Si comincia a parlare di poesia neodialettale intorno alla seconda metà del Novecento quando, in seguito all’avvento della scolarizzazione di massa e della diffusione domestica dei nuovi mezzi di comunicazio-ne, i dialettali, privi di retroterra culturali e liberi da modelli preconfe-zionati di riferimento, hanno iniziato a produrre poesia colta, segnando il definitivo distacco dalla vecchia tradizione popolaresca.
Ombretta Ciurnelli rileva che «Pietro Pancrazi nel 1937 distinse per la prima volta la poesia dialettale da quella in dialetto affermando che
“la prima il suo nutrimento maggiore lo trova in atteggiamenti e sen-timenti connessi al colore esterno e all’ambiente delle parole che usa”, la seconda invece “non accetta il folclore e al dialetto chiede soltanto l’espressione e il suono, la qualità intima che si richiede a ogni altra lingua”».9 Si deve però a Pier Paolo Pasolini, maestro di poesia neodia-lettale con Poesie a Casarsa (1942)10 e autore di studi dialettologici, la prima vera ricognizione sull’argomento con l’antologia Poesia
dialet-9 O. Ciurnelli (a cura di), Dialetto lingua della poesia, Cofine, Roma, 2015.
10 P. P. Pasolini, Poesie a Casarsa, Libreria Antiquaria, Bologna, 1942.
tale del Novecento (1952),11 curata insieme a Mario Dell’Arco. Anche se l’imporsi di schemi socio-economici dominanti stava causando un livellamento linguistico che aveva portato Eugenio Montale e altri a parlare di esaurimento del linguaggio poetico, i neodialettali avevano intuito l’impoverimento della lingua petrarchesca e, favoriti dalla pu-rezza incontaminata del dialetto, non erano stati costretti a ricorrere allo sperimentalismo, ma poterono accedere alla poesia lirica usando direttamente la lingua madre, riformulandola in chiave moderna e del tutto inedita. Lo stesso Montale nell’articolo La musa dialettale12 elogia-va le possibilità espressive del dialetto nella poesia.
Martin Heidegger, scrive ancora la Ciurnelli, «rifiutando la retorica del folclore e della spontaneità, [sentiva nel dialetto] l’eco del linguag-gio originario e non credeva che si potesse parlare di un “maltratta-mento e una deformazione della lingua letteraria e scritta”; il dialetto era per lui “la sorgente misteriosa di ogni lingua” da cui “affluisce a noi tutto ciò che lo spirito della lingua custodisce in sé”».13 Inoltre, sempre secondo Heidegger, la mancanza di basi del pensiero occidentale è do-vuta alla divaricazione linguistica tra l’abitudine d’uso della parola e il suo significato originario.14 Ma se l’italiano mantiene una certa distanza dal referente, non possiamo dire altrettanto per il dialetto, spontaneo e prossimo agli autentici nuclei di significato. Il merito dei neodialettali è stato quello di riuscire a penetrare il tempo, comprenderlo e rein-terpretarlo senza tradirlo. Gianfranco Contini in Letteratura dell’Italia unita 1861-1968 (1968)15 e Pier Vincenzo Mengaldo in Poeti italia-ni del Novecento (1978)16 hanno inserito poeti dialettali come Virgilio Giotti, Delio Tessa, Biagio Marin, Giacomo Noventa, Albino Pierro, Antonio (Tonino) Guerra e Franco Loi accanto a quelli in lingua. Ma è
11 P. P. Pasolini, M. Dell’Arco (a cura di), Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma, 1952.
12 Cfr. E. Montale, La musa dialettale, in «Corriere della sera», 15 gennaio 1953;
ora in idem, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Monda-dori, Milano, 1996.
13 O. Ciurnelli (a cura di), Dialetto lingua della poesia, cit., riprendendo M. Hei-degger, Hebel. L’amico di casa, Aguaplano, Passignano sul Trasimeno, 2012.
14 Cfr. M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1973.
stato Franco Brevini con Poeti dialettali del Novecento (1987)17 a redige-re la più significativa credige-restomazia di poesia neodialettale del Novecento, confermando e suggellando definitivamente le intuizioni pasoliniane.
L’affrancamento della poesia dialettale dalla posizione di subalternità alla quale era stata per lungo tempo relegata dalla critica ha determinato un’apertura. Attualmente il dialetto non è più esclusivamente popolare per l’assottigliamento dei divari sociali. In precedenza, a causa dell’a-nalfabetismo, chi parlava in dialetto non conosceva la lingua; oggi il bilinguismo ha portato addirittura alla nascita di veri e propri idioletti.
Mengaldo ragionando su Pierro parlava di «linguaggio gelosamente in-dividuale, quasi endofasico»18 mentre in generale Maria Corti osserva-va: «Ogni scrittore compromesso con il dialetto crea il suo dialetto, che non è quasi mai quello effettivamente parlato».19 I neodialettali hanno avuto e tuttora conservano la licenza di adattare il parlato alla propria epoca, attraverso uno scavo intimistico che possa trasformare Il dialetto da lingua della realtà a lingua della poesia, come recitava il titolo del vo-lume di Mario Chiesa e Giovanni Tesio (1978).20 Ma quale possibilità di sedimentazione e cristallizzazione hanno gli idioletti in questa società liquida e globalizzata? Probabilmente nessuna, se non limitatamente al singolo autore. Il neodialetto oggi vive in un contesto diverso, tanto-ché risulta spontaneo chiedersi se abbia ancora senso utilizzare questo termine. Ma al di là delle etichette occorre ragionare sulle modalità del fare poetico. Nel nuovo medioevo dell’analfabetismo funzionale la cultura popolare si ritrova immersa nel magma dell’oralità secondaria a causa dai new-media, in una caotica situazione di saturazione informa-tiva, in cui ci si trova continuamente costretti ad assimilare velocemente quantità inverosimili di contenuti provvisori e spesso inattendibili. In virtù dell’ulteriore impoverimento lessicale e morfo-sintattico causato dai linguaggi economici e massmediatici, lo sforzo dei neodialettali non va giudicato negativamente, bensì in qualità di adattamento a categorie
17 F. Brevini (a cura di), Poeti dialettali del Novecento, Einaudi, Torino, 1987; si veda anche idem, Le parole perdute. Dialetti e poesia del nostro secolo, Einaudi, Torino, 1990.
18 P. V. Mengaldo (a cura di), Poeti italiani del Novecento, cit.
19 M. Corti, Nuovi metodi e fantasmi, Feltrinelli, Milano, 1977.
20 M. Chiesa, G. Tesio (a cura di), Il dialetto da lingua della realtà a lingua della poesia, Paravia, Torino, 1978.
che il vecchio dialetto non può esprimere, essendo privo di concetti astratti e delle terminologie settoriali tecnologiche e informatiche. Bre-vini nota che nella continuità tra lingua e società il neoitaliano dimostra un cambio di funzione e un adattamento ai tempi; ma a differenza della poesia in lingua, dove si avverte spesso uno iato, i poeti che adottano il dialetto intendono ricongiungere vita e versi.21 Riplasmare il dialetto significa quindi decodificarlo dal vissuto, frugando nel fondo della co-scienza lirica.
Secondo alcuni, a causa di questo mutamento, il dialetto, non aven-do facoltà di tradurre una realtà intraducibile, è destinato a un lentis-simo tramonto fatto di interferenze, scambi e osmosi, in cui sopravvi-vranno solo alcune strutture. Ma il dialetto è un corpo vivo e pertanto costantemente soggetto a un cambiamento che non rappresenta la sua fine, bensì il suo stesso nutrimento, da valorizzare e sfruttare in fun-zione alle nuove esigenze comunicative. Non si tratta di una semplice operazione linguistica, ma anche antropologica e cognitiva. Come ogni attività umana anche il dialetto si trasforma, altrimenti diventerebbe una lingua morta. È impossibile rimanere nel passato e usare il dialetto degli antenati, che è ormai lingua da museo. Per fare in modo che esso viva è necessario che evolva, parallelamente alle trasformazioni sociali, economiche e culturali. Solo l’intuizione del poeta può manipolare la lingua per tradurre il presente: «La letteratura - osservava Gilles De-leuze - presenta già due aspetti, in quanto opera una decomposizione o distruzione della lingua materna, ma anche l’invenzione di una nuova lingua nella lingua».22 Infatti, secondo una tesi comune ai linguisti del Novecento, il linguaggio è il vero oggetto della poesia e, anziché parlare di morte del dialetto, è necessario capire quale dialetto sia possibile oggi: una lingua ridotta all’osso, alla radice, come quella di Fabio Maria Serpilli - rilevano Franco Loi e Fabio Ciceroni - o primordiale e silla-bata, come quella di Andrea Zanzotto, da cui, afferma lo stesso Serpilli riprendendo l’idea di lingua salvata di Elias Canetti,23 è possibile salvare solo alcuni elementi, mentre il resto è da inventare.
21 Cfr. U. Piersanti (a cura di), Dialetti e poesia. Intervista a Franco Brevini, in «Pe-lagos», anno I - n.1, Edizioni europee, Padova, 1991; cfr. anche F. Brevini, Le parole perdute. Dialetti e poesia del nostro secolo, Einaudi, Torino, 1990.