non lo so! // ma mi sentivo strano / anch’io natura // è durato un attimo // il gracidare / di una rana / ha rotto l’incanto.
Adriano Calavalle, Sogno, 1990, acquaforte e acquatinta, 52x50.
Per il volumetto di Luigi Bartolini, “Il panino di raso” (racconto), Urbino, Il Colle 1990, cm. 8x6. In Ralph Jentsch, “I libri d’artista italiani del Novecento”, Catalogo Mostra Museum Modern Art di New York, Torino, Umberto Allemandi 1993.
GERMANA DUCA RUGGERI