• Non ci sono risultati.

Meditazione nella Veglia dei Giovani per l’inizio d’Avvento

■Tempio di San Nicolò, 26 novembre 2011

Guardati con amore

I.

Credo che sarebbe stato interessante far scorrere tanti altri cartoncini con i disegni e le parole tracciativi da molti di voi e portati sull’altare nelle cinque ve-glie che abbiamo celebrato in ottobre. Quelli che nel video iniziale abbiamo po-tuto vedere, sia pur rapidamente, ci hanno aiutato, comunque, a comprendere che siamo diversi - anche qui, noi, questa sera -, che abbiamo differenti doman-de, attese, esperienze, sentimenti, convinzioni interiori, situazioni di vita.

Ed è giusto che sia così; e il Signore ci accoglie qui, in questa veglia, ognu-no con la sua storia, segnato dal suo passato e dal suo presente, e con lo sguar-do proteso verso il futuro. Quale futuro? In un cartoncino abbiamo letto: «Chi sono io? Che cosa mi riserva il futuro?».

Forse anche il profeta Isaia davanti alla maestà di Dio che riempiva il tem-pio, di fronte al “tre volte santo”, esclamando - come abbiamo ascoltato - «ohi-mè! io sono perduto», voleva dire: e ora, che cosa mi accadrà? verso dove, ver-so che cosa sarò condotto?

Nella vita di chi riflette, di chi non si abbandona semplicemente e pigra-mente al succedere degli eventi, non possono non sorgere domande. Ne sono apparse varie - lo avete notato - nei cartoncini che abbiamo visto. Veniva chie-sto, per esempio: «Dove sto andando? Credevo di saperlo, ma mi sto muoven-do?». E un altro: «Sono all’altezza?». E ancora: «Come si può superare una pro-va così grande?». In un altro cartoncino era scritto semplicemente: «Perché?».

In un altro: «Ho sete», con disegnata una goccia d’acqua; e anche quest’affer-mazione esprimeva, probabilmente, una intensa domanda. Un altro portava solo un grande punto interrogativo. Un altro era vuoto: tutto nero; era forse la descrizione di come percepiva, in quel momento, la propria vita o il proprio fu-turo chi lo ha consegnato? E nel primo dei due cartoncini che mi sono stati con-segnati qualche momento fa si legge: «Perché sono qui stasera?».

Ma anche dalla scena grandiosa che avvolge il profeta Isaia proviene, an-cora, una domanda: «Chi manderò?». E perfino le parole di Gesù ascoltate nel vangelo iniziano con una domanda (notate: sono le prime parole che Gesù pro-nuncia nel vangelo di Giovanni): «Che cosa cercate?». Cioè: che cosa cerca il

vostro cuore? Verso dove sta andando la vostra vita? Su che cosa si concentra-no i vostri pensieri, a chi si rivolgoconcentra-no i vostri affetti? Quali relazioni conside-rate importanti? E la risposta dei due che lo seguono è, ancora, una domanda:

«Maestro, dove dimori?». Cioè, dov’è la tua casa? Sapendo che la casa è solita-mente luogo in cui si vivono le relazioni; o intendendo il “dimorare” come spa-zio in cui si è davvero se stessi, in cui alcune dimensioni importanti dell’esi-stenza si attuano con naturalezza, con soddisfazione, si dilatano; o spazio in cui alcuni affanni trovano respiro e quiete.

In questo intrecciarsi di domande - le nostre domande e quelle del Signo-re - percepiamo che non è facile coglieSigno-re con immediatezza risposte che con-vincono, o individuare con chiarezza strade rassicuranti.

Ma il vangelo ci ha raccontato anche un susseguirsi di sguardi: Giovanni il Battista “fissa lo sguardo” su Gesù che passa. Gesù “osserva” i due che lo se-guono e dice loro: venite e “vedrete”; e quelli andarono… e “videro” dove egli dimorava. E successivamente Gesù “fissa lo sguardo” su Simone.

Ci sono sguardi che valgono più di risposte elaborate e argomentate;

c’è uno scorgere, un vedere che convince, che entra dentro l’anima, più di lun-ghi discorsi, più di mille racconti o mille spiegazioni.

II.

Che cosa vede, che cosa scorge, che cosa scopre chi accetta l’invito “venite e vedrete”? I due che andarono e videro, «rimasero con lui», ci riferisce concisa-mente Giovanni; il quale annota anche l’ora precisa di quell’incontro, tanto è ri-masto inchiodato nella sua memoria. Un incontro che induce Andrea a raccon-tare al fratello Simone “abbiamo trovato il Messia!”. Addirittura il Messia: il grande atteso, la grande speranza. E lo conduce da Gesù. Il giorno dopo Gesù trova Filippo; gli dice “seguimi” e Filippo lo segue. E lui, trovato a sua volta Na-tanaele, gli dice: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Leg-ge, e i Profeti». E anche Natanaele incontra Gesù e, dopo un’iniziale diffidenza, dichiara: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». E anche a lui Gesù dice: «Seguimi!». E lo segue.

Ma che cos’è questo contagio, questo diffondersi di un’esperienza che non riescono a tenere per sé, questo immediato seguire provocando poi altri incontri che a loro volta divengono sequela? Notiamo che qui non ci sono miracoli, pro-digi, scene stupefacenti. Sembra esserci solo uno sguardo e un invito. Lo com-prendiamo da quanto ci racconta Marco descrivendoci l’incontro tra Gesù e co-lui (Matteo precisa che si tratta di un giovane) che gli chiede che cosa fare «per avere in eredità la vita eterna». Racconta Marco: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un te-soro in cielo; e vieni! Seguimi!”» (Mc 10,21).

L’invito è accompagnato, anzi preceduto, da uno sguardo di amore. Senza quella silenziosa comunicazione di amore - certo, come solo il Cristo sa fare - non aveva senso espropriarsi dei beni («possedeva molti beni», precisa Marco) e unirsi a quello strano gruppo di girovaghi piuttosto squattrinati, sia pur dietro un maestro non privo di fascino.

La precisazione di Marco, cioè lo sguardo di amore sul chiamato, è il segreto di ogni chiamata del Signore e di ogni risposta. E quanti, a questo proposito, cre-do anche qui tra noi, avrebbero da raccontare! E sia chiaro che non parlo solo di preti o consacrati. No, parlo di cristiani, e dunque anche di sposati, di laici, di per-sone che hanno preso sul serio il loro battesimo, il loro essere discepoli di Gesù.

Hanno capito che la propria vita - vita personale, ma anche vita di coppia, vita nella comunità e per la comunità - è avvolta da questo sguardo d’amore del Signore, dalla tenerezza di Dio, dal suo - se posso così esprimermi - gemere con noi quando soffriamo, sussultare di gioia con noi quando siamo contenti, desi-derare con noi quando siamo protesi verso il bene, cercare con noi quando vo-gliamo capire che cosa ci fa essere migliori, trovare con noi quando scopriamo le cose vere, buone e grandi della vita.

Finché non abbiamo compreso - non certo con le sole nostre forze - che vi-viamo sotto lo sguardo d’amore di Dio, “guardàti con amore” da Lui, c’è il ri-schio che Dio sia più un problema che una scoperta, o che continui ad essere una domanda senza mai divenire una risposta.

III.

Forse più di qualcuno, leggendo il titolo del libretto che avete in mano, si sarà chiesto lì per lì se si doveva intendere “guardàti con amore”, o “guàrdati con amore”. Chi ha ideato questo titolo ha furbescamente evitato di chiarire il possi-bile equivoco, e non ha messo l’accento sulla seconda a. Perché abbiamo poi tut-ti capito che andava letto “guardàtut-ti con amore”.

Il guardare se stessi con amore (“guàrdati con amore”) - ne siamo consape-voli - può anche diventare ripiegamento su di sé, scorgendo gli altri solo come funzionali a sé. In realtà, se avvertiamo per davvero lo sguardo di amore del Si-gnore su di noi, se riconosciamo la sua chiamata come un atto di amore, sapre-mo trovare anche il sapre-modo di amare noi stessi, di guardarci con asapre-more: magari, come ci insegna Gesù, ritrovando noi stessi sapendo perderci (cf. Mt 16,25).

Del resto, che la chiamata sia un atto di amore risulta dal fatto che la rispo-sta non è precettata, non è frutto di una costrizione: è libera. Lo comprendiamo ancora dall’episodio della chiamata del giovane ricco; il quale, di fronte al “se-guimi” di Gesù - questa volta cito Matteo - «se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze» (Mt 19,22). Dunque non rispose, se ne andò. “Triste”, forse per-ché capiva che, in fondo, amava le sue ricchezze più di se stesso. In ogni caso, la

risposta, la sequela, se ci fosse stata, doveva essere libera, perché era una rispo-sta d’amore ad un atto di amore. Infatti l’amore, quello vero, non esiste senza li-bertà e nemmeno senza quel coraggio che è richiesto ad ogni scelta libera: scelta in cui non tutto è garantito, messo in sicurezza, nemmeno la propria fedeltà, nemmeno il quotidiano “eccomi”, che è da costruire giorno dopo giorno.

Un amore e una fedeltà che si attuano non in perfetta solitudine, ma nella condivisione, nell’aiuto reciproco, nel portare - come direbbe Paolo - gli uni i pe-si degli altri (cf. Gal 6,2), nel lasciarci accompagnare da chi ha capito, sperimen-tato, vissuto prima, più e meglio di noi. Fratelli e sorelle di cui il Signore ci fa do-no. E che ci sono, ci sono tra noi.

È stato bello, questa sera, leggere alcuni cartoncini. Per esempio: «Tu mi cer-chi sempre! Non rinunci mai a me»; «Sento la tua presenza viva. Sei come un so-le che riscalda la mia anima»; «Ti sento vicino anche se non ne sono degno». Una ha scritto: «Mi sento legata stretta a Dio, come un nodo», disegnando proprio due funi strette in un nodo.

Espressioni, queste, di sentimentalismo religioso, magari passeggero, su-perficiale, discutibile? Certo, il rapporto con Dio non è puro sentimento, ma è fatto anche di convinzioni, di verità accolte e trasformate in scelte di vita. Ab-biamo visto che qualcuno ha scritto (e disegnato): «Il coraggio di andare contro corrente». La risposta fedele alla chiamata spesso è anche sofferenza, combatti-mento, fatica. Ma non è una sorta di freddo adempimento del dovere: è sequela appassionata. La sequela di Cristo, la risposta alla chiamata è passione. In ogni caso, resa possibile dall’esperienza viva di sentirsi “guardàti con amore” da Lui.

Il secondo cartoncino che mi è stato consegnato questa sera ha mostrato una originale riformulazione dell’inizio del vangelo di Giovanni («In principio era il Verbo … e il Verbo era Dio»). C’è scritto: «In principio era l’abbraccio, e l’ab-braccio era Dio». Forse ardito, non certo una traduzione del testo evangelico, ma espressivo. In ogni caso un abbraccio, quello di Dio, che non soffoca, che non op-prime, che non impedisce di crescere; ma che rispetta, che dà fiducia, che dona la vera libertà.

Intervento nell’incontro con gli amministratori locali in occasione del santo Natale

Treviso, Vescovado, 16 dicembre 2011

Desidero ringraziare tutti i presenti per aver accolto questo tradizionale in-vito a scambiarci gli auguri natalizi, accompagnati da qualche semplice rifles-sione, che mi permetto di proporre, non senza - devo dire - qualche interiore im-barazzo. Dovuto, anzitutto, al fatto di rubare tempo prezioso al lavoro di perso-ne che immagino oberate di impegni; e, in secondo luogo, al fatto di trovarmi a rovesciare le parti: nel senso che io dovrei essere qui non a parlare a voi ma ad ascoltare voi; voi che vi trovate ogni giorno ad affrontare una serie di difficili problemi che affliggono la nostra società. Mi riferisco, ovviamente, alla dram-matica situazione economica che caratterizza questo tempo. Avrei bisogno di comprendere meglio da voi, ben più esperti di me, in quale contesto sociale, in quali concrete situazioni di vita, sono chiamato a ripetere oggi ai cristiani di que-ste nostre terre il messaggio del Natale cristiano.

Cerco di superare l’imbarazzo, offrendo qualche semplice considerazione, che ho elaborato anche dialogando con qualcuno che conosce le problematiche più da vicino.

Mi sono chiesto che cosa potrebbe significare interpretare nel segno della speranza cristiana la profonda crisi attuale.

Inizio con il constatare che le ricadute culturali della rivoluzione industria-le, ulteriormente accentuate dalle dinamiche impresse dal vasto fenomeno della globalizzazione, hanno fatto sì che vengano considerati prioritari, talora in for-ma esasperata, i criteri dell’efficienza e dell’efficacia nei vari versanti dell’agire umano: quello scientifico, quello lavorativo, quello sociale, quello riproduttivo, ecc. Perciò tutto viene impostato in relazione alle specializzazioni.

Le diverse attività dell’uomo si attuano a partire dalle specializzazioni; e non solo quelle più strettamente legate al lavoro e alle professioni, che si artico-lano in dimensioni sempre più ristrette e focalizzate, ma anche quelle che po-tremmo chiamare più “naturali”: penso per esempio, al “tempo libero”, il quale non ha più il carattere di uno spazio che aiuta ad armonizzare i tempi e i ritmi fra le sfere diverse di lavoro, riposo, socializzazione, ecc., ma ha assunto una ri-levanza autonoma, un’identità specializzata. Ma sono molte le forme in cui si concretizza il vivere, in cui si condensano le relazioni, che diventano nuclei pre più atomizzati: pensiamo, per esempio, alla casa monofamiliare. La vita sem-bra comporsi di tanti segmenti giustapposti e si fa sempre più frammentata.

C’è da chiedersi se la crisi che stiamo vivendo, quella economica, non sia anch’essa l’esito negativo, forse ineluttabile, di queste tendenze, che vedono il prevalere di un comparto specializzato, di un segmento specifico: in questo

caso la finanza, con il suo impero incontrastato che impone a tutto e a tutti le proprie regole.

Certo, nasce inevitabile la domanda - una domanda che si pongono anche i profani come me - se gli effetti disastrosi di questa crisi non si sarebbero potuti scongiurare qualora, per esempio, alle prime avvisaglie, le Banche Centrali aves-sero imposto paletti e vincoli contro l’ondata speculativa, o qualora si fosaves-sero presi provvedimenti che gli esperti avrebbero dovuto non ignorare. Noi, poco esperti, facciamo fatica a pensare che si sia trattato di un destino ineluttabile, di un processo di cui erano ignote le premesse, le cause, i meccanismi, le conse-guenze. A meno che quanto è accaduto non debba essere considerato frutto di una consorteria finanziaria che in nome dell’efficienza e dell’efficacia diventa il vero “padre e padrone” di tutto.

Ma la finanza è una creazione umana, non appartiene alla natura. È una di-namica costruttiva dell’uomo, forgiata dall’uomo; e se oggi crea così tanti danni significa forse che l’uomo non è stato capace di finalizzarla a “fin di bene”. Pro-babilmente siamo tutti chiamati ad una verifica e ad un discernimento sul “per-ché” questo è accaduto, e ad elaborare una riflessione culturale e comporta-mentale.

Resta il fatto che la gravità di questa crisi, con la necessità di “non poter più far debito” perché non si trova chi lo finanzia o per finanziarlo vuole margini al-tissimi, colpisce tutti i cittadini, e maggiormente i più deboli. Questa è una ra-gione in più non solo per agire più correttamente, ma anche per riflettere. Chie-dendoci, per esempio, se non vi sia stato, da una parte, un eccesso di verticaliz-zazione e specializverticaliz-zazione, e, dall’altra, una insufficiente attenzione sul piano, per così dire, orizzontale o antropologico.

L’eccessiva verticalizzazione ha prodotto il “frutto avvelenato” dell’impero della finanza, che rischia di inaridire tutto perché l’unica trasformazione valida è quella nel numero. Ma la persona non è fatta solo di quantità, non può essere interessata unicamente dalla dimensione numerica: reclama invece (ed è una ri-chiesta che prima o poi emerge) una visione qualitativa.

In ogni caso, la crisi deve far guardare avanti e far inventare soluzioni: que-ste sono, da sempre, frutto della “voglia di fare” propria dell’uomo, non sono ef-fetto delle fredde tecnocrazie finanziarie.

La cultura della specializzazione e della verticalizzazione ha portato a con-siderare il lavoro nella “logica della domanda”: mi sono laureato, ho diritto di trovare occupazione sulla base del mia scelta, del mio indirizzo di studio o di ap-prendimento. Ma le tecnologie e i cambiamenti incessanti e pervasivi che si suc-cedono senza sosta rendono quasi obsolete queste specializzazioni, rendono pre-carie queste tipologie di domanda.

Il lavoro è offerta di quello che ho, di quello che conosco, di quello che vedo utile impiegare, senza pretendere, ma dando. Il diritto al lavoro è contestuale al dovere di applicarmi anche se non perfettamente soddisfatto per la sua precisa

corrispondenza agli studi compiuti. Il lavoro serve per gli altri e solo in funzione dell’utilità per gli altri diventa arricchimento per me. Dico questo ben consapevo-le, peraltro, che non mancano certo molte persone disponibili a svolgere qualun-que lavoro, anche molto lontano dalle competenze acquisite mediante lo studio.

Perciò non vorrei fare un discorso troppo ideale, perché so bene che le si-tuazioni concrete sono fatte di dura realtà e non sempre del compimento di idea-li. Però dobbiamo forse, anche in questo campo, recuperare una grande parola cristiana: il cristiano vede, o contempla, le realtà più importanti dell’esistenza in termini di dono. La vita, gli affetti, le relazioni, le tante esperienze positive che in-tessono l’esistenza sono doni. Dio, per il credente, è soprattutto e fondamental-mente dono. È questa logica, questo contesto, che induce a donare le energie in-tellettuali, fisiche, conoscitive, ambientali, ecc. - il lavoro - per farle fruttare e co-sì realizzare frutti che servono a tutti: agli altri e a me.

So bene che questo approccio “dell’orizzontale” e “del lavoro come offerta”

è esigente, richiede processi formativi. Abbiamo bisogno allora di creare delle opportunità che, ridimensionando anche le legittime aspirazioni personali, in-ducano ciascuno a sentire il valore “antropologico” del lavoro.

Il messaggio natalizio è rivolto agli “uomini di buona volontà”. Anche il rinnovamento sociale ed economico non si esaurisce in sequenze numeriche, ma ha bisogno del “pensare, volere, agire” delle persone, della loro partecipazione, della loro responsabilità.

La dimensione orizzontale che ho richiamato privilegia il locale, quel terri-torio di cui voi siete amministratori - e non per nulla anche la realtà della Chie-sa si compone di parrocchie -. Voi amministrate comunità di persone spesso do-tate di grande “buona volontà”. Lo dimostra la storia di questa terra, che ha crea-to ricchezza e prosperità senza abbandonare il cammino della solidarietà. Anche l’esistenza di un terzo settore molto attivo e diffuso dimostra che si è disposti a muoversi per gli altri non in funzione di un gretto do ut des (uno “scambio di equivalenti”), ma in ragione del dono, della gratuità.

Gli squilibri crescenti che la crisi finanziaria ha ancor più esaltato non si ri-solvono soltanto con misure tecniche, con interventi politici, ma richiedono an-che la buona volontà, la gratuità, l’amore da parte di chi ha qualcosa da offrire:

le proprie braccia, il proprio sapere, il proprio entusiasmo, le proprie risorse.

Certo, ci sono i diritti acquisiti, ma rimanere bloccati solo a rivendicarli, in que-sta epoca in cui cambia il mondo, porta con sé il temibile rischio che le genera-zioni future si trovino impotenti e impoverite a causa dell’egoismo di chi recla-ma oggi il rispetto dei propri diritti senza pensare ad altro.

Mi permetto allora, cari amministratori, con molta umiltà, di invitarvi a chiamare a raccolta gli uomini di buona volontà che ci sono nelle vostre comu-nità, soprattutto i giovani, per invitarli a suggerire “nuovi cantieri di lavoro” ove impegnare le potenzialità latenti, disoccupate, chiuse, chiedendo loro di aprirsi davanti a questa disastrosa emergenza.

Riscopriamo il gusto delle nostre capacità di armonizzare quantità e quali-tà, di rinvigorire il tessuto comunitario, spegnendo le arroganze dell’individua-lismo e aprendosi ad orizzonti ampi e alti. Ritroviamo il senso dell’appartenen-za alle comunità, ma rompendo quella crosta di egoismo che tenta di

Riscopriamo il gusto delle nostre capacità di armonizzare quantità e quali-tà, di rinvigorire il tessuto comunitario, spegnendo le arroganze dell’individua-lismo e aprendosi ad orizzonti ampi e alti. Ritroviamo il senso dell’appartenen-za alle comunità, ma rompendo quella crosta di egoismo che tenta di