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mente che L’ultimo giorno di un condannato a morte non è altro che una perorazione diretta o indiretta,

Nel documento L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE (pagine 30-46)

come si pr eferisce, per l’abolizione della pena di mor¬

te. Ciò che egli ha inteso fare, ciò che egli vorrebbe che la posterità vedesse nella sua opera, se mai s’oc¬

cuperà di tanto poco, non è la difesa speciale, sempre facile, sempre transitoria, di questo o quel criminale scelto, di questo o quell’accusato delezione; ma una perorazione generale e permanente in favore di tutti gli accusati presenti e a venire; è il grande punto di di¬

ritto dell’umanità, addotto e perorato a gran voce din¬

nanzi alla società, che rappresenta la grande corte di cassazione; è il supremo rigetto d’istanza, abhorrescere a sanguine, apposto per sempre in testa a tutti i processi criminali; è la cupa, fatale questione che oscuramente palpita al fondo di tutte le cause capitali, sotto il triplice strato di pathos di cui ravvolge la retorica sanguinosa degli uomini del re; è la questione di vita e di morte, vi dico, svestila, denudata, spogliata dei contorcimenti so¬

nori della pubblica accusa, brutalmente messa in luce e collocata dove bisogna vederla, dove occorre che sia, dove essa è realmente, nel suo vero spazio, in quell’or- rendo spazio che non è il tribunale ma il patibolo, e do¬

ve non sta un giudice ma un carnefice.

Questo è ciò che l’autore ha voluto fare. Se mai l’avvenire - egli non osa sperarlo - gli assegnerà la gloria ri averlo fatto, non chiederà altra corona.

Egli dunque dichiara, e lo ripete, di patrocinare tutti i possibili accusati, innocenti o colpevoli, da¬

vanti a tutte le corti, a tutte le aule, a tutte le giurie, a tutte le giustizie. Questo libro s'indirizza a chiunque giudica. E affinché la perorazione fosse ampia quan¬

to la causa, egli ha dovuto rimuovere ovunque dal suo soggetto - ed è per questo che L’ultimo giorno di un condannato a morte è così fatto - il contingente, l’accidentale, il particolare, l’eccezionale, il relativo, il modificabile, l’episodico, l'aneddoto, l’avvenimento, il nome proprio, limitandosi (se ciò equivale a limitarsi) a difendere la causa d’un condannato qualsiasi, giusti-

ziato in un giorno qualsiasi per un qualsiasi delitto.

Felice lui se, col solo strumento del pensiero, avrà sa¬

puto scavare tanto a fondo da far sanguinare un cuo¬

re sotto Yaes triplex del magistrato! felice lui se avrà saputo impietosire chi si credeva un giusto! felice lui se, a forza di scavare dentro al giudice, avrà potuto talvolta ritrovare l'uomo!

Tre anni fa, quando uscì il libro, alcuni ritennero do¬

veroso contestare all'autore la sua idea. Ci fu chi indicò unii bro inglese, chi un libro americano. Strana mania, quella di cercare a mille leghe l’origine delle cose, e di far nascere dalle sorgenti del Nilo il rivoletto che lava la vostra strada! Non ce qui dentro, purtroppo, nessun li¬

bro inglese né americano né cinese. L'autore ha preso l'idea de L’ultimo giorno di un condannato a morte non da un libro - non ha l’abitudine d’andare a cercare le sue idee tanto lontano ma dove voi tutti potevate pren¬

derla, dove forse l'avete presa (ditemi, chi non ha fatto o sognato dentro di sé L’ultimo giorno di un condanna¬

to a ritorte?), semplicemente nella pubblica piazza, in place de Grève. Fu lì che passando, un giorno, egli ha raccolto quell’idea fatale; giaceva in una pozza di san¬

gue, sotto i rossi monconi della ghigliottina.

Da allora ogni volta che, sulla scia dei funerei gio¬

vedì della Corte di cassazione, veniva il giorno in cui il grido duna condanna a morte risuonava per Pari¬

gi, ogni volta che l'autore sentiva passare sotto le sue finestre gli strilloni arrochiti che aizzavano gli spet¬

tatori verso la Grève, la dolorosa idea gli ritornava, s'appropriava di lui, gli empiva la testa di guardie, di carnefici e di folla, gli dettagliava ora per ora le ulti¬

me sofferenze dello sventurato agonizzante - adesso lo confessano, adesso gli tagliano i capelli, adesso gli legano le mani - intimandogli, povero poeta, di dir tutto alla società che pensa ai propri affari mentre si compie quel fatto mostruoso: lo sollecitava, Io spin¬

geva, lo scuoteva, gli strappava i versi dalla mente se

mai era intento a farne, glieli uccideva dentro ancora in bozzolo, gli impediva qualsiasi lavoro, si metteva dostacolo a tutto, rinvestiva, l’ossessionava, l'asse¬

diava. Era un supplizio, un supplizio che iniziava al mattino e che durava, come quello del miserabile che nello stesso istante veniva torturato, fino alle quattro. Soltanto allora, dopo il ponens caput expira- vit gridato dalla funesta voce dell’orologio, l’autore poteva respirare e l itrovare una qualche libertà di spirito. Finalmente un giorno, forse all'indomani dell'esecuzione d’Ulbach, se messo a scrivere questo libro. Da allora s'è sentito sollevato. Quando viene commesso uno di quei pubblici delitti che chiamano esecuzioni giudiziarie, la coscienza gli dice che lui non è più solidale; né se più sentito sulla fronte la goccia di sangue che dalla Grève zampilla sul capo di tutti i membri della comunità sociale.

Questo però non basta. Lavarsi le mani è bene, impedire che scorra il sangue sarebbe meglio.

Perciò egli non conosce uno scopo più elevato, più santo, più augusto del concorrere all'abolizione della pena di morte. Perciò dal fondo del cuore egli aderi¬

sce ai voti e agli sforzi degli uomini generosi di tutti i paesi che da anni s'adoperano ad abbattere l'albero patibolare, il solo che le rivoluzioni non sradicano.

Ed è con gioia che a sua volta viene, lui meschino, a dare il proprio colpo di scure per fare più profondo il taglio che, sessantasei anni fa, Beccaria lasciò sul vecchio patibolo eretto da secoli sulla cristianità.

I

Bicètre Condannato a morte!

Sono cinque settimane che abito con questo pen¬

siero, sempre solo con lui, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso!

Un tempo, giacché mi sembrano passati anni e non settimane, io ero un uomo come tanti. Ogni giorno, ogni ora o minuto aveva un'idea nuova. La mia mente, giovane e ricca, traboccava di fantasie, e si divertiva a dispiegare per me, una dopo l'altra, senz'ordine e senza fine, ricamando infiniti arabe¬

schi sulla stoffa ruvida e sottile della vita. Erano gio¬

vinette, erano cappe vescovili sontuose, battaglie vinte, teatri pieni di rumore e di luce, e poi ancora giovinette e buie passeggiate di notte sotto le larghe braccia degli ippocastani. Era sempre festa nella mia immaginazione. Potevo pensare a quel che volevo, ero libero.

Adesso sono prigioniero. Ho il corpo in ceppi in una cella, la mente imprigionata in un'idea. Un'orri¬

bile, una sanguinosa, un'implacabile idea! Non ho più che un pensiero, una convinzione, una certezza:

condannato a morte!

Qualsiasi cosa io faccia, l’infernale pensiero è sempre qui, al mio fianco come uno spettro di piom¬

bo, solo e geloso, e in faccia a me, sventurato, dile¬

gua ogni distrazione e mi scrolla con le sue mani ge-

lide quando vorrei girare la testa o chiudere gli oc¬

chi. S'insinua in tutte le forme con cui la niente vor¬

rebbe sfuggirgli, si mescola come un infame ritornel¬

lo alle parole che mi rivolgono, s'aggrappa con me alle orrende sbarre di questa cella, m'ossessiona da sveglio, spia il mio sonno convulso, e mi riappare nei sogni sotto forma dun coltello.

Mi desto di soprassalto, lui m'insegue, «Ah! è solo un sogno!» mi dico. Ebbene, ancor prima d'avere il tempo di schiudere questi occhi pesanti per vedere il fatale pensiero scritto nell'atroce realtà che mi circon¬

da, sulla pietra umida e st illante della cella, nei raggi pallidi della lampada, nella rozza trama di tela dei miei vestiti, sulla faccia cupa del soldato di guardia con la giberna che balena tra le sbarre, già mi sembra d'aver udito una voce mormorarmi al l'orecchio:

«Condannato a morte!»

II Era un bel mattino di agosto.

Da tre giorni era cominciato il mio processo; da tre giorni il mio nome e il mio delitto radunavano ogni mattina un nugolo di spettatori, pronti a buttarsi sui banchi della sala d’udienza come dei corvi attorno a un cadavere; da tre giorni una fantasmagoria di giu¬

dici, testimoni, avvocati, procuratori del re, ini passa¬

va e ripassava davanti, ora grottesca ora sanguinosa, sempre cupa e fatale. Le prime due notti, per l’ango¬

scia e il terrore, non avevo potuto dormire; la terza, m’ero addormentato per noia e per stanchezza. A mezzanotte avevo lasciato i giurati che deliberavano.

M'avevano ricondotto sulla paglia della cella, e imme¬

diatamente ero piombato in un sonno profondo, in un sonno d'oblio. Erano le prime ore di riposo dopo molti giorni.

Giacevo ancora al fondo di quel profondo sonno quando vennero a svegliarmi. Stavolta non bastaro¬

no i passi pesanti del carceriere, le scarpe ferrate, il tintinnio del mazzo di chiavi, lo stridere rauco delle serrature; mi ci vollero, per uscire da quella letargia, una brusca voce all'orecchio e una ruvida mano sul braccio. «Su, alzatevi!» Aprii gli occhi, mi drizzai a sedere sgomento. In quell'attimo, attraverso l’alta e stretta finestra della cella, vidi sul soffitto del corri¬

doio accanto, unico cielo che potessi scorgere, il ri¬

flesso giallo in cui degli occhi abituati alle tenebre duna prigione sanno così bene riconoscere il sole.

Amo il sole.

«È bel tempo» dissi al carceriere.

Rimase un istante senza rispondere, quasi si chie¬

desse se valeva la pena di spendere una parola; poi con uno sforzo mormorò brusco:

«Può darsi.»

Restavo immobile, con la mente semiaddormenta¬

ta, un sorriso sulle labbra e Io sguardo fisso verso il tenue riverbero dorato che screziava il soffitto.

«È proprio una bella giornata » ripetei.

«Sì,» rispose l'uomo «vi stanno aspettando.»

Quelle poche parole, come il filo che spezza il volo d'uri insetto, mi riportarono violentemente alla realtà.

Rividi di colpo, come alla luce d’un lampo, la cupa sala d'assise, il banco a ferro di cavallo dei giudici ingombro di stracci insanguinatile tre file di testimoni dalle facce attonite, le due guardie alle estremità del mio banco, e gli abiti neri agitarsi, le teste della folla brulicare laggiù, nell'ombra, e fermarsi su di me lo sguardo fisso dei do¬

dici giurati che avevano vegliato mentre io dormivo!

Mi alzai; battevo i denti, le mani mi tremavano e non riuscivano a trovare gli indumenti, le gambe era¬

no fiacche. Al primo passo, vacillai come un portatore troppo carico. Ciò nonostante seguii il carceriere.

Le due guardie m'aspettavano sulla porta della cel-

la. Mi rimisero le manette: avevano una serratura pic¬

cola e complicata che venne chiusa con cura. Lasciai fare: erano solo una macchina su una macchina.

Traversammo un cortile interno. L'aria viva del mattino mi rianimò. Alzai la testa. Il cielo era azzur¬

ro e i raggi caldi del sole, interrotti dai lunghi comi¬

gnoli, disegnavano grandi angoli di luce in cima ai muri alti e scuri della prigione. Faceva davvero bel tempo.

Salimmo una scala a chiocciola; passammo un corridoio, poi un altro, poi un terzo; poi una porta bassa s aprì. Un’aria calda, mista a un brusio, mi colpì in viso; era il fiato della folla nella sala d'assise.

Entrai.

Ci fu al mio apparire un rumore d armi e di voci. I banchi si spostarono fragorosamente. I tramezzi scricchiolarono; e mentre percorrevo la lunga sala fra quel duplice assembramento di popolo sbarrato dai soldati, mi sembrava d’essere il centro dove con¬

vergevano i fili che muovevano quelle facce piegate verso di me e a bocca aperta.

Fu in quel momento che m'accorsi d'essere senza ferri; ma non riuscii a ricordare né dove né quando me li avevano tolti.

Si fece allora un grande silenzio. Raggiunsi il mio posto. Non appena s'acquietò il tumulto tra la folla, esso cessò anche nelle mie idee. D'un tratto capii di¬

stintamente quel che avevo intuito in forma vaga fi¬

no allora, che il momento decisivo era venuto e che ero lì per ascoltare la sentenza.

Non so spiegarmi, ma per la maniera in cui mi venne quell’idea, io non provai alcun terrore. Le fine¬

stre erano aperte; l'aria e il rumore della città arriva¬

vano liberamente da fuori; la sala era chiara come per una festa nuziale; qua e là, i raggi gioiosi del sole disegnavano le sagome lucenti delle finestre che s'al¬

lungavano sul pavimento, avanzavano sui tavoli, si

spezzavano all'angolo dei muri; e da quelle losanghe di luce fino alle finestre, ogni raggio ritagliava nell’a¬

ria un gran prisma di polvere d'oro.

In fondo alla sala, i giudici avevano l'aria soddi¬

sfatta, probabilmente per la gioia di poter finire di lì a poco. Appena rischiarato dal riflesso d'un vetro, il volto del presidente aveva un che di calmo e di buo¬

no; e un giovane giudice aggiunto, spiegazzandosi il collaretto, discorreva quasi allegramente con una bella signora dal cappellino rosa, seduta dietro di lui per un privilegio particolare.

Solo i giurati apparivano lividi e abbattuti, ma senz'al¬

tro per la fatica d'aver vegliato tutta la notte. Alcuni sba¬

digliavano. Nel loro atteggiamento nulla indicava degli uomini che hanno appena emesso una sentenza di mor¬

te; e sul le facce di quei bravi borghesi non indovinavo che una gran voglia di dormire.

Di fronte a me c era una finestra spalancata. Sen¬

tivo ridere sul quai delle fioraie; e sul davanzale della finestra, una pianticella gialla, bagnata da un raggio di sole, giocava col vento in una fessura della pietra.

Come avrebbe potuto sorgere un'idea sinistra tra tante gentili sensazioni? Inondato d'aria e di sole, mi fu impossibile pensare ad altro che alla libertà; la speranza cominciò a splendermi dentro come la luce che mi stava intorno; e fiducioso aspettai il verdetto come si aspetta la liberazione e la vita.

Nel frattempo arrivò il mio avvocato. Lo stavano aspettando. Aveva pranzato abbondantemente e di buon appetito. Giunto al suo posto, si chinò verso di me con un sorriso.

«Io spero» mi disse.

«Non è vero?» risposi, sollevato e sorridente a mia volta.

«Sì» riprese «non so ancora niente della loro dichia¬

razione, ma avi-anno senz'altro scar tato la premedita¬

zione, e allora vi daranno soltanto i lavori forzati a vita.»

«Che dite, signore?» replicai indignato «cento vol¬

te meglio la morte!»

Sì, la morte! - E del resto, mi ripeteva una vaga voce interiore, cosa rischio a dir così? Se mai pronunciata una condanna a morte diversamente che a mezzanot¬

te, alla luce delle fiaccole, in una sala buia e nera, in una fredda notte di pioggia invernale? Ma nel mese di agosto, alle otto del mattino, in una giornata così bel¬

la, con quei buoni giurati, è impossibile! E i miei occhi tornavano a fissarsi sul fiorellino giallo al sole.

A un tratto il presidente, che aspettava solo l'avvo¬

cato, m'invitò ad alzarmi. Il drappello presentò le ar¬

mi; e come per una scossa elettrica l’intera assem¬

blea si levò in piedi all'istante. Una figura insulsa e scialba, che stava a un tavolo sotto il tribunale - do¬

veva trattarsi del cancelliere - prese la parola e lesse il verdetto che i giurati avevano pronunciato in mia assenza. Mi uscì dalle membra un sudore freddo;

m'appoggiai al muro per non cadere.

«Avvocato, avete qualcosa da dire riguardo all'ap¬

plicazione della pena?» chiese il presidente.

Avrei avuto tutto da dire, io, ma non mi usci nulla.

La lingua restò incollata al palato.

Il difensore si alzò.

Capii che cercava di attenuare la dichiarazione della giuria e d'insinuare, in luogo della pena richie¬

sta, l'altra pena, quella che aveva sperato e che tanto m'aveva ferito.

L’indignazione doveva essere ben forte per aprirsi un varco tra le mille emozioni che si disputavano la mia mente. Volevo ripetere ad alta voce quello che avevo già detto: cento volte meglio la morte! Ma mi mancò il fiato; potei solo afferrarlo per il braccio e gridare con forza convulsa: «No!».

11 procuratore generale replicò all'avvocato; io l'ascol¬

tavo con una soddisfazione inebetita. Poi i giudici usci¬

rono, tornarono, e il presidente mi lesse la sentenza.

«Condannato a morte!» disse la folla, e mentre mi portavano via, tutta quella gente si precipitò sui miei passi col fracasso d un edificio che crolla. Io cammina¬

vo, smarrito e stupefatto. S era compiuta una rivolu¬

zione in me. Fino alla condanna a morte, m ero sentito respirare, palpitare, vivere nello stesso spazio degli al¬

tri uomini; adesso distinguevo chiaramente una bar¬

riera tra me e il mondo. Niente m appariva più sotto lo stesso aspetto di prima. Le ampie finestre luminose, il bel sole, il cielo puro, il fiorellino, tutto era bianco, pal¬

lido, del colore d un lenzuolo. Mi pareva che gli uomi¬

ni, le donne, i ragazzini che s affollavano al mio pas¬

saggio, avessero lariadi tanti fantasmi.

In fondo alle scale m'aspettava una nera e sporca carrozza con le inferriate. Al momento di salirvi, lan¬

ciai a caso un'occhiata nella piazza. «Un condannato a morte!» gridavano i passanti, correndo verso la vet¬

tura. Attraverso la nube che sentivo interposta tra me e le cose, distinsi due ragazze che mi seguivano avidamente con gli occhi. «E così» diceva la più gio¬

vane, battendo le mani «sarà tra sei settimane!»

Ili Condannato a morte!

Ebbene, perché no? Gli uomini, ricordo d'aver let¬

to in chissà quale libro dove non c era che questo di buono,1 gli uomini son tutti condannati a morte con proroghe indefinite. Cosa c'è dunque di tanto cambia¬

to nella mia situazione?

Dall’ora in cui è stata pronunciata la sentenza, quanti sono morti, che si disponevano a una lunga

1 In realtà la frase si incontra al cap. XLVITI del romanzo Han dislande, che Hugo aveva pubblicato nel 1823.

vita! Quanti mi hanno preceduto che, giovani, liberi, sani, certo contavano d’andare un giorno a veder ca¬

dere la mia testa in Place de Grève! E forse, da oggi ad allora, quanti ancora mi precederanno, che cam¬

minano e respirano all'aria aperta, entrano ed esco¬

no a loro piacimento!

Ma in fondo, che cos’ha la vita perché io debba tanto rimpiangerla? Solo un po' di luce fioca, il tozzo di pane nero del carcere, la povera razione di broda¬

glia presa dalla marmitta dei galeotti; e venir mal¬

trattato, malmenato dai carcerieri, dagli aguzzini - proprio io, affinato dall'educazione -, non vedere mai un essere umano che mi creda degno di una pa¬

rola e a cui rispondere, trasalire di continuo per quello che ho fatto e che mi faranno: son questi, pressappoco, i soli beni che il boia possa togliermi.

Ah! non importa, è orribile!

IV

La nera vettura mi condusse qui, nell'infame Bicètre.

Da lontano, ledificio non manca d’imponenza. Si profila all'orizzonte, sul fianco duna collina, e a di¬

stanza conserva qualcosa dell'antico splendore, un'a¬

ria da castello reale. Ma provate ad avvicinarvi, e il palazzo diventerà una stamberga. I frontoni in rovi¬

na offendono lo sguardo. Un che di vergognoso e mi¬

serando aleggia sulle regali facciate; i muri paiono affetti da una lebbra. Non più vetri né ante alle fine¬

stre; solo sbarre massicce di ferro incrociate, con la faccia sparuta d'un galeotto o d'un matto che qua e là vi s'incolla.

È la vita vista da vicino.

V

Appena arrivato, s'impadronirono di me delle mani di ferro. Le precauzioni si moltiplicarono; non un coltel¬

lo né una forchetta per il pasto; la camicia di forza, una specie di sacco di tela da vela, m'imprigionò le braccia; c era da rispondere della mia vita. M ero ap¬

lo né una forchetta per il pasto; la camicia di forza, una specie di sacco di tela da vela, m'imprigionò le braccia; c era da rispondere della mia vita. M ero ap¬

Nel documento L ULTIMO GIORNO DI UN CONDANNATO A MORTE (pagine 30-46)