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Alla luce di quanto è stato fin qui evidenziato da parte della critica, si può affermare che la ridefinizione della memoria culturale in una prospettiva di genere non è mirata unicamente ad una rivisitazione del passato, ma anche ad una nuova presa di coscienza del presente che, tenendo conto di quelle esperienze che sono state a lungo marginalizzate, possa creare delle nuove basi per il futuro. Tuttavia, bisogna ricordare che tale operazione si inserisce all’interno di quella costante oscillazione tra «volontà di ricordare e recuperare il passato e la necessità di distaccarsene per potere andare oltre»:104 difatti, come è stato a più riprese sottolineato, una reale rielaborazione della memoria individuale e collettiva non può prescindere dalla dialettica tra memoria e oblio, da quella volontà di ricomporre il passato e tentare di riempirne i vuoti e la necessità di dimenticare

101 R. Monticelli, Utopie, teorie critiche e “contromemorie”, in V. Fortunati, G. Golinelli, R. Monticelli (a cura di), op. cit., p. 88.

102 D. Ofer, L. J. Weitzman (a cura di), Donne nell’Olocausto, cit., p. 1. 103 Ibid., p. 2.

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per non incorrere nel pericolo di uno sterile ripiegamento sul ricordo. L’oblio, parafrasando Marc Augé, è necessario sia alla società che all’individuo:105 elogiarlo non significa offendere la memoria né ignorare il ricordo ma riconoscere il rapporto intrinseco che li lega, come quello che unisce indissolubilmente la vita alla morte.106

Partendo dall’analisi di diversi riti praticati in alcune società africane, Augé sottolinea i meccanismi che sono alla base del lavoro di memoria di cui l’oblio è parte integrante. Ricordare o dimenticare, secondo l’antropologo, «c’est faire un travail de jardinier, sélectionner, élaguer. Les souvenirs sont comme les plantes: il y en a qu’il faut éliminer très rapidement pour aider les autres à s’épanouir, à se transformer, à fleurir».107

Questa selezione permette di evitare i pericoli di una memoria satura e, contemporaneamente, di dare spazio alle tracce che restano, quelle, a detta di Augé, che contano: «l’oubli, en somme, est la force vive de la mémoire et le souvenir en est le produit».108 Instaurando un dialogo costante con le teorie sviluppate da Paul Ricoeur (nello specifico quelle di Temps

et récit)109 l’antropologo si prefigge di analizzare le modalità attraverso le quali l’oblio si manifesta, riconoscendo in esso l’operatore principale della messa «en fiction» della vita individuale e collettiva: l’esistenza è difatti considerata da Augé il risultato delle relazioni sottili intrattenute dalla realtà con la finzione, la quale sovrasta i rapporti che ogni individuo stabilisce ogni giorno con gli altri, con la storia e con il mondo circostante,110 tanto da poter affermare che ogni vita umana ha una sua dimensione narrativa. L’idea della vita come racconto sottintende, a detta dell’antropologo, che essa sia frutto della memoria e dell’oblio, «d’un travail de composition et de recomposition qui traduit la tension exercée par l’attente du futur sur l’interprétation du passé».111

Partecipare alla vita degli altri e registrare i loro racconti implica lasciarsi influenzare dagli avvenimenti che li hanno coinvolti, configurare le proprie vite su quelle altrui ma anche dotarle di un senso personale, interpretarle secondo le proprie esigenze: è quello che avviene, afferma

105 Marc Augé, op. cit., p. 7. 106 Ibid., p. 20.

107 Ibid., p. 24. 108

Ibid., p. 30.

109 Paul Ricoeur, Temps et récit, Paris, Points Seuil, 1983. 110 Ibid., pp. 39-49.

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Augé, nel caso dei miti o di alcuni culti pagani che, attraverso il racconto, vengono adattati al presente e alle sue circostanze. Diversi riti africani mostrano in maniera esemplare la tensione tra memoria e attesa del futuro che caratterizza il presente e Augé identifica nelle tre figure del «retour», del «suspens» e del «commencement ou re-commencement»112 che segnano i passaggi di alcuni riti di iniziazione le forme emblematiche dell’oblio che stanno alla base della vita individuale e di quella collettiva:

Le temps social et la durée individuelle sont pris en charge, «travaillés», modelés par les mêmes rites. Mais, pour cette raison même, les significations collective et individuelle de ceux-ci ne coïncident pas nécessairement. La collectivité garde en mémoire les episodes de la possession; l’individu possédé doit les oublier.113

Tale interpretazione conduce l’antropologo a teorizzare l’idea di un «devoir d’oubli»114

che si impone come necessario se si vuole attuare un vero «re- commencement»: il compimento di tale processo si rivela particolarmente fruttuoso per coloro che sono stati vittime degli avvenimenti traumatici del passato, individui sottoposti costantemente «à la présence incessante d’une expérience incommunicable».115 A questa necessità si affianca il dovere di memoria che spetta ai discendenti, alle generazioni future e del quale Augé sottolinea i due aspetti fondanti: il ricordo e la vigilanza.116 In entrambi i casi tuttavia, non si può prescindere da un giusto equilibrio tra memoria e oblio:

112 «Trois “figures” ou formes de l’oubli se laissent percevoir dans certains rites que je qualifierai pour cette raison d’emblématiques. La première est celle du retour dont l’ambition première est de retrouver un passé perdu en oubliant le présent […] pour rétablir une continuité avec le passé plus ancien, éliminer le passé “composé” au profit d’un passé “simple”. […] La deuxième est celle du suspens, dont l’ambition première est de retrouver le présent en le coupant provisoirement du passé et du futur et, plus précisément, en oubliant le futur pour autant que celui-ci s’identifie au retour du passé. […] La troisième est celle du commencement ou, dirons-nous, du re- commencement […] Son ambition est de retrouver le futur en oubliant le passé, de créer les conditions d’une nouvelle naissance qui, par définition, ouvre à tous les avenirs possibles sans en privilégier aucun». Ibid., pp. 76-78.

113 Ibid., p. 79-80. 114

Ibid., p. 119. 115 Ibid., p. 119.

116 «La vigilance, c’est l’actualisation du souvenir, l’effort pour imaginer dans le présent ce qui pourrait ressembler au passé ou mieux (mais seuls les survivants le pourraient et ils sont claque

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L’oubli nous ramène au présent, même s’il se conjugue à tous les temps: au futur, pour vivre le commencement; au présent, pour vivre l’instant; au passé pour vivre le retour; dans tous les cas, pour ne pas répéter. Il faut oublier pour rester présent, oublier pour ne pas mourir, oublier pour rester fidèle.117

Come si è già evidenziato, l’idea di oblio inteso come parte integrante della memoria stessa e come una delle sue condizioni costituisce un nodo cruciale anche del pensiero ricoeuriano. Se il filosofo sottolinea difatti l’importanza del dovere di memoria, egli è altrettanto consapevole che lo spettro di una memoria che non dimentica niente118 potrebbe avere degli esiti dolorosi, se non devastanti. Ricoeur arriva così a teorizzare la necessità del ricorso ad un «oblio di riserva»119 che, superando la minaccia rappresentata dall’«oblio di cancellazione delle tracce»,120 possa contribuire alla nascita di una memoria felice.

Prima di mostrare gli aspetti costitutivi di un oblio indispensabile ai fini del raggiungimento della memoria pacificata, Ricoeur si sofferma sullo studio psicopatologico dei fenomeni di rimozione e di rielaborazione dell’evento traumatico applicabili non soltanto ad esperienze individuali ma anche all’ambito pubblico,121 per poi proseguire l’indagine relativa agli usi e abusi dell’oblio da un punto di vista ideologico. Il filosofo affronta il problema di manipolazione della

jour moins nombreux) pour se rappeler le passé comme un présent, y retourner pour retrouver dans les banalités de la médiocrité ordinaire la forme hideuse de l’innommable». Ibid., p. 111.

117 Ibid., p. 122.

118 «Il nostro famoso dovere di memoria si enuncia come esortazione a non dimenticare. Ma, nello stesso tempo e nella stessa movenza spontanea, noi scarteremmo lo spettro di una memoria che non dimenticasse niente. La riteniamo persino mostruosa». Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, cit., p. 590.

119 « Là dove le neuroscienze parlano semplicemente di riattivazione delle tracce, il fenomenologo, lasciandosi istruire dall’esperienza viva, parlerà di una persistenza dell’impressione originaria. […] Deve essere allora postulata un’esistenza “inconscia” del ricordo, quale che sia il senso possibile da attribuire a questo inconscio. Tenterò di allargare l’ipotesi della preservazione a opera di se stessi, costitutiva della durata medesima, ad altri fenomeni di latenza, fino al punto in cui questa latenza può essere ritenuta come una figura positiva dell’oblio, che io chiamo oblio di riserva. Proprio a questo tesoro di oblio io attingo, quando mi viene voglia di ricordarmi di che cosa una volta ho visto, udito, provato, imparato, acquisito». Ibid., p. 608.

120 Ibid., pp. 596-608.

121 Ricoeur fa assurgere ad esempio il fenomeno che si è scatenato in Francia in seguito al collaborazionismo politico del regime di Vichy, periodo analizzato dallo studioso Henry Rousso che ne Le syndrome de Vichy de 1944 à nos jours si è soffermato sull’ossessione nei confronti del passato che ha travolto la società francese a partire dal periodo post-bellico fino ai giorni nostri. Ibid., pp. 637-642.

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memoria collegandolo a quello delle strategie dell’oblio che si innestano attraverso la funzione mediatrice del racconto:

Il pericolo principale, al termine del percorso, sta nella trattazione della storia autorizzata, imposta, celebrata, commemorata – della storia ufficiale. La risorsa del racconto diventa, così, la trappola, quando potenze superiori assumono la direzione di questa costruzione dell’intreccio e impongono un racconto canonico per via di intimidazione o di seduzione, di paura o di adulazione. È qui all’opera una scaltra forma di oblio, che risulta dallo spossessamento operato sugli attori sociali del loro potere originario di raccontare se stessi. Ma questo spossessamento non va senza una segreta complicità, che fa dell’oblio un comportamento semi-passivo e semi-attivo […]. L’Europa occidentale e il resto dell’Europa hanno dato, dopo gli anni di piombo della metà del XX secolo, il doloroso spettacolo di questa ostinata volontà. Il troppo poco di memoria, […] può essere classificato come oblio passivo, nella misura in cui può apparire come un deficit del lavoro di memoria. Ma, in quanto strategia di evitamento, di elusione, di fuga, si tratta di una forma ambigua, attiva altrettanto che passiva di oblio. In quanto attivo, questo oblio comporta la medesima sorta di responsabilità di quella che viene imputata agli atti di negligenza, di omissione, di imprudenza, di imprevidenza, in tutte le situazioni di non-agire, in cui retroattivamente a una coscienza illuminata e onesta appare che si doveva e che si poteva sapere o, per lo meno, cercare si sapere, che si doveva e poteva intervenire.122

Ricoeur identifica nell’amnistia una forma di abuso dell’oblio istituzionale: essa assume in alcuni casi le sembianze di una negazione della memoria, scivolando in quella amnesia che la fa allontanare dal suo fine ultimo, il perdono. Il superamento della frontiera tra amnistia e amnesia, afferma il filosofo, rischia di cancellare dalla memoria ufficiale quegli esempi di crimini che potrebbero proteggere l’avvenire dagli errori del passato e, allo stesso tempo, bloccare l’attivazione nell’opinione pubblica del dissenso.123

Tale confine può essere salvaguardato soltanto attraverso un lavoro di memoria che non può in

122 Ibid., p. 637. 123 Ibid., p. 646.

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alcun modo prescindere dal riconoscimento della colpa: «se una forma di oblio potrà, allora, essere legittimamente evocata, non consisterà in un dovere di tacere il male, bensì di dirlo su un modo pacificato, senza collera».124 Ricoeur introduce così il tema del perdono che «costituisce l’orizzonte comune della memoria, della storia e dell’oblio».125

Esso, afferma il filosofo, può essere concesso in seguito alla presa in carico della colpa da parte di colui che l’ha commessa: l’impresa di perdono è difficile, afferma Daniella Iannotta, «sia poiché richiede di confessare il male morale, la colpa che ne postula la domanda, sia poiché l’offeso può non concederlo, può non considerare riparata – o riparabile – l’offesa».126

Riparare le colpe, pagare il debito nei confronti del passato e aprirsi all’esperienza del perdono sono le condizioni necessarie per approdare ad una memoria felice, pacificata. Per poter essere portato a compimento tale processo deve necessariamente inscriversi, conclude Ricoeur, sotto il sigillo del riconoscimento: è attraverso la messa in atto di questo «piccolo miracolo della memoria»127 che si può fare un uso dell’oblio diverso da quello strategico o da quel «lavoro di oblio»128 che rischia, secondo il filosofo, «di non ritrovare altro che una memoria interminabile».129 Ricoeur propone così una terza via percorribile che coincide con il già citato «oblio di riserva»:

un oblio che non sarebbe più né strategia, né lavoro, un oblio non lavorato. Esso doppierebbe la memoria, non a titolo di rimemorazione di quanto è accaduto, né di memorizzazione di un qualche saper-fare, e nemmeno di commemorazione di eventi fondatori della nostra identità, ma di accurata disposizione installata nella durata. […] Questa ars oblivionis […] può soltanto disporsi al di sotto dell’ottativo della memoria felice. Verrebbe a mettere solamente una nota graziosa sul lavoro della memoria e sul lavoro del lutto. Poiché non si tratterebbe assolutamente più di lavoro.130

124 Ibid., p. 646. 125 Ibid., p. 649. 126 Ibid., p. XXI. 127 Ibid., p. 712.

128 In questo punto il pensiero di Ricoeur differisce da quello di Marc Augé. Il filosofo si riferisce in particolar modo all’idea di «lavoro di oblio» teorizzata dall’antropologo nel già citato saggio Les formes de l’oubli. Si veda, a tal proposito, p. 715.

129 Ibid., p. 716. 130 Ibid., p. 716.

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L’analisi di Ricoeur si conclude così sulle note di una speranza che, sulle orme del pensiero kierkegaardiano, spinge l’uomo a fare dell’oblio una liberazione dalla preoccupazione131 che possa condurlo verso una memoria riconciliata.

Attraverso il percorso fin qui tracciato si è tentato di mettere in luce i molteplici aspetti riguardanti la memoria culturale, i fattori che contribuiscono alla sua formazione, le manipolazioni alle quali essa è suo malgrado sottoposta, l’implicazione di elementi multiformi che tale tematica comporta. Queste teorie saranno un valido ausilio per l’analisi della scrittura germainiana che si presenta come un lavoro di memoria, un lavoro complesso che deve fare i conti con la necessità di ricordare senza tuttavia cadere in un eccesso di commemorazione, che non può prescindere da quella forma di oblio necessario ai fini di uno slancio verso l’avvenire, dall’assunzione di responsabilità, dalla coscienza del debito che ognuno di noi ha nei confronti dell’Altro; ma, a nostro avviso, essa è anche un atto di denuncia nei confronti di un’indifferenza generalizzata che anestetizza, quella dimenticanza a tratti attiva e a tratti passiva che non fa germinare alcuna speranza. Il cammino che ci accingiamo ad intraprenderà tenterà di rivelare le differenti fasi attraverso le quali l’opera di Sylvie Germain cerca di elaborare il passato, di confrontarsi con il suo peso a tratti insormontabile, di mantenerne vivo il ricordo e, infine, di cogliere la presenza di una nuova possibilità che non può e non deve dimenticare. Si tratta di un percorso articolato, imprescindibile per l’autrice da quell’esperienza di perdono difficile che, tuttavia, sembra intravedersi all’orizzonte.

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Capitolo II

Memoria, postmemoria, immagini, visioni

Nous sommes arrivés par un jour glacial. Un brave guide, comme dans un musée, ouvrait les portes. Il restait des valises, des lunettes, des témoignages comme cela et puis des photos de déportés. Je me suis trouvée d’un coup propulsée dans un monde incompréhensible. Ce l’est déjà pour l’esprit humain, ce l’est totalement pour une enfant qui n’avait aucune idée que cela avait existé. Cette horreur m’est tombée dessus. Sur le coup, je n’ai pas fait un rapport précis avec les Juifs : on avait déporté des gens. Cela m’a complètement marquée.

Sylvie Germain, Des larmes et de la grâce1

Nel panorama letterario francese del secondo Novecento, sulla cui scena Sylvie Germain irrompe nel 1985 con il primo romanzo Le Livre des Nuits, sono diversi gli scrittori che hanno sentito la necessità di consacrare le loro opere alla rielaborazione e alla ricostruzione di un passato tragico recente, in particolar modo quello della Shoah, che li ha visti direttamente o indirettamente coinvolti: è il caso di Georges Perec, la cui famiglia ebrea di origine polacca ha vissuto il dramma della guerra e dei campi di concentramento, di Patrick Modiano, ossessionato nei suoi romanzi dalla figura enigmatica di un padre che ha vissuto principalmente nell’illegalità durante il periodo dell’Occupazione tedesca e che sarà completamente assente nella vita del figlio, o di Andreï Makine, autore di origine russa di espressione francese che spesso ha svelato, attraverso la scrittura, i racconti di guerra che hanno nutrito la sua infanzia. La caratteristica che accomuna questi autori, e che rende possibile una serie di richiami tra le loro opere, è la comune appartenenza a quella generazione post-Auschwitz nata sulle

1 Sylvie Germain, entretien avec Anne-Marie Pirard, Des larmes et de la grâce, «La Cité», 19 marzo 1992.

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ceneri incandescenti di un passato traumatico le cui ferite sono ancora aperte e dolorose, generazione che ha cercato, attraverso la scrittura, di dare voce a tutti quegli individui (membri delle loro famiglie, ma anche anonimi, sconosciuti e soprattutto dimenticati) le cui vite sono state inghiottite dalle fauci della follia umana.

A proposito di quegli artisti e scrittori che sono cresciuti circondati dai racconti della Seconda Guerra mondiale e, in particolar modo, da quelli drammatici dei campi di sterminio, la studiosa americana Marianne Hirsch, partendo da una propria esperienza personale e familiare, ha coniato il termine

postmemory per descrivere la relazione che intercorre tra la seconda generazione e

le esperienze traumatiche che hanno preceduto la nascita degli individui ad essa appartenenti, esperienze non vissute direttamente sulla loro pelle, ma che hanno totalmente impregnato il loro immaginario tanto da assumere le sembianze di una vera e propria forma di memoria diretta: «These events happened in the past, but their effects continue into the present. This is, I believe, the experience of postmemory and the process of its generation».2

Hirsch si sofferma nello specifico sul ruolo svolto dalla fotografia in questo processo di mediazione, riflessione scaturita dall’osservazione delle immagini del fumettista Art Spiegelman che si susseguono nella prima pagina dell’edizione di The First Maus pubblicata nel 1972,3

nelle quali Spiegelman rielabora in forma di fumetto allegorico (usando la metafora di animali antropomorfi per rappresentare gli ebrei e i nazisti) la fotografia effettuata nel 1945 da Margaret-Bourke White all’interno di Buchenwald: la foto riporta un gruppo di sopravvissuti al campo di sterminio che osservano i liberatori americani dietro un recinto di filo spinato, un’immagine destinata a fare il giro del mondo e a colpire molte coscienze.

Marianne Hirsch evidenzia in particolare nel suo saggio come la memoria espressa da Spiegelman in Maus sia ampiamente influenzata dalla mediazione svolta dalla testimonianza orale di Vladel Spiegelman, padre del fumettista che ha

2 Marianne Hirsch, The Generation of Postmemory, cit., p. 107.

3 Art Spiegelman, The First Maus (1972), in Portrait of the Artist as a young %@?*!, #3, «Virginia Quarterly Review», 82, 4, 2006, pp. 30-43.

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vissuto il dramma dei campi e principale protagonista del suo «graphic novel», e dai pochi documenti sopravvissuti che gli appartengono:

Art Spiegelman’s memory is delayed, indirect, secondary – it is a postmemory of the Holocaust, mediated by the father-survivor but determinative for the son. He uses his father’s oral testimony and the few personal artifacts that have endured – photographs, documents, the few remaining records of a culture almost completely annihilated.4

Gli artisti e gli scrittori di quella che Hirsch identifica genericamente come «the second generation»5 instaurano così delle relazioni singolari con i testimoni e i partecipanti diretti della Storia che li ha preceduti, si nutrono dei loro racconti e, soprattutto, dei loro silenzi e ne rielaborano il peso attraverso diverse forme artistiche, ma soprattutto attingono ad un materiale che si rifà ad un archivio storico personale, nel quale la fotografia svolge un ruolo fondamentale, sia per ciò